Come era accaduto lo scorso anno per Miike Takashi, del quale erano stati proiettati ben tre film, si può dire che Venezia sdogani definitivamente in Occidente anche Sono Shion (Sion è la traslitterazione, errata, con la quale viene presentato ormai ovuqnue), dal circolo di cultori che lo amavano e conoscevano e dopo un paio d’anni di rodaggio internazionale (al Far East due anni fa con Love Exposure, nel 2010 a Venezia in Orizzonti con Cold Fish e a Cannes nel 2011 con Guilty of Romance) lo lancia nell’olimpo degli autori importanti e riconosciuti a livello mondiale, sugellando il passaggio con un premio, seppur minore, ma di grande valore se si considera la qualità della concorrenza. Come se non bastasse, a confermare l’avvenuta accettazione del suo cinema, il festival di Torino gli dedica quest’anno (25/11 – 3/12) una retrospettiva, mentre è di pochi giorni fa la notizia che Himizu (il cui significato letterale è “talpa”) sarà il primo film del regista ad avere una distribuzione italiana grazie a Fandango. Per chi lo segue da ben prima, diciamo dal 2001, anno del suo capolavoro Suicide Club, queste non possono che essere notizie positive che confermano il talento di un regista visionario ed anarchico che mescola stili registici e generi cinematografici in modo assolutamente originale e creativo.
Sono Shion ritira a Venezia il premio per le due migliori prove di attori emergenti
Prima di parlare della storia del film, val la pena di spendere qualche parola sulla storia della sua realizzazione. Le riprese erano infatti quasi completate quando in Giappone si sono verificati i tragici avvenimenti dell’11 marzo; a quel punto la sceneggiatura, tratta dal cupissimo manga di Minoru Furuya, è stata stravolta e gran parte delle scene rigirate in funzione della catastrofe. Accedendo ai luoghi disastrati subito dopo lo tsunami, Sono li rende il terreno ideale per immagini tragiche e oniriche che si ripetono nella mente del protagonista (e non solo). Gira così quella che probabilmente è la prima pellicola ad affrontare di petto ed elaborare in funzione di una storia fittizia il terremoto che ha colpito l’arcipelago nipponico, andando a collocarsi come capostipite di quella cultura post-Fukushima che segnerà sicuramente, negli anni a venire, il cinema e le altre arti giapponesi.
Lo studente delle medie Sumida (Sometani Shota) vive sulle rive di un laghetto dove la sua famiglia (o quel che ne resta) affitta barche a turisti e pescatori. La sua unica ambizione è quella di portare avanti l’attività e diventare una brava persona; in questo modo sa che non sarà felice, ma vivrà comunque una vita serena. La coetanea Chizawa (Nikaido Fumi) ha una cotta per Sumida, con il quale condivide una famiglia disastrata, ma è al contrario del ragazzo vitale e propositiva e cerca in tutti i modi di risvegliarlo dal torpore in cui vive. Quando però quest’ultimo è protagonista di un atto che ne compromette irrimediabilmente le sorti, inizia una discesa in un baratro profondissimo.
Con i suoi soliti toni grotteschi ai limiti della caricatura, Sono descrive l’ambiente nel quale vivono i due protagonisti, la famiglia, come una prigione dalla quale è impossibile fuggire, dove i temi dominanti sono la violenza e il vittimismo: i figli hanno la “colpa” di essere nati, tarpando le ali di genitori non in grado di prendersene cura e che nell’atmosfera anestetizzata nella quale vivono non hanno sviluppato nessuna forma di amore filiale. E’ così che in una scena surreale e terribile, Chizawa scopre i suoi genitori che allestiscono (e addobbano con lucine natalizie) una forca sulla quale appendere la figlia, mentre il padre si Sumida si presenta a casa solo per picchiarlo, chiedere soldi e raccontargli di quella volta nella quale sperava che il figlio affogasse per riscuotere la ricca assicurazione. La madre, con la quale non c’è alcuna forma di comunicazione, lo abbandona presto a se stesso per fuggire con l’amante e giocare al pachinko. Questo quadro cupissimo e disperato è reso sopportabile dallo stile registico con l’uso di una comicità crudele e corrosiva, ma rimane comunque un pugno per lo stomaco dello spettatore che rimane attonito di fronte a un tale nichilismo e alla rappresentazione di un’umanità che è difficile definire tale. L’unica “isola” felice è rappresentata, paradossalmente, da alcuni senzatetto che vivono accanto alla casa di Sumida in seguito allo tsunami; questi, pur avendo perso tutto, sembrano riscoprire il valore sano del gruppo e la normalità di una birra in compagnia, unica fonte di supporto e aiuto al giovane protagonista fino all’arrivo di Chizawa.
EDA