Velia (Sa), colonia greca
di Saverio Malatesta
Per chi opera nel settore dei beni culturali, l’emergenza è la regola, non l’eccezione. Il clamore sensazionalistico provocato dai crolli nel sito di Pompei, infatti, ha sorpreso solo i non addetti, come ad esempio i giornalisti ed i politici. I primi, in una società spettacolarizzata, ricercano l’effetto sorpresa, la notizia ad effetto, l’evento che spiazza; i secondi da tempo hanno preferito ignorare il territorio che, costituzionalmente, dovrebbero difendere e proteggere: che regni una certa trascuratezza da parte delle istituzioni, però, è innegabilmente vero, ed a decretarlo sono i fatti, non vane accuse letterarie o fantasie di una fazione.
Dinanzi alla desolante verità di un edificio romano, resistito ad un’eruzione vulcanica, che crolla per incuria, non si è avuta un’autocritica da parte di chi nel frattempo aveva avuto il potere ed i mezzi per intervenire con decisione, o, quantomeno, per avviare una serie di interventi dilazionati nel tempo; con fare molto italico, si è giocato al rimpallo delle responsabilità finché il polverone, tanto delle macerie, quanto mediatico, si è attenuato. E qui era in ballo Pompei, sito unico nel suo genere nel mondo, uno dei simboli dell’Italia: per un momento, i riflettori hanno illuminato di sfuggita uno dei problemi più gravi che attanagliano quello che una volta era il Belpaese.
Non si tratta della classe politica che lo governa o che lo ha governato: affermare questo, vorrebbe dire scambiare gli effetti per le cause. No, non è la politica, o la scarsa informazione in proposito sui mass media, è la mancanza di sdegno da parte di noi cittadini italiani, ormai senza più orgoglio: sembra che del nostro Paese non ci importi più nulla, vagamente o decisamente rassegnati ai diffusissimi adagi del “tanto è sempre stato così”, “nulla può cambiare”, e via dicendo. L’alzata di spalle sembra esser divenuto lo sport nazionale. Non una voce comune si è levata all’affermazione di un ministro che “con la cultura non si mangia”: sembra persino superfluo commentare una così chiara idiozia, trattandosi il nostro di un paese a spiccata vocazione turistica, volendo rimanere terra terra. Ma, al di là dei soliti intellettuali, non uno che abbia urlato: “Cosa?!?”
Prima che di finanziamenti, che sono essenziali per la salvaguardia, la protezione e la tutela della nostra ricchezza culturale, e che, adeguatamente investiti, garantiscono un ritorno grandemente maggiorato, è emergenza mentale. Nella coscienza civile di ogni cittadino dovrebbe trovarsi geneticamente l’amore per il proprio patrimonio storico, nel senso più vasto del termine, perché preservare il passato vuol dire progettare meglio il futuro. Invece l’Istituto Centrale per il Restauro è sotto sfratto (magari fosse una barzelletta), le biblioteche sono costrette ad aperture a singhiozzo, bellissimi paesaggi vengono profanati selvaggiamente dal cemento, aree archeologiche si sbriciolano: tutto ciò avviene perché i soldi vengono deviati su iniziative labili e sciocche, prive di qualunque lungimiranza, mentre noi permettiamo, con il nostro silenzio e con la nostra inerzia, che questo scempio avvenga continuamente, consentendo che il nostro passato svanisca in nome di un tornaconto immediato e suicida.
Quindi, perché narrare dell’ennesimo sito che versa in condizioni di abbandono? Perché dire che nella patria di filosofi di importanza cruciale per la cultura occidentale mancano i soldi per riaprire al pubblico l’unico esempio di arco greco, straordinaria testimonianza di sistemazione urbanistica, di tutta la Magna Grecia, chiuso da ben tre anni per uno smottamento? E che nel luogo dove si sviluppò una delle scuole mediche più importanti della nostra penisola, tradizione poi trasferitasi a Salerno dove continuò a prosperare per secoli, poco ci manca che uno dei pozzi sacri, posto in una delle vie principali del sito, diventi, iperbolicamente, un focolaio di malaria, mancandone del tutto la manutenzione? Per chi lavora o ha interesse nel settore, ognuno di questi interrogativi comporta un spasimo acuto, quasi una fitta da infarto: è l’impotenza derivante dall’impossibilità di agire, mancando la pecunia, ma è soprattutto la dolorosa amarezza del silenzio che avvolge questa lentissima, quanto costante agonia del nostro Paese. Se di Pompei si è parlato per meno di un mese; se i restauri del Colosseo, affidati ad imprese edili e non a ditte specializzate, non hanno suscitato sdegno alcuno; se il crollo di un tratto dell’acquedotto a Tivoli ha meritato solo un trafiletto in decima pagina del giornale locale, ovviamente dopo le notizie sportive; a chi importerà delle frane a Velia, colonia greca notevolissima, ennesimo emblema di un’Italia in disfacimento?
Nella foto: Porta Rosa, Velia (cortesia sito Soprintendenza di Salerno ed Avellino).