Il presentimento che il fascino del palcoscenico, dei dialoghi serrati, degli ambienti chiusi e della pressione che quest’ultimi sono in grado di stimolare sull'essere umano, interessino al regista polacco più di ogni altra cosa, adesso come non mai nella sua vita, accresce costantemente alimentato dalla messa in scena di progetti che vanno ad esaltare caratteristiche assai specifiche.
"Venere in Pelliccia" rappresenta infatti il preciso incastro da inserire immediatamente oltre quel meraviglioso lavoro operato con "Carnage", un rincarare la dose restringendo gli interpreti con cui Polanski porta al cinema un’opera teatrale ambientata direttamente tra palcoscenico e platea, un teatro vero all'interno del quale due interpreti fantastici come Mathieu Amalric e Emmanuelle Seigner si sfidano di fioretto montando, per intensità e bravura, il peso di una tortuosa sceneggiatura (anch'essa scritta da Polanski) completamente sulle loro spalle. Il plot di per sé è già straordinario: un regista alla ricerca di una donna che sappia interpretare a pennello il ruolo di Vanda che lui stesso ha riscritto per l'adattamento personale del romanzo Venere in Pelliccia, massacrato da una giornata di provini fallimentari viene soggiogato a notte inoltrata da un'attrice ambigua che si presenta con lo stesso nome della protagonista e che, nonostante le apparenze volgari e succinte, pare incarnare alla perfezione la personalità del ruolo che lui stesso ha tratteggiato nel copione.
Ma è a luci accese che la sensazione di una non piena soddisfazione lentamente ci attraversa, quando l'incanto svanisce e la carica attrattiva generata da Thomas e Vanda ormai è solo un ricordo. Li realizziamo realmente di aver assistito ad uno spettacolo decisamente intenso ma incapace di rimanere nella pancia e di suscitare riflessioni, un vuoto che a Polanski perdonare non possiamo affatto, un vuoto che da lui, e da un suo lavoro, non possiamo assolutamente accettare.
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