Interpellato dal Corriere della Sera (18 luglio) a commentare i tagli al personale del proprio dicastero, il ministro della Difesa Amm. Giampaolo Di Paola citava « chiari pregiudizi ideologici » quali cause della perenne insoddisfazione dell’opinione pubblica riguardo la risistemazione del settore della Difesa. Ad ascoltare le facili demagogie di chi conta il numero di scuole e ospedali finanziabili previa rinuncia a costosi armamenti, si potrebbe concordare con la tesi del ministro. E ci si può spingere più in là, affermando che la Difesa italiana non sia afflitta da sola diffidenza popolare, ma anche da una sostanziale incongruenza tra fini e mezzi. Pubblicato nella prima decade di novembre, il National Security Outlook redatto da Gary J. Schmitt per l’American Enterprise Institute for Public Policy Research fotografa questi aspetti e fa emergere un dato per certi versi paradossale: l’Italia spende troppo poco – e male – per garantirsi uno strumento militare efficiente. Perdipiù, senza un adeguato supporto di visione strategica che tenga in conto le reali prerogative nazionali.
Nel suo “Italian Hard Power: Ambitions and Fiscal Realities”, Schmitt sottolinea come per ben sedici anni, dal 1985 al 2001, il Paese abbia vissuto la transizione dalla Guerra Fredda alle minacce contemporanee senza un documento che ridefinisse la visione strategia nazionale. Quando nel 2002 il Libro Bianco della Difesa recepì i mutamenti post 11 settembre, passando attraverso la prima campagna in Iraq e le crisi in Africa e nei Balcani, lo strumento militare italiano si trovò obbligato a modernizzare mezzi, infrastrutture e competenze del personale. Non più compiti di difesa territoriale ma coinvolgimento in missioni internazionali in teatri lontani, dove a contare sono l’interoperabilità fra uomini e mezzi di Paesi diversi e la flessibilità nel dispiegare le proprie forze. Contesti che le missioni sotto egida ONU e UE pongono come teatri principali per il dispiegamento dei battaglioni multinazionali, in cui l’Italia schierava nel 2006 oltre 10.000 uomini.
L’ambizione di garantirsi un alto livello di considerazione, in primis dell’alleato americano tramite l’appoggio alle missioni in Iraq e Afghanistan, ha tuttavia evidenziato la leggerezza con cui discutibili scelte politiche – di colore diverso – hanno ignorato la scarsa corrispondenza tra le velleità di ottenere un consolidato ruolo internazionale e un bilancio scricchiolante. Ben presto scesa sotto lo standard NATO del 2% del PIL, la spesa per la Difesa è arrivata nel 2012 a toccare lo 0,84% del prodotto nazionale, con l’incredibile paradosso di venir dedicata per il 70% alle spese per il personale (settore peraltro fatto oggetti dei tagli operati dal ministro Di Paola) e solo per il 18,2% alle spese di investimento, ovvero alle attività di ricerca e sviluppo, modernizzazione e acquisizione fondamentali per colmare quei deficit di operabilità che certo non giovano al prestigio internazionale. Basti pensare alla portaerei Garibaldi, ritirata anzitempo dalle operazioni in Libia per contenere i costi.
Spese in calo e tagli di esuberi, normale prassi in tempi di austerità. L’attività dell’ultimo esecutivo pare ancora ineccepibile. Senonché, tra le righe dei bilanci del ministero e nelle parole di ministri e alti ranghi militari si continua a leggere l’irresistibile tendenza a sacrificare la coerenza del proprio agire in nome di antiche fedeltà, “a difesa del proprio interesse economico e strategico della nazione”. E’ il caso della partecipazione italiana al programma Joint Strike Fighter, il più costoso e ambizioso progetto in cui il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti si sia mai imbarcato. Sulla scorta dei tagli draconiani imposti da Clinton nel 1993 sui programmi più costosi della Difesa, il JSF avrebbe dovuto concentrare in un unico velivolo le richieste di Air Force, Marines e Marine di Stati Uniti e Gran Bretagna. Dal 1996 ad oggi, l’Italia ha contribuito per oltre 2 miliardi di dollari garantendosi una partecipazione da partner di secondo livello – un gradino sotto la Gran Bretagna – e la possibilità di ospitare una linea di assemblaggio. Governi e maggioranze che hanno scandito le tappe della partecipazione, senza mai sollevare riflessioni circa la sostenibilità finanziaria.
Ne avrebbero avuto ben donde: il “caccia sostenibile” ha presto tradito il suo appellativo e oggi il costo stellare di 160 milioni per aereo non pare congruo con la lunga lista di requisiti operativi rimasti incompiuti. Quasi l’intera compagine di paesi partner e futuri acquirenti ha espresso rimostranze: Danimarca e Paesi Bassi pensano a sospendere il programma, in Canada l’omologo della nostrana Corte dei Conti ha fatto pesanti considerazioni circa l’affidabilità e la sostenibilità del progetto. E l’Italia ? Complice un dibattito parlamentare piuttosto appiattito, il programma prosegue pressoché indenne, tra qualche sopracciglio aggrottato e alzate di spalle. Ironia vuole che la Marina, l’unico corpo che ha assoluta necessità di acquistare il JSF a decollo verticale per non rendere obsoleta la portaerei Cavour, si ritrovi a contendersi con le forze aeree i 30 esemplari superstiti dei tagli di febbraio, che hanno fatto calare da 131 e 90 gli aerei in prossimo acquisto. Il tempo per retrocedere dal programma non è scaduto: senza veri contratti di acquisto non sono previste penali e la perdita sarebbe contenuta – si fa per dire – ai 2 miliardi di euro già investiti, senza aggravi per le già piangenti casse statali. Un qualunque ripensamento sembra tuttavia improbabile, malgrado esperienze di altri Paesi suggeriscano un futuro meno ineluttabile.
La Germania, su tutti, è coinvolta negli ultimi anni in un immane uno sforzo di razionalizzazione del proprio esercito, con l’obiettivo di farne un corpo flessibile e facilmente dispiegabile in missioni internazionali applicando tagli da 8 miliardi di euro tra 2012 e 2014. Verrà ristrutturata anche la flotta aerea che, pensionati i Tornado, sarà interamente composta da Eurofighter Typhoon. Frutto dell’opera di quattro campioni nazionali dell’aerospazio di Gran Bretagna (Bae), Germania (Eads), Italia (Finmeccanica – Alenia) e Spagna (Thales), l’Eurofighter è il massimo esempio di cooperazione europea in materia di difesa. In termini operativi, economici e politici. Operativi in quanto caccia multiruolo, nato per difesa aerea ma già testato dagli inglesi in Libia per attacchi al suolo. Economici, perché il coinvolgimento progettuale delle aziende europee è in veste di prime contractor anziché di imprese in subappalto. Politici, per la dimostrata capacità di poter unire i “complessi militar-industriali” degli Stati europei in un settore altrimenti dominato dai colossi statunitensi.
L’insostituibilità del JSF ha poi un ultimo grande nemico: la rivisitazione delle priorità strategiche nazionali. La tesi del ritorno tecnologico ed occupazionale scricchiola di fronte alle manifeste restrizioni dell’esportazione di know-how dagli States ed all’incertezza dei tempi di piena produzione traslati dal 2013 al 2019. Se pure per un attimo dimenticassimo che la partecipazione internazionale fu invocata dal Pentagono per accrescere le economie di scala aumentando il numero di commesse, la scelta del JSF equivale pur sempre all’appiattimento sulle priorità strategiche statunitensi, ormai prossime a trascurare il teatro europeo a favore di quello asiatico. Sullo sfondo rimane, infine, la mai chiarita divisione dei compiti in ambito internazionale: si pensi ai bombardieri Harrier della Marina Italiana, impiegati in Afghanistan solo come apripista degli striker alleati.
Nell’assegnare l’insufficienza allo strumento difensivo italiano, Schmitt manca forse di porsi alcune domande centrali. Cosa impedisce all’Italia di promuovere uno strumento militare europeo, autonomo dal supporto statunitense, coerente con gli interessi che l’Europa nutre nel Mediterraneo e nel vicino Oriente ? Perché in era di tecnici e supercommissari, il Paese è rimasto coinvolto in un programma che nulla offre alla propria industria più di quanto già si possa produrre (leggi Eurofighter) ? Come può un azzardo miliardario coniugarsi con mesi di spending review e austerità alla tedesca ?