Il giudizio di un’opera d’arte al netto della fama di cui gode l’autore è cosa tanto più difficile quanto più le sue virtù son celebrate, e diventa difficilissima quando si tratta di un artista universalmente apprezzato. Mai come in campo artistico, infatti, vige la regola che l’universalmente apprezzato consenta solo variazioni delle più comuni lodi che ha fin lì raccolto. Se contiene spunti critici, infatti, l’analisi dell’opera d’arte universalmente apprezzata sembra sempre l’eccentrica trasgressione di un bastiancontrario che sfida la solidità del più ovvio buon senso.
Se tuttavia rimane ancora possibile criticare il lavoro di un artista universalmente apprezzato quando questi è ancora vivo o quando la sua fama non ha subito ancora la stagionatura di due o tre generazioni, trovare pecche nel dipinto di un grande del passato è del tutto sconsigliato, perché si corrono più rischi di quanti ne corra il blasfemo sorpreso a pisciare nell’acquasantiera. Azzardarsi, così, a rilevare che le anatomie di Michelangelo sono spesso sproporzionate è come un bestemmiare.Chi può permettersi di affermare che «il chiaroscuro del Caravaggio non ci impressiona più, perché è troppo ovviamente ispirato da un interesse tecnico e finisce col produrre effetti melodrammatici, con un gusto del contrasto che trova risultati assai più felici in opere del pieno Quattrocento»? Giusto un Berenson, non altri. Che però ha ragione: il Caravaggio «sbatte un cuneo di luce contro una superficie indeterminata, forse una parete, forse un soffitto, e raramente ci dice dove siamo, in che specie di spazio la scena si svolge, e fra quali dimensioni». Non è forse vero che i suoi nudi «sembrano visti indirettamente, come in uno specchio, e mancano del calore della presenza immediata»? Un artista che si esaurì negli effetti speciali, e che perciò fu messo nel dimenticatoio per qualche secolo, a ragione superato da «Velásquez, Vermeer, Rembrandt [che] impararono da lui e, profittando dei suoi insegnamenti, evitarono gli eccessi dell’innovatore»Un grande solo dopo la riscoperta, il Caravaggio. Una fama esagerata, per lo più dovuta al gusto del momento in cui fu riscoperto. E vogliamo parlare di Leonardo? Eccezionale anatomista, felicissimo occhio nel cogliere torsioni, scatti e tensioni, ma una buona volta vogliamo dirlo? Al netto del tanto che se n’è detto, la sua Monna Lisa fa cagare. Acquista un senso solo coi baffi che le aggiunse Duchamp.Questo pensavo domenica, leggendo il doppio paginone a firma di Lauretta Colonnelli su La Lettura del Corriere della Sera, dedicato ai dipinti di Raffaello che affrescano la Stanza di Eliodoro, di recente sottoposti a restauro. Restauro che ha consentito una scoperta: lì Raffaello usò la velatura a calce. «Nessun artista prima di Raffaello l’aveva praticata, nessuno dopo di lui l’ha più usata. La tecnica era rimasta sconosciuta anche ai contemporanei del maestro urbinate. O forse l’avevano ritenuta un semplice virtuosismo. Neppure il Vasari ne fa cenno. I manuali delle tecniche pittoriche la ignorano»: ecco un bell’esempio di sospensione del giudizio critico dinanzi alla fama di un grande.Questa eccezionale particolarità non solleva alcun dubbio, nessuna perplessità si affaccia. E sì che siamo di fronte a una tecnica usata solitamente dagli imbianchini, perché una cosa è la velatura a strati sovrapposti di pigmento dalle tonalità diverse, ampiamente conosciuta nella storia dell’arte, un’altra è la velatura a calce, che ha solo due possibili scopi, a seconda dello spessore del materiale apposto al sottostante strato di pigmento affrescato: proteggerlo dagli agenti atmosferici o dargli effetto di trasparenza in profondità. Possiamo escludere il primo, perché la superficie che fa da supporto al dipinto è in un interno. Dice nulla, dunque, che Raffaello abbia usato una tecnica di addomesticazione dell’effetto reso dall’affresco? È così scandaloso immaginare che non fosse soddisfatto del risultato e abbia voluto migliorarlo grazie a un velo che opacizzasse le scene raffigurate per conferire loro quell’atmosfera di sospensione che non gli sembrava di essere stato in grado di rendere? Solo se diamo per scontato che a Raffaello non potesse venirgliene storta neanche una. Basta però dare uno sguardo alla Stanza di Eliodoro oltre il velo di calce e soprattutto oltre la fama, per altro meritata, per capire che si tratta della più infelice prova dell’artista. A mio modesto avviso, la velatura a calce è stata una soluzione approntata in modo del tutto estemporaneo. E il fatto che Raffaello non l’abbia mai più adottata rivela che non gli sembrò neppure una soluzione del tutto convincente.Basta considerare l’elemento che quasi certamente pose il problema: la raggiera di luce in cui è avvolto l’angelo che libera Pietrodalla prigione. Per meglio dire: che dovrebbe renderel’effetto di avvolgerlo e che invece gli sta solo dietro.Si tratta di un ovale che ha l’asse lungo parallelo asse mediano della figura, ma è fin troppo evidente che non gli è coincidente. La velatura a calce voleva schiarire la figura conl’intenzione di includerla nel volume di luce. Raffaello deve aver pensato che per dare profondità all’ovale, renderlo un ovoide entro il quale l’angelo apparisse irradiarlo dalla sua figura, bastasse la raggiera che se ne dirama, ma la soluzione deve essergli apparsa artificiale, come da effetto posticcio.La velatura in calce aveva perso nel tempo la sua efficacia per il materiale che vi era accumulato sopra nel tempo. Ben evidenti erano solo i contorni della figura sottostante e il maldestro restauratore degli anni Cinquanta non aveva trovato nulla di meglio che rinforzare i raggi scontornandola, nel tentativo di ottenere lo stesso effetto di avvolgimento. Una sola differenza tra Raffaello e il maldestro restauratore: il primo non andò troppo per il sottile, il secondo si trovava di fronte all’opera di un grande e pensò di aggiungervi ciò che riteneva fosse andato perso. L’autore dell’affresconon aveva di sé la considerazione che gli sarebbe stata tributata dopo: non si sentiva infallibile.