Come una scoperta spaziale può aiutarci ad affrontare i problemi del nostro pianeta
di Mattia Luca Mazzucchelli
Tutto comincia con il problema del riscaldamento globale sul nostro pianeta. La situazione è grave: le continue emissioni di gas serra da parte delle attività umane hanno portato negli ultimi anni all’innalzamento della temperatura media. Per invertire questa tendenza la soluzione sarebbe ovviamente diminuire le emissioni, ma il processo di riduzione è molto lento e costoso perché va contro l’attuale modello di sviluppo industriale ed energetico delle nazioni.
Nel 2006 il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen propose in un articolo sulla rivista “Climatic Change” una via alternativa, più veloce e molto meno costosa per abbassare la temperatura media globale. Lo spunto gli venne dato dall’abbassamento della temperatura di circa 0,5 gradi, rilevato a livello mondiale, nei mesi successivi all’eruzione del vulcano Pinatubo, nelle Filippine, avvenuta nel 1991. Il fenomeno fu spiegato con l’immissione nella stratosfera di grandi quantità di diossido di zolfo (SO2) che, unendosi alle goccioline d’acqua presenti nell’atmosfera, dà origine all’acido solforico (H2SO4), che a propria volta forma una sorta di pellicola gassosa molto riflettente: un gigantesco specchio che ricopre la Terra e riflette la luce solare. Insomma, secondo Crutzen, se non riusciamo a ridurre in tempi brevi le emissioni di gas serra, che trattengono come una coperta il calore che arriva sulla Terra e continuano a far aumentare la temperatura, dobbiamo almeno fare in modo che di calore sulla Terra ne arrivi meno grazie a un gigantesco thermos artificiale. E’ ovviamente una soluzione temporanea, per prendere tempo in attesa di una svolta nell’impegno ambientalista delle nazioni. Però ha già trovato un posto di primo piano nella geoingegneria, un nuovo settore di ricerca che ha come scopo riparare i danni arrecati dall’uomo all’ambiente.
Se il Pinatubo è riuscito ad abbassare la temperatura per qualche mese, allora immettendo quantità ancora maggiori di diossido di zolfo nell’atmosfera (in teoria con aerei, missili, persino tubi sollevati in quota da palloni aerostatici) si potrebbe raggiungere lo stesso scopo per un tempo più lungo. Ma ecco che delle nuove osservazioni effettuate su Venere fanno pensare che il processo non sia così semplice.
Di recente la sonda Venus Express dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha rivelato la presenza su Venere di strati di diossido di zolfo là dove proprio non dovevano esserci, stando alle nostre conoscenze sul ciclo dello zolfo nell’atmosfera venusiana: infatti a 50 chilometri dal suolo il diossido di zolfo dovrebbe iniziare a unirsi con il vapore acqueo fino a formare delle nuvole di acido solforico, e a 70 chilometri tutto il diossido di zolfo rimasto dovrebbe essere scomparso perché dissociato dalla radiazione proveniente dal Sole, lasciando solo l’acido solforico. Eppure il diossido di zolfo è stato trovato a 90 chilometri di altitudine.
Sotto le nuvole che cosa ci sarà? (Cortesia: ESA)
Tutto ciò è rimasto un mistero finché un gruppo di ricercatori americani, francesi e taiwanesi è riuscito a simulare al computer l’intero processo e ha dedotto che lo strato anomalo a 90 chilometri di quota è il prodotto della dissociazione dell’acido solforico evaporato dagli strati più bassi. In sintesi, a 50 chilometri si forma effettivamente acido solforico in goccioline a partire da diossido di zolfo e vapore acqueo ma poi questo evapora risalendo nell’atmosfera e alla quota di 90 chilometri viene dissociato dalla radiazione solare riformando diossido di zolfo che rimane intatto. Il risultato viene descritto in un articolo su “Nature Geoscience”. “Non ci aspettavamo lo strato di zolfo ad alta quota, ma ora possiamo spiegare i dati. Comunque queste nuove scoperte ci fanno capire come il ciclo dello zolfo atmosferico sia più complicato di quello che pensavamo”, afferma Hakan Svedhem, dell’ESA.
Questo risultato, oltre a estendere le conoscenze sull’atmosfera di Venere, è di primaria importanza nel progetto di Crutzen. Infatti il suo tentativo di raffreddare il pianeta potrebbe non risultare così efficiente, soprattutto sulla lunga distanza. L’acido solforico blocca i raggi solari, ma il diossido di zolfo no. E scoprire che nel giro di qualche tempo l’acido solforico si ritrasforma in diossido di zolfo significa avere un effetto di breve durata, che non giustificherebbe la spesa e gli eventuali rischi per la salute che il diossido di zolfo potrebbe portare. “Dobbiamo studiare approfonditamente le conseguenze di un tale strato artificiale di zolfo nell’atmosfera della Terra”, commenta Jean-Loup Bertaux, dell’Università di Versailles-Saint-Quentin, ricercatore nel programma Venus Express. “Venere ha uno strato enorme di goccioline, quindi tutto ciò che impareremo su quelle nuvole sarà verosimilmente molto importante per qualsiasi geoingegnere sul nostro pianeta”. Insomma, Venere sta facendo già l’esperimento per noi, evitandoci le brutte sorprese di un tentativo alla cieca sulla nostra Terra.