Riemergono dal vecchio quadernetto, sempre rimandati al “giorno dopo” nel mio ultimo lungo periodo di silenzio. E allora tanto vale riscriverle ora, queste due paginette di appunti su uno dei dischi più idolatrati eppure inesplorati di cui sono in possesso.
Starsailor non “esiste”, secondo il senso italiano del termine. Esiste nel senso latino di “ex-sisto”, ciò “vengo fuori”.Semplicemente emerge, fuoriesce ogni volta, ad ogni ascolto, da quello spazio buio e siderale in cui la voce ha potere cosmogonico e creatore.Sulla carta, nel titolo, sarebbe un viaggio interstellare sul modello di certo Sun-Ra; la sezione di fiati delle Mothers of Inventions, elastica, scattante, capace di spigolosità come di voluttuosa grazia, restituisce un sound troppo facilmente etichettabile come jazz, o jazz-folk che dir si voglia. Ma che in realtà è altro.Intanto è il recupero, la riesumazione addirittura, di una forma-canzone che dopo Lorca pareva dimenticata e sepolta. Una forma concisa, strutturata, scritta e ben arrangiata, eppure deforme, rispetto allo standard “pop” del periodo.La voce, o le 1000 voci del cantante, ne fanno abissale differenza. Creano nuovi timbri sonori, profondità tridimensionali, echi perduranti. Passa ora veloce come una cometa, ora lenta come la rivoluzione di un quasar; ruota orbitale come il satellite.Un album “nero” in fondo; non perché tetro o depresso né perché satanico o orrorifico. E’ il buio stesso dell’universo; degli spazi in assenza di luce, atmosfera e materia. Il nero della faccia nascosta dei pianeti, in una irreversibile notte eterna.Su questo sfondo, il cantante illumina squarci di nebulose colorate, effimere ma lucenti, ondivaghe anche quando rigorose se non perfino rabbiose.Grandi fiori cosmici che sbocciano nel silenzio. Manca la paura paralizzante di Lorca, manca la solitaria foschia malinconica di Blue Afternoon e il silenzio di Happy/Sad.C’è al contrario una rinnovata esigenza di azione, di scatto. Di essere presente, vivo sulla scena hic et nunc.A suo modo è l’opera più “rock” di Tim Buckley, con accenti grintosi, slanci addirittura rabbiosi, ritmi funky e negroidi; quella stessa vena ora anarchica, ora corrucciata, ora anticonformista di certi ur-punk alla Beefheart.All’alba del 1970, orami stremato dall’indifferenza e dall’insuccesso cronico, Tim si imbarca nell’ultimo lavoro che conta, l’ultimo vero viaggio, quello definitivo e da cui non c’è ritorno. Dopo saranno solo schiamazzi da cabaret in un taxi giallo su e giù per Ocean Boulevard.Starsailor, il “viaggiatore delle stelle” è una ridotta Odissea tra pianeti estranei. Un album che ha poco delle mistiche dilatazioni di Zeit o Atem, colossi teutonici di portata hegeliana che percepiscono lo spazio come un flusso vitale di energia e materia pulsanti.Starsailor è una grande stanza vuota, senza finestre. Nulla tranne la voce: solo lei riempie questo spazio. In un continuo virtuosismo che mai aspira al “bello delle proporzioni”, ma piuttosto all’alienante, allo straniante. E’ quella eco che si porta dietro l’astronauta disperso e lontanissimo dall’approdo.
Come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l'infinità di stelle presenti nell'universo?Paradosso di Olbers