Venere in Pelliccia - La Recensione

Creato il 31 ottobre 2013 da Giordano Caputo
Polanksi e il teatro, un amore che avanza.
Il presentimento che il fascino del palcoscenico, dei dialoghi serrati, degli ambienti chiusi e della pressione che quest’ultimi sono in grado di stimolare sull'essere umano, interessino al regista polacco più di ogni altra cosa, adesso come non mai nella sua vita, accresce costantemente alimentato dalla messa in scena di progetti che vanno ad esaltare caratteristiche assai specifiche.
"Venere in Pelliccia" rappresenta infatti il preciso incastro da inserire immediatamente oltre quel meraviglioso lavoro operato con "Carnage", un rincarare la dose restringendo gli interpreti con cui Polanski porta al cinema un’opera teatrale ambientata direttamente tra palcoscenico e platea, un teatro vero all'interno del quale due interpreti fantastici come Mathieu AmalricEmmanuelle Seigner si sfidano di fioretto montando, per intensità e bravura, il peso di una tortuosa sceneggiatura (anch'essa scritta da Polanski) completamente sulle loro spalle. Il plot di per sé è già straordinario: un regista alla ricerca di una donna che sappia interpretare a pennello il ruolo di Vanda che lui stesso ha riscritto per l'adattamento personale del romanzo Venere in Pelliccia, massacrato da una giornata di provini fallimentari viene soggiogato a notte inoltrata da un'attrice ambigua che si presenta con lo stesso nome della protagonista e che, nonostante le apparenze volgari e succinte, pare incarnare alla perfezione la personalità del ruolo che lui stesso ha tratteggiato nel copione.
In perenne bilico tra sogno e realtà e verità e finzione, ha inizio così un gioco delle parti che alternativamente fra loro si colpiscono, si stuzzicano, si esplorano e si scambiano. Batti e ribatti che a Polanski serve per allestire quello che a tutti gli effetti prende la forma di uno spettacolo meta-teatrale e mentale che scava nella psicologia primordiale e sessuale per andare a sfociare sul concetto di amore e di appartenenza all'altro. Lo sfondo erotico del romanzo di Leopold Von Sacher-Masoch - messo continuamente in discussione per il suo essere o meno maschilista o sessista - provoca allora riflessioni sul significato di amore totale, intravisto qui nella veste sadomaso che il personaggio della Seigner indossa esteticamente ma che quello di Amalric invece non si redime dal professare, supponendo che il dolore e l'umiliazione siano prove inconfutabili di sentimento incondizionato nei confronti del proprio partner. Pur non dichiaratamente quindi, nascosto dietro le teorie e i concetti espressi dal Thomas regista e autore si nasconde proprio lo stesso Polanski, il quale, schietto e attento, cosparge ininterrottamente la sua pellicola di perversione e passione senza mai scivolare a fondo nell'erotico (o nel porno) autentico, trattenendosi il più possibile e concedendosi il lusso del dichiarato solamente durante l'effetto sorpresa conclusivo, quando ormai logoro di stanchezza giunge il momento di chiamare il sipario.
Ma è a luci accese che la sensazione di una non piena soddisfazione lentamente ci attraversa, quando l'incanto svanisce e la carica attrattiva generata da Thomas e Vanda ormai è solo un ricordo. Li realizziamo realmente di aver assistito ad uno spettacolo decisamente intenso ma incapace di rimanere nella pancia e di suscitare riflessioni, un vuoto che a Polanski perdonare non possiamo affatto, un vuoto che da lui, e da un suo lavoro, non possiamo assolutamente accettare.
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