Ciò che più mi ha colpito in questo tenue e commosso racconto giusto della giovinezza è la fiera ammissione di un'idea di mondo e di vita che emerge dalle pagine del film. Se i personaggi di Après mai leggono, dipingono, disegnano, fanno cinema o ne parlano, provano insomma a vivere secondo un'ideale di libertà e creatività che allora era rivoluzionario e oggi è prassi anche per coloro che oggi Assayas lo mandano affanculo perché forse ha detto che l'underground era un'illusione e molto spesso un'autentica merda, non è perché vogliono distinguersi dal resto dell'umanità, mettendo su la tipica aria da cazzo della gioventù parigina che da sempre ci tormenta, ma perché leggere, dipingere, disegnare, fare cinema o parlarne, viaggiare e talvolta farsi di droghe leggere, è bello, è divertente, non è così scontato e richiede passione, impegno, coraggio, voglia di sbagliare e abbandonare per strada pure qualche amore. Nel nome di una scelta non per la rivoluzione o il popolo, ma per se stessi, per tutto ciò che di buono e di giusto può scaturire da un'epoca e diventare tesoro personale, oltre l'ideologia e la politica.
Per me Après mai è una straordinaria, quieta, lucida, semplice, dunque profondissima, ammissione di responsabilità. Forse una lezione di vita, dipende da chi la guarda e da quanta onestà di sguardo ci mette. Nell'epoca in cui il passato è la chimera per eccellenza, il sogno estetico di un presente convinto di non avere né forma né voce, Assayas l'ha riportato alla sua dimensione di pura e semplice raccolta di oggetti, musiche, volti, parole, ricordi - quanta precisione in una ricostruzione storica che non prevalica mai la rappresentazione - lasciando a noi la voglia o meno di considerala un vademecum per il presente e il futuro