Venezia 69 - L'irritazione e il fascino
Creato il 02 settembre 2012 da Robomana
Eccoci al film di Malick, To the Wonder, che venendo poco più di un anno dopo The Tree of Life è ovviamente simile nello stile e nell'ispirazione, nei sussurri e nei movimenti ondeggianti della macchina da presa, che poi sono gli stessi di La sottile linea rossa e soprattutto The New World, e allora ti viene il dubbio che passata per sempre l'ispirazione totale, così antihollywoodiana eppure americanissima di La rabbia giovane e I giorni del cielo, e passato lo shock visivo del ritorno a fine anni '90, dobbiamo convincerci che fino a quando camperà, e nei prossimi settanta o ottanta film che a quanto pare sta preparando, Malick girerà sempre in questo modo, erratico e fragile, abbacinante e sbigottito, sempre lì a inseguire pezzi di figa sballonzolanti in un campo o sotto le fronde degli alberi, con le mani rivolte al cielo o impegnate ad accarezzare la granaglia, mieloso e pietoso, lamentino e piccolo piccolo... To the Wonder è oggettivamente un film insopportabile, un'ora e cinquanta di invocazioni all'amore e a Dio, senza un dialogo diretto e uno straccio di narrazione - ma solo l'effetto della narrazione, ciò che ne segue a livello di emozioni e reazioni - e con fiumi di musica classica e di corpi da catalogo per Intimissimi. Eppure questa volta devo ammettere che ho trovato qualcosa; superato il fastidio iniziale ho provato a capire perché Malick si è ridotto a fare questo sfoggio di tecnica e fighettume laccato. E ascoltando le invocazioni senza risposta dei suoi personaggi, le stesse che dal '99 ci tormentano, ho sentito personaggi lamentare il silenzio di Dio, il silenzio dell'amore, la fine delle cose, il senso di distanza dalla realtà, che impedisce la piena realizzazione di sé. Ok, The Master si fa un baffo di tutto ciò, l'ho scritto ieri dove secondo me va a finire la perfezione dell'anima invocata da Lancaster Dodd (va a finire nel muro di pensieri del suo antagonista Freddie Quell, nella materia piatta di una bambola di sabba scopata), ma Malick - forse sbagliando, forse da ingenu, forse da vecchio barbogio o - prova a rincorrerla, quella luce che sfugge, prova a superarla, quella barriera che ci divide dalla verità, dall'altrove, dal divino (per lui e per quelli che ci credono).
Dopo The Tree of Life, To the Wonder è un film su questa distanza, su corpi maschili e femminili che non hanno più da parlarsi, ma solo da toccarsi e guardarsi. E dunque è un film sull'immagine e sul cinema in sé, su quanta distanza si frapponga tra l'occhio della macchina da presa e il corpo della realtà filmata (una donna, un cavallo, un bisonte, un campo), arrivando perciò a dare un senso a una messinscena evidente, esagerata, pubblicitaria, con volti di donne bellissime che si voltano vezzose verso un occhio che non è quello del loro compagno, ma è quello del cinema, alla vana ricerca di un contatto che finirà per mancherà. Perché?Perché è così, la realtà è nell'altro, lo sappiamo da sempre.
Contrariamente a Anderson, che manda il suo protagonista verso un punto indistinto dell'infinito, Malick crede nella direzione tracciata da un tramonto, da un'alba (non è mai notte nei suoi ultimi due film), da un raggio di luce che filtra attraverso una tenda o un lenzuolo. E attraverso le tende e le lenzuola, attraverso barriere fisiche che diventano barriera spirituali, prova a ridefinire il suo cinema, la possibilità di andare ogni forma di racconto e rappresentazione, per inscenare una cerimonia di comunione con il creato alla quale a me non interessa partecipare, ma di fronte alla quale - nonostante l'irritazione, la spossatezza, la vecchiaia del tutto e Romina Mondello - questa volta ho trovato difficile restare indifferente.
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