Tamburello, vecchio ciuco ostinato, gli diceva mio padre col palmo levato in segno di biasimo quando lo scopriva rodersi il vecchio laccio, dove te ne vuoi andare con gli anni che ti ritrovi sul groppone? La libertà, diceva sempre mio padre, a una certa età comincia a sapere come deve saper quella cavezza. La libertà si piglia da giovani, o non si piglia piú. E io, che ero nato lo stesso anno di Tamburello, non capivo se dovessi già rinunciarci. Quando mio padre tornava a casa col nuovo barattolo di vernice, ché quello di prima gli era già finito, a noi diceva: c’è solo un acquirente che si può star certi se lo porterà via, il nostro Tamburello, ma mi spiacerebbe vedermelo morire in fattoria, povera bestia. Io però non ho mai creduto che Tamburello si rosicchiasse la cavezza per abbandonare la proprietà, come lo canzonava mio padre, né tantomeno per appetito – che la noia, piú che la vecchiaia, s’era già portata via da tempo – ma per nostalgia. A furia di ingoiare i pastoni che gli preparava mio padre, i bei denti equini gli si erano fatti secchi come pietre, e se la cavezza non sapeva in fondo di fieno o di carota, sapeva però di consolazione. E mica tanto di libertà, come diceva mio padre.
Un giorno lo accompagnai alla fattoria per incontrare un possibile acquirente. Il mondo è cambiato, figliolo, mi diceva lungo il viale che portava sino alla fattoria, non si ha alcun vantaggio nel restare impantanati negli anni della nostra infanzia, o rimarrai a incespicare dietro ai tuoi stessi tempi. Per questo è importante che io ti porti con me a vendere Tamburello. Io lo seguivo tristemente col capo crollato, cercando di riconoscermi nel paio di pantaloni e le scarpe da ginnastica che si erano sostituite alle ginocchia sbucciate e ai piedi scalzi della mia infanzia.
L’acquirente stava ad aspettarci al confine della proprietà. Scambiò un saluto familiare con mio padre e ci precedette nell’entrare in stalla. Tamburello masticava la sua cavezza. L’uomo prima gli spettinò il dorso, poi ispezionò gli occhi e le orecchie, gli serrò la dentatura fra le mani, gli tastò il ventre e infine gli strinse la coda. Non fece molti complimenti, e fece la sua offerta.
Io sapevo che Tamburello, a vederlo bene, non doveva parere un gran bell’asino. Era obeso e triste, e masticava una cavezza sporca e vecchia. Io, per quanto potessi ricordare, l’avevo sempre visto attaccato alla barra, chiuso in quella stalla, a ingrassare ed ammalarsi, anno dopo anno. Non riuscivo a immaginare per che cosa si potesse desiderare una bestia del genere. Anche mio padre doveva saperlo, perché subito strinse la mano all’acquirente e l’affare fu concluso.
Prima di uscire, l’uomo mi domandò se il nostro asino avesse un nome. Io risposi che era Tamburello, e lui mi disse di andare a salutarlo, il nostro Tamburello, ora che se ne sarebbe andato via. Io andai a carezzarlo fra le orecchie, con modi familiari, come se gli fossi affezionato, e stetti a guardarlo annoiato negli occhi. Allora, nella pupilla inerme da somaro, vidi l’immagine riflessa di mio padre che dalla tasca dei pantaloni prendeva il portafogli, contava la cifra pattuita e la consegnava all’acquirente.
Non ricordo neppure per che via se ne andò alla fine Tamburello. Mio padre serrò la porta della stalla col catenaccio e con un sospiro si infilò la chiave nel taschino della camicia. Allora mi accorsi che avrei voluto lasciare la cavezza al collo a Tamburello, cosí che avesse qualcosa da masticare durante il viaggio almeno fino a quando sarebbe arrivato alla sua nuova stalla; ma, senza capire davvero, decisi che sarebbe comunque stato inutile.
Mio padre era già avanti a me che prendeva svelto per la via di casa. Forza con quelle gambe, mi chiamò rimproverandomi, non rimanere indietro!
Emiliano Garonzi
Pubblicato in: Racconti