Venezia 69 - L'immanenza di Britney Spears

Da Robomana
Tette e culi, tette e culi, tette e culi... Così, tra il triviale e l'esaltato, con un bel po' di disincanto e di stanchezza da festival, si potrebbe racchiduere Spring Breakers di Harmony Korine: una commedia noir in realtà indefinibile e folle, schizzata, coloratissima, in acido, e ovviamente fighetta e tirata a lucido, su un gruppo di ragazzine che vanno in Florida per le vacanze di primavera (che negli Stati Uniti sono un'istituzione, un momento di follia collettiva a base di sesso, alcol, puttane e stupefacenti) e che una volta lì, dopo aver già derubato un negozio per pagarsi il viaggio e il motel, diventano le squinzie di una gangsta-rap bianco e poi delle eroine del crimine. Il film, dicevo, è folle, pieno di forme anatomiche femminili in primissimo piano, occhioni sgranati e capelli tinti, bikini e tanga, tramonti della Florida e momenti di estasi dello sguardo, tra lo stupore della bellezza, la magia dello spazio urbano americano e un bel po' di irritazione (almeno personale). Non a caso, per l'enfasi che Korine ci mette, sembra un Malick pop sparato a mille, la stessa ridondanza e lo stesso montaggio che non ti lascia vivere, che stacca non appena cominci ad affezionarti a un'inquadratura. Però è anche un Malick molto più consapevole, immerso fino al collo nella cultura pop - nel punto di non ritorno della cultura pop, nel divertimento sfrenato come unica forma di esistenza, mica solo come unico sfogo - e deciso ad abbandonarsi al richiamo della luce fittizia, del colore giallo skocking, del sole che tramonta solo se può diventare cartolina. Korine sa che non c'è più scampo al vuoto, almeno se sei adolescente in America e non hai troppa voglia di essere diverso dagli altri. Sa che la cultura musicale e adolescenziale ha finito per mangiarsi tutto, ogni forma di estetica e di sguardo, e dunque si arrende, come in fondo ha fatto per primo Warhol, abbandonandosi all'immanenza degli oggetti. Con Spring Breakers Korine si arrende all'immanenza di Britney Spears, con una sua canzone leggera e inutile che dà vita a una scena di commozione pura; si arrende all'immaginazione della cultura pop, fa sì che il suo film ne sia immerso fino al collo, ma sa creare egli stesso delle icone pop dai suoi personaggi, con le sue sanguinarie adolescenti che si stagliano nel tramonto agghindate in bikini e passamontagna rosa shocking. La sua salvezza non sta solo nella consapevolezza, ma pure nella critica alle sue protagoniste: che ovviamente non risiede in un giudizio morale, ma in uno sguardo talvolta più lucido e impietoso su un culo con un filo di cellulide, delle coscie non così slanciate come vorrebbero, un viso non così fine come sembrerebbe... Il corpo, ovviamente, è rimasta l'unica realtà.

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