Adele Ceraudo
Era venerdì. Venerdì Santo. Se ne stava dimenticando. Strano. Quando aveva deciso di perdere la memoria era certa non avrebbe perso la cognizione del tempo, la consapevolezza dello spazio o le sensazioni del corpo.
Dal mattino, forse da ieri o da prima, tentava di comunicare con lui:-Rispondi, rispondi, forza rispondi! Invece niente, muto il telefono tra le sue mani. Trascinava quel peso da sola. Desiderava ci fosse qualcuno con lei,
magari alto e robusto, forte abbastanza da non farla sbuffare e sudare per guadagnare pochi centimetri dal divano alla porta, ma chi altri avrebbe potuto esserci? Qualcuno. Sapeva di pensare a qualcuno, ma a
chi? A chi aveva lasciato gli appunti, i files, le prove dell’esistenza dell’altra, non lo ricordava. Nemmeno ricordava di averci più pensato da allora.
“Cristo”, pensò Maddalena. Ecco, proprio lui: era Cristo che moriva quel giorno. Ma il Cristo agonizzante, quello sulla croce, non c’entrava nulla con lei; quest’altro Cristo, quello che giaceva ora in salotto, forse.
Maddalena. Si girava ogni volta che la chiamavano. Prima no. Da qualche tempo invece…Lei era Angela, o in qualche modo lo era stata prima, ma prima di cosa? Dopo quando? Comunque non sapeva dire da quanto, ma tutti ad un certo punto iniziarono a chiamarla con l’altro suo nome: Maddalena. Solo per sua madre rimase Angela, Angelina la chiamava, ma si confondevano i ricordi, sbiadiva l’immagine di quella madre malata, diafana, lontana. Talvolta riusciva a pensarla ma più spesso ricordava solo quella parola: Mamma.
I medici un giorno le avevano chiesto di iniziare da qualsiasi cosa, anche una sola parola poteva essere importante, dissero. Cercavano una traccia, non erano pronti a quel mistero, e lei: -Mamma, ricordava qualcosa certo, Mamma, ripeteva. -Troppo generico, rispondevano i medici: quella parola non forniva sufficienti informazioni! Ognuno avrebbe potuto citarla, nel bene o nel male: chiunque siamo o siamo diventati, tutti possiamo dire di essere nati un giorno!
Le apparteneva però un secondo nome, Maddalena, ereditato da una lontana zia che aveva cresciuto la mamma quando sua madre, in attesa dell’ennesimo figlio, ve la mandò a balia.
-Non si può stare fermi a pensare, il filo dei ricordi porta troppo lontano, si disse Maddalena, in un luogo sconfinato e deserto come la luna. Lei al contrario non poteva smarrirsi, doveva restare almeno per un po’ qui, ora. Doveva agire, prendere una decisione. Portare fuori quel corpo prima di tutto, liberarsene, poi ricominciare a fare… cosa? Se lo sarebbe inventato dopo cosa fare. Si consolò pensando che talvolta può essere leggero non avere un passato. Significa poter scegliere lentamente, di volta in volta, su due piedi, significa quasi essere liberi…
Non è che non ricordasse nulla: ricordava molte cose Maddalena. Gli attimi perfetti per esempio, come li chiamava lei. Non quelli belli, quelli perfetti. Tragici e bellissimi, come scene di un film, come una
bella pagina di romanzo. Ma tutto può diventare letteratura infine, tutto si può fotografare, ritrarre, narrare. O no? Ciò che nomini finisce per esistere. -Non è vero, le parole sono solo parole, disse ad alta voce Maddalena (o forse lo aveva detto Angela, prima?) Solo parole, cioè aria che vibra, suoni, un gioco di fiato e labbra. Cosa possono fare le parole e cosa mai possono cambiare? Eppure si può costruire un castello con le parole; una corte, un regno di cui si è unici assoluti sovrani, un presepe in cui via via disporre i pastori, il bue, le comparse, i portatori di regali, da completare col muschio, la stella, il finto cielo. Non si finirebbe mai. Non si finisce mai. Chi dice stop? Maddalena aveva memoria degli attimi perfetti. Ad esempio ricordava il fumo azzurro salire lentamente verso la capotte quando aveva pronunciato la frase, quella perfetta, la più bella, quella definitiva, che sarebbe rimasta ferma per sempre: la chiave del regno, la porta del castello. Solamente, ora non ricordava cosa disse esattamente; neppure in generale; neppure l’argomento. Ricordava il fumo azzurro di sigaretta, la solennità della parola detta al buio, il pezzo che la radio mandava e qualcuno che ascoltava la sua parola. Era lì solo per questo. Accadde di sera, dopo la scuola, sì, ne era certa. Riaccompagnava a casa qualcuno, come sempre. Ma come era quel sempre? Valeva ancora? Era inesatto il sempre ora, poteva essere come il mai stato prima. -Per sempre non è nulla, per sempre sono solo parole, si disse. Anche altro ricordava. Per esempio le cornici dei quadri, le colonne sonore, i panorami, i contorni, le sfumature e le emozioni ma un po’sfuggenti queste, un po’ smarrite, ecco. In ogni caso adesso aveva troppo da fare per indugiare in tali pensieri.
Si riscosse. Sarebbe toccato a lei quel lavoro: doveva spostare il corpo da lì. L’unico che avrebbe potuto aiutarla era lui, il salvatore, ma da qualche giorno non rispondeva, forse da qualche ora o minuto, comunque non rispondeva. L’indomani in ogni caso avrebbe chiamato il ragazzo del piano di sotto, per sistemare, ripulire un po’. Come sempre sarebbe stato disponibile. Era di casa, quasi un amico. Come si chiamava? Quando pensava a lui Maddalena sorrideva: non era semplice affetto, piuttosto le ricordava qualcosa, una sensazione.
La sua vita a un certo punto si era inceppata come un disco che si incanta su una nota. La sua vita era saltata una volta e continuava a saltare: aveva spalancato quella porta e non poteva più richiuderla. Se ne rimaneva lì, sulla soglia. Tutto ciò che stava al di là la porta, superata di un passo la soglia, sarebbe saltato in aria. Dinamite, era dinamite! Boom! Il salvatore aveva cercato di analizzare, scoprire, elaborare, ricostruire… cosa? Cosa voleva ricucire? Lei sapeva perfettamente che una parte non sarebbe vissuta senza l’altra, che quelle due erano inscindibili e che se una moriva l’altra non avrebbe mai preso il suo posto.
Bruscamente tornò alla realtà. Suonavano alla porta ora, stavano suonando! Cazzo, chi poteva essere? Chi a quell’ora di quel venerdì? Era uno di loro, i discepoli, o era qualche nuovo nemico, uno di quelli che stavano dall’altra parte? Quale parte? L’altra, da questa stava solo lei. Maddalena sbirciò nuovamente il corpo disteso sul pavimento. Lasciò squillare il campanello e lasciò che bussassero, insistentemente. Non avrebbe aperto a nessuno, nessuno! Perché non aveva niente da dire, nulla da spiegare: lei non fingeva mai. Quale verità poteva fingere? Bisognava supporre esistesse una verità.
Il suo salvatore amava ripetere che non è tutto uguale, non tutto è sullo stesso piano, anzi si deve imparare a collocare ogni cosa al proprio posto: -Dare il giusto valore alle cose, le ricordava ogni volta! Alzava le spalle lei. Il giusto valore? Bisognava prima costruirla una scala di valori. Distinguere: lei non poteva, poiché tutto, anche quello che poco a poco acquisiva importanza, che pareva ergersi definitivamente al di sopra di ogni altra cosa, d’improvviso ricadeva, si afflosciava come un soufflé tolto dal forno. Lei non sceglieva mai. Tutto si mescolava appiattendosi, confondendosi: come poteva giudicare, scegliere, distinguere?
Adesso però doveva spostarsi da lì. E lui con lei. Doveva cercare un sepolcro e chiuderlo per bene, che i discepoli non riuscissero a trovarlo, a resuscitarlo! Non l’aveva ancora guardato con attenzione, non voleva guardarlo: non lo conosceva, dopotutto. Si era permesso di varcare la soglia, di entrare nel regno che lei difendeva con le unghie: la sua tana, la sua salvezza. Bene, adesso non l’avrebbe più disturbata. Angela avrebbe usato una mano pietosa, lei no. Era un lusso la pietà oramai: non avendo pietà per sé, non poteva averne per nessuno. Anche la pietà presuppone un passato, un senso di colpa più o meno consapevole. Al
contrario, Maddalena era sempre nell’attimo presente e dunque non aveva nulla da farsi perdonare. Angela invece aveva pietas, anche troppa. Ricordava che un tempo Angela aveva accarezzato l’erba di un prato e abbracciato a destra e a manca amici, nemici, tutti: grondava dolore e lo sentiva sulla propria pelle e su quella degli altri. Forte lo sentiva quel dolore che era quasi amore, una strana euforia che le provocava improvvise compulsioni d’affetto: era con loro, come loro, come tutti. Era tutto. Lo era stata per lungo tempo, troppo, e finì per essere nessuno: il soufflè che si sgonfia una volta tolto dal forno. Poteva solo vivere a rilento e fare, per non ferirsi, una cosa per volta. E poiché le parole non la soccorrevano e non nominavano più le cose, queste si confondevano, e lei doveva andare piano, molto piano: doveva nominarle con lentezza e convinzione. Doveva rallentare per proteggersi da quel movimento vorticoso, dal turbinìo che sopraggiungeva insieme a emozioni, colori, odori e tutto; un vortice che procurava uno strappo, un urlo dentro. Doveva rallentare per continuare a vivere, per non farsi portare via; così, a forza di rallentare si era come fermata in un vacuo immemore presente dove si incontravano e arenavano intenzioni e stagioni: sempre qui e sempre adesso.
Lo guardò meglio: il corpo non più giovane ma atletico, faceva pensare a una persona sportiva. Aveva muscoli piuttosto evidenti sulle gambe abbronzate, ma le mani, molto belle, ben curate, erano quelle di un intellettuale, uno studioso forse. Uno abituato a pensare, a parlare. Le ricordava qualcuno, non sapeva chi. Era un ricordo che nasceva già sbiadito, come il racconto di un ricordo di qualcun altro, una fotografia sul mobile di un salotto non suo. Era un bell’uomo, del genere distinto. Peccato ora fosse un po’ scomposto, un po’ abbandonato; troppo molle, ecco. E peccato quel fil di sangue sulla tempia destra…
Doveva ripulirlo almeno un po’, povero cristo. Forse l’aveva già incontrato nelsuo luogo segreto, si disse. Il luogo segreto di Angela era una stanzetta, nient’altro che una piccola stanza calda, con odore di cucina, un divanetto basso e un tavolo di formìca rossa. E lei stava lì con mani piccole e impacciate, a contare cucchiai e affettare del pane. Qualcuno con voce dolce le narrava una storia. Quel luogo era reale e lì poteva rifugiarsi in qualsiasi momento. Angela si fermò in quel posto per un po’, poi sempre più a lungo, e infine, quando volle riprendere la via del ritorno, si perse. Allora tornò sui suoi passi e restò lì per sempre.
Maddalena invece iniziò a vagare, a cercare… cosa? Non ricordava. Il suo curatore, come Cristo aveva i discepoli, un gruppo di devoti che bevevano dalle sue labbra, si nutrivano delle sue parole, sempre pronti ad attirarne l’attenzione, a piangere per farsi consolare, a voltargli le spalle quando si congedavano. Lui pareva non accorgersene: tollerante, sorridente, soccorrevole, equamente indifferente. Ma lei li vedeva per gli avvoltoi che erano: uomini e donne deboli, pronti a tradirlo; parassiti che speravano di succhiargli un poco di carisma, di calma, di forza. Angela aveva iniziato a frequentare quel gruppo due anni prima, quando lo strappo ancora doleva e la vita reale, se così si può dire, ancora pesava nei suoi giorni. Era consapevole dell’isolamento via via più fitto, della paura di incontrare gente e comunicare, della fatica di ricordare… Inizialmente quelle del gruppo le erano sembrate brave persone: poteva raccontarsi, lasciarsi andare. E lui l’avrebbe protetta!
Ma da quanto Maddalena non lo vedeva? L’aveva cercato per giorni o per ore, non ricordava… Certo era un uomo molto occupato: aveva i figli e quel lavoro così impegnativo; il poco tempo libero dedicato con passione al tennis.
Ma non starà pensando ancora a quella! La puttana, che lo tormenta, lo insidia. Perché certamente lei ha perso la testa per lui. Maddalena se n’era ben accorta! Quella puttana con un nome che avrebbe tratto in inganno chiunque, un nome semplice, innocente, soave. Quella, la sua prediletta, era chiaro! Tutti avevano capito che aveva un debole per lei, la falsa e schifosa che scodinzolava, se lo mangiava con gli occhi, lo voleva tutto per sé. Perché lui, per lei era tutto. Anche il salvatore aveva ammesso che la cose stavano così, l’aveva ammesso quel giorno, forse l’ultima volta che si erano visti.
- Ma, come si può amare una così?, si chiedeva Maddalena. -Come si può amare quell’avanzo di donna, quel tormento, quella piaga vivente? Forse come si ama un cucciolo neonato e sporco ma con meno tenerezza o come si ama chi dipende completamente da noi: non può esserci corrispondenza, passione, non con quel tipo d’amore; una così poteva solo fare pena, una pena grande. Certo di questo ne soffriva la frignona, la povera crista, l’angelica, l’angelo. Angela. Un nome così è un imbroglio. Un nome così fornisce un alibi. Sempre!
Maddalena di Angela si ricordava. Era bella ma lontana, quasi indifferente, arrogante da quella sua distanza. Niente la toccava davvero. Era là in cima, su una nuvola, come un angelo appunto. Quanto l’aveva odiata! Prima no, solo da un certo momento in poi: quando iniziò a comportarsi come fosse l’unica al mondo, quando si moltiplicarono le telefonate al cellulare di lui e i pedinamenti per controllarne i movimenti, studiarne le abitudini.
Maddalena dopotutto era molto grata a quell’uomo. Doveva eliminare Angela, neutralizzarla, farla sparire. Doveva liberarlo, salvare il salvatore! Ad un certo punto i discepoli scomparvero. Restarono lui, lei e quell’altra. Allora prese definitivamente la decisione. Un bel giorno Angela non si presentò all’incontro settimanale, né quella volta né le successive. Nessuno si stupì, forse perché coi suoi modi gentili, remissivi, con la testa sempre un po’ china come un cane in attesa della carezza, era davvero così inconsistente che neppure la sua assenza si notava. Forse. -Angela fatta fuori, sparita, e lui finalmente libero, pensavaMaddalena. E quello? Sulle prime parve sollevato, per un po’ disse che andava tutto bene, lo disse veramente! Poi un giorno ecco che riprese a nominarla, timidamente, solo talvolta. Poi sempre più spesso, sempre in sua presenza come se le importasse, come se la riguardasse! Sembrava rimpiangerla.Come poteva essere così ingrato? Sulle prime stentò a crederlo, ma lui le parlava di Angela, ogni volta! Infine chiese a Maddalena di incontrarsi per colloqui individuali, così li chiamava, e lei si illuse. -Maddalena va bene, facciamo progressi, ha fatto bene a mettere da parte Angela, a dimenticarsene per un po’, disse. –Dimenticarsene? Quella non esiste, non più, finita, fatta fuori!, protestava Maddalena. -Attenzione, la rimproverava il salvatore, attenzione alle parole, le parole costruiscono mondi e i mondi diventano come giganti e possono catturarci, ingoiarci! Poco alla volta dobbiamo permettere ad Angela di tornare! Ecco: la rimpiange, la vuole, vuole che torni!
Non può essere, non lo può permettere. Non lo permetterà.
Maddalena si trova tra le mani una pistola. Si sente calma, serena come mai prima. Lo chiama. Dice di sentirsi male e che Angela è tornata. Lo attende senza fretta. Carica lentamente la pistola. Forse beve
qualcosa, forse strappa qualche foto. Forse. Per un attimo ricorda tutto, tutto quello che è importante ricordare. Poi più nulla.
Il campanello squilla, lei apre la porta.
E’ lui.
Era venerdì. Venerdì Santo. Se ne stava dimenticando.
Cristo, pensò Maddalena. Chissà perché.