Mai letta una riga di Cinquanta sfumature di grigio, e neanche degli altri colori arrivati in rapida successione dopo le milionate vendute worldwide dal capostipite. Diffido naturalmente dei bestselleroni, tutt’al più mi incuriosiscono come fenomeno socio-antropologico, giusto per capire da che parte stanno lo Zeitgeist e le sue sottoincarnazioni. Ma in quel caso neanche la curiosità mi è bastata per comprare, aprire, leggere quel libro di un’inglese furba di nome E.L. James. Intanto, ecco arrivare con parecchio anticipo sull’uscita in sala (che sarà il prossimo 14 febbraio-San Valentino) il trailer del film che ne è stato tratto. Che dire? Ho sempre avuto un certo rispetto per la signora Sam Taylor-Johnson (anche nota come Sam Taylor-Wood), regista di questo Fifty Shades of Grey, nata però alle cronache cultural-fashioniste come fotografa e visual artist, e ricordo ancora una bella mostra di suoi lavori allo Spazio Prada di Milano quand’era ancora in via Spartaco (enormi fotografie a tutta parete formicolanti di personaggi come tele bruegheliane e, mi pare, anche un rifacimento laico-contemporaneo-londinese dell’Ultima cena, o The Last Supper, come dicon da quelle parti). Poi la signora è diventata molto di moda, in ogni senso. Per via che s’è messa a fare servizi per i glossy magazines più glossy ed è stata adottata dal fashion system, e per essere diventata una presenza di un certo peso sulla scena social e nel gossip dopo aver sposato l’attore Aaron Taylor-Johnson, più giovane di lei di 23 anni. Finendo, man mano che la fama cresceva, col glamourizzare sempre più il suo lavoro, e però conservando quella sua voglia di indagare corpi e facce e poi oggettivarli gelidamente in tableaux vivants. Un’operazione da collezionista di farfalle. Sam Taylor-Johnson (o Wood) ha fatto il salto nel cinema girando Nowhere Boy, ritratto di John Lennon da giovane da noi circolato pochissimo (ogni tanto rispunta nei palinsesti televisivi, se vi capita dategli un’occhiata), e proprio in quell’occasione ha conosciuto il futuro marito. Qualcosa, anzi parecchio, di quell’approccio da entomologa, da osservatrice distante, traspare dal trailer di Fifty Shades of Grey. Le figure si muovono come in un acquario, sonnambuli in ambienti di perfetto e razionale décor e design, linee pure, linde, asettiche che rimandano a un sesso ripulito di ogni carica anarchica ed eversiva, di ogni irregolarità vera, passato in varechina e amuchina. Dove la perversione del fetish e del sadomaso è ridotta a rituale glamorous, estenuato e anodino da coppietta bon ton. Una neutralizzazione-depurazione probabilmente necessaria, senza la quale il libro di E.L. James non avrebbe mai conquistate le sue legioni di signore e signorine lettrici, e lo stesso vale per il film. L’eros pericoloso entra in camere da letto molto ben arredate e molto ben fotografate perdendo ogni sapore e ogni odore nonostante l’abbondanza di fluidi corporali che irrorano lo schermo, e anche ogni attendibilità (chi mai potrà davvero credere alla genuina passione di due tizi così?) e però si guadagna il permesso di viaggiare nelle menti e nei corpi delle platee globali, che è poi quello che conta davvero per il marketing. Inutile indignarsi, di simili ripuliture del sesso se ne sono sempre viste. Basta non prendere Cinquanta sfumature di grigio come un’esplorazione della forza e del disordine degli istinti, come un altro Nymphomaniac, di cui se mai è la versione di massa e deproblematizzata, senza pensiero e nemmeno pathos. Quanto ai due interpreti: lei, Dakota Johnson, figlia di Melanie Griffith e Don Johnson, nipote di Tippi Hedren, ha una faccia non convenzionale e non plastificata con un che (ma solo un che) di Charlotte Gainsbourg, e della coppia protagonista mi sembra la parte migliore. Lui, Jamie Dornan, ha un’aria da bambolo-modellone e francamente si stenta a pensarlo quale master alle prese con maschere, nodi, fruste e vari paraphernarlia S/M. Ma pure la sua presenza così neutra è un tributo alla necessità di depurare, sopire, ripulire, de-drammatizzare. Chissà se Dakota Johnson sarà alla mostra di Venezia, visto che figura tra gli interpreti (insieme a Milla Jovocich, Ethan Hawke e Ed Harris) del Cymbeline shakespeariano nella versione di Michael Almereyda in programma a Orizzonti.