Venezia 70: “The Zero Theorem” di Terry Gilliam, Waltz nel mondo Gillian (In Concorso)

Creato il 04 settembre 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
Anno: 2013Distribuzione: MoviemaxDurata: 107′Genere: DrammaticoNazionalità: Gran Bretagna, USA, RomaniaRegia: Terry GilliamData di Uscita: 19 Dicembre 2013 Mutevole e carismatico, Christoph Waltz è esattamente uno di quegli attori che cambia le sorti di un film una volta inserito nel cast. È una materia multiforme che si adatta fino al midollo al ruolo che gli viene assegnato, pur se spogliato di qualunque forza reattiva, lasciato preda dell’inettitudine e della passività della vita del personaggio.Waltz è Qohen Leth, un contabile di una ditta dall’occupazione oscura, disilluso dalla vita, in perpetua attesa di una telefonata rivelatrice che sembra non arrivare mai. Eccentrico e pessimista, Qohen vive in una chiesa sconsacrata un po’ malmessa, una volta casa di monaci gnostici che, per rispettare il voto di silenzio, l’hanno lasciata preda delle fiamme. Egli si rivolge a se stesso con il pluralis maiestatis e ha serie difficoltà di socializzazione.Il responsabile dell’azienda, Management (Matt Damon), vede in lui un talento nascosto e decide di affidargli una missione impossibile: lo studio del teorema zero. L’incarico mette letteralmente in discussione le convinzioni di Qohen, fino a ribaltare le sua concezione della realtà e dare ragione alla sua personale fuga nell’illusione.Non si può certo dire che Terry Gilliam abbia superato se stesso nella sua ultima opera The Zero Theorem. Tuttavia, il film trasuda un autocitazionismo quasi piacevole (Parnassus, le scimmie e anche Las Vegas), riciclando pure un po’ di fantasy posticcio degli anni Ottanta. Il mondo di Qohen è colorato, gommoso e tecnologico, tanto che pare una specie di versione Oompa-Loompa del futuro: non sembra così improbabile che Gillian, inglese di adozione, possa essersi ispirato ai mondi fantastici di Roald Dahl e ai suoi personaggi brutti e cattivi, ma mai davvero condannabili (Tilda Swinton, qui irriconoscibile, interpreta una psicanalista che pare più una fattucchiera, ripugnante e sdentata). Ottima la costruzione della scena operata da David Warren ed esilarante sapere che, per vestire i personaggi, si sia ricorsi a tessuti a prezzi stracciati comprati ai mercatini cinesi. Del resto, tutto il film è un’operazione low budget a cui Gilliam non ha voluto cedere, portando a termine il sogno fantascientifico ideato da Pat Rushin.Una venatura critica religiosa rimbalza tra la realtà spiata dalla videocamere e la presenza di un Grande Fratello frainteso: Cristo in croce qui è un corpo decapitato con un obiettivo che registra al posto della testa, e la fede è sinonimo di incoscienza.Tuttavia, sul finale, ci rendiamo conto di come la felicità appartenga al mondo che noi ci costruiamo, alle sensazioni che noi scegliamo di vivere, più che a ciò che ci aspettiamo possa piovere dal cielo: la formula di Qohen è vincente…seppure perdente. Le sue insistenti domande trovano una risposta che è tanto una autoimplosione quanto una apertura fantastica sull’universo dei sogni.Come a preannunciare una fuga verso l’interno quando l’esterno ci farà sentire troppo controllati per poter sopravvivere serenamente.Rita Andreetti

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