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Veltroni dice di sapere chi c’è dietro ai grandi misteri italiani ma aspetta che gli sia rivelato “il quarto segreto di Fatima” per cominciare a parlare.

Creato il 12 marzo 2012 da Malpaese @IlMalpaese

Veltroni dice di sapere chi c’è dietro ai grandi misteri italiani ma aspetta che gli sia rivelato “il quarto segreto di Fatima” per cominciare a parlare.In una lettera al Corriere della Sera  Veltroni parla dei piu’ grandi misteri italiani. Quello che si capisce leggendo la lettera è che Veltroni sappia molto di piu’ di quello che scrive oppure finge di sapere. A leggere quello che scrive sembra davvero che se dovesse dire tutto quello che sa gran parte dei misteri italiani, come la morte di Falcone e Borsellino, verrebbero svelati. Ma lui, certo si sapere, non parla, non gli sfiora minimamente l’idea di recarsi dai magistrati preposti per parlare. Si limita a compiacersi di sapere, scrivendo delle simpatiche letterine a De Bortoli, ma non parla. Probabilmente sta aspettando che gli sia rivelato anche “il quarto segreto di Fatima” per cominciare a parlare, giusto per svelarli proprio tutti i segreti.

Ecco la simpatica letterina al direttore:

“Caro direttore, io so che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono stati uccisi solo dalla mafia. Io so che lo Stato, o pezzi di esso, ha collaborato, coperto, deviato. Io so che l’attentato dell’Addaura fu organizzato da «menti raffinatissime», che volevano togliere di mezzo quel magistrato scomodo per tutti. Io so che qualcuno mandò lì, per salvare Falcone, due ragazzi, due agenti dei servizi leali allo Stato. Si chiamavano Antonino Agostino e Emanuele Piazza. Io so che non è stata solo la mafia ad ucciderli, l’uno massacrato con sua moglie e l’altro sciolto nell’acido, nelle campagne di Capaci. Io so che Scarantino ed altri si sono accusati di aver assassinato Borsellino e che per questo hanno fatto quasi venti anni di carcere. Ma non è vero, non sono stati loro. Io so che pezzi dello Stato hanno costruito una falsa verità sull’assassinio di Borsellino e che hanno guidato i falsi pentiti nelle loro bugie. Perché? Io so che Giuseppe Gullotta, muratore di Alcamo, è stato per venti anni in carcere innocente accusato di aver ucciso due carabinieri nel gennaio del 1976. Quei due ragazzi, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, probabilmente avevano visto, durante un controllo, qualcosa che non dovevano: un furgone pieno di armi e di combattenti della Gladio di Trapani. Io so che Peppino Impastato si era occupato di quella storia e aveva scritto di «Un depistaggio per coprire alcuni settori pericolosi e nascosti a livello istituzionale». E che fu ucciso, allestendo la messa in scena di un suicidio, proprio il giorno in cui Moro fu assassinato. Io so che gli attentati del ’93 non furono ideati dalla mafia. Qualcuno ha indirizzato gli esecutori ai siti del patrimonio culturale, qualcuno ha indicato il momento in cui cominciare la strategia delle stragi e qualcuno ha indicato quando finire. In mezzo, il cambiamento politico del Paese. Io so che la Banda della Magliana, le mafie, terroristi di destra e di sinistra sono stati anche agenzie di pompe funebri violente per disegni orditi da poteri occulti, massonerie deviate, ambienti economici, pezzi di Stato infedeli. Ci si scambiava morti e potere, consapevoli di farlo. C’era chi sparava per il comunismo o per il fascismo. Ma c’era anche chi trafficava con la camorra o la ‘ndrangheta, in nome del proletariato o del corporativismo. Io so che Renatino De Pedis non è sepolto per caso nella Basilica di Sant’Apollinare e che questo scandalo si protrae tra ipocrisie e reticenze. E so che killer della Banda della Magliara andarono a Milano per sparare al vicepresidente del Banco Ambrosiano e che assassini della mafia uccisero a Roma Mino Pecorelli. Perché? Cosa interessava a quelle organizzazioni di quelle due persone? Io so che è assai probabile che il generale Dalla Chiesa sia stato mandato in Sicilia per farlo uccidere e perché sembrasse che la mafia fosse l’unica responsabile. So che quella notte qualcuno in cerca di carte — quelle del memoriale di Moro? — aprì la sua cassaforte in Prefettura. Forse le stesse mani che mentre ancora via d’Amelio bruciava ebbero la freddezza di prelevare dalla borsa di Paolo Borsellino la sua agenda rossa. Io so che Andreotti e Gelli e molti altri sanno. Io so che ci sono assassini in giro, ci sono stragisti liberi, ci sono mandanti che ancora condizionano il Paese. Io so che il potere in Italia, è più opaco che altrove. Leonardo Sciascia diceva che nel nostro Paese «il potere è altrove», non nei governi, non nel Parlamento. So, per la breve esperienza di due anni che ho avuto al governo, che non ci sono cassetti da aprire che non siano già stati svuotati. So che a chi governa, e lo accetta, è richiesta una cieca continuità. Che Ustica rimanga un cedimento strutturale e la morte di Calvi un suicidio. Perché solo così quel grumo di interessi opaco potrà continuare a dominare condizionando con la violenza, come sempre è stato, il destino politico del Paese. E la mafia, che è potere prima che armi e sangue, potrà estendere ulteriormente il suo dominio sul Paese. Perché è questo che sta avvenendo, nel totale disinteresse. La recessione aiuta chi ha liquidità, la debolezza del potere aiuta chi ha forza di intimidazione. È così che le mafie stanno conquistando pezzi di Paese, specie al Nord e nei litorali, e che comprano politici e funzionari. E si impadroniscono di aziende alle quali forniscono, a tassi di usura, credito che le banche negano. L’Italia, questo Paese meraviglioso e sfortunato, ha bisogno di ritrovarsi e di colmare i buchi neri della sua storia recente. Ha bisogno certo, subito, di nuovi governi. Ma all’Italia serve qualcosa di più. Ora, più che mai. Serve una ambizione grande, la voglia di fare pulizia, di sfidare conservatorismi radicati e poteri immortali. Di restituire alla democrazia tutta la sua bellezza: decisione, partecipazione, controllo, trasparenza. È rischioso spezzare questa nera continuità, come sappiamo pensando a Moro, a Falcone, a Borsellino, a Pio La Torre, a Giorgio Ambrosoli. E rischioso, ma non più rinviabile. Io so, aveva scritto su questo giornale un grande intellettuale italiano, molti anni fa. Parlava di Piazza Fontana, dell’Italicus e di Piazza della Loggia. E stato ucciso. Io so che non è stato solo Pino Pelosi.”

da Corriere della Sera  – Radiografie pasoliniane – del 7.11.2011

di Walter Veltroni, deputato Pd


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