Il mio filo rosso si fa più stretto. Dopo aver delineato e perimetrato (con Saideke Balai, A dangerous method e Carnage) il campo d’indagine intorno al nostro essere umani, prima, e contemporanei, dopo, il filo, con Shame di Steve Mcquenn, incomincia a stringerci, a soffocarci, ad inchiodarci all’aberrante caduta che stiamo (inconsciamente?) abbracciando, caduta già da tempo in corso, inarrestabile, forse. Cinematograficamente, ci siamo quasi. Shame è il primo, vero film (da me visto) che assume connotazioni realmente autoriali, nella maturità che è capace di esprimere sia nella scelta del tema trattato, che nel coraggio (spudorato come deve essere), nell’intransigenza, nella durezza, nella violenza del disvelamento praticato (come un vero autore ha il dovere di assumere) nel mostrarci pesanti ‘verità’.
In questo caso, dare forma alla nostra vergogna… Vergogna, sottile e permeabile, che marchia tutto il territorio esplorato da Mcquenn e in Brandon, quel Michael Fassbender già ‘alter ego’ del regista nel corpo e nell’anima, che incarna il discorso di Mcqueen, tutto politico, come lui stesso tende a sottolineare, anche per questo suo secondo lavoro, dopo Hunger.
Nel film d’esordio, Camera D’Or a Cannes nel 2008, Mcqueen esternava la propria ‘ribellione’ attraverso il racconto di un corpo: quello dell’attivista dell’Ira Bobby Sands, che si lascia morire nella prigione di Long Kesh in un martirio-sciopero della fame di 66 giorni, per protestare contro le condizioni detentive disumane, vere e proprie torture a cui gli attivisti dell’Ira venivano sottoposti dalla linea dura inflitta dall’allora Primo Ministro Margaret Thatcher.
In Shame veniamo proiettati dentro un vero e proprio inferno, che la città di New York simboleggia egregiamente quale icona suprema della civilizzazione e tecnologizzazione, nella densità aberrante e variegata di gente compressa in spazi urbani enormi, cupi, asettici, nella schiavizzazione tecnologica a cui ormai siamo completamente assuefatti, dentro un sistema economico e politico che ha portato l’essere umano, nell’apparente libertà e onnipotenza che il progresso ha generato, ad essere completamente dipendente e in trappola. La trappola di Brandon è il sesso. Mcqueen non ci rende prologhi. Ci introduce subito nell’intimità domestica e sessuale di un uomo affascinante, che si muove tra pareti e un arredo freddo, impersonale. Brandon consuma il sesso ossessivamente, autofagocitandosi nello scoparsi prostitute, donne incontrate per caso, nel masturbarsi con riviste, film, chat on line pornografiche e scaricando via internet di tutto: sesso anale, sesso di gruppo, sesso orale… Brandon è sexy, elegante, ha un lavoro importante, soldi… può portarsi a letto ogni donna che vuole, è intelligente, sa sedurre, è il più lontano, idealmente, dall’essere vittima di una simile dipendenza.
Eppure è il simbolo più autentico e vivo del nostro smarrimento, contaminato fino all’osso da una corruzione solamente in apparenza morale, ma che in realtà è alienazione totale. L’uomo ha perso la memoria, non riesce più a tornare a se stesso, a comunicare con un suo simile, a provare sentimenti autentici, ad eccitarsi senza mediazioni. La consapevolezza dello status di dipendenza da parte di Brandon, già piena, viene rimessa in discussione dall’arrivo di sua sorella (una perfetta Carey Mulligan), essere fragile, disperatamente bisognosa di affetto e protezione, di cui l’uomo avverte l’insostenibile peso. Il confronto con la dipendenza della sorella, la disperazione di cui sono vittime entrambi, genera in Brandon l’illusione di potersi ‘redimere’, ma la speranza si risolverà nell’amara accettazione di uno status-condanna indelebile.
Mcqueen rende Brandon specchio e, contemporaneamente, occhio di una condizione ‘universale’, nello sguardo dell’ambiente in cui è ‘braccato’: la metropolitana, l’ufficio, i night club, le vie della prostituzione, dentro un’umanità variegata, persa, chiusa e silenziosa, pronta a ‘corrompersi’ sotto il peso e la brama delle rispettive dipendenze. La resa filmica è quasi egregia. Pecca di un iniziale manierismo, negli atteggiamenti voyeristici della mdp, che indugia troppo e gratuitamente sulla nudità del protagonista e del suo membro svolazzante, in un loop d’apertura (lo scandire dei giorni e del sesso praticato, con l’andare in bagno) nel quale il senso dello sguardo offertoci è solo autocompiacimento. Come pecca di alcune strane ‘riproduzioni’ (una scena di tentato suicidio dai contorni drammatici, decisamente stereotipati).
Perfetti i tagli di inquadratura, la fissità introspettiva dei relativi piani, la forza, la dolcezza dei momenti resi, la densità dei dettagli esposti, il colore caldo, ipnotico, freddo, cupo, dissacrante. Tutto questo, che troviamo disperso qua e là dentro il film, è sommamente condensato nella scena più difficile e sublime (indubbiamente da Leone d’Oro), del picco più alto della perdizione di Brandon: il sesso a tre vissuto con due donne, quale meta finale delle tappe di un vagabondaggio-resa dei conti, momento di accettazione incondizionata della propria condanna, con tutta la rassegnazione e la forza del pieno assoggettamento alla propria dipendenza. Michael Fassbender si candida alla Coppa Volpi come Miglior Protagonista… Ma ci sono ancora Abel Ferrara, Andrea Arnold e Sokurov che mi ‘aspettano’…le mie visioni slittano di un giorno per problemi di afflusso stampa: strano e affascinante guardare e scrivere in modo asincrono…
Maria Cera