Venezia 71: “Il giovane favoloso” di Mario Martone (Concorso)

Creato il 03 settembre 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Anno: 2014

Distribuzione: 01 Distribution

Durata: 137′

Genere: Biografico

Nazionalità: Italia

Regia: Mario Martone

Data di uscita: 16 Ottobre 2014

“Leopardi sa, con molto anticipo su Proust, o su Beckett,
che solo la radicale esperienza di se stessi
consente la partita con la verità”.
Mario Martone

Gli scritti di Leopardi e il suo epistolario: questo lo scrigno dal quale Martone e Ippolita di Majo hanno estratto la traccia narrativa che tenta di afferrare e renderci ne Il giovane favoloso (in concorso a Venezia) l’anima di un poeta, uomo di lettere, passione e conoscenza, eroso da un fuoco interiore che arde incessantemente, nella consapevolezza di un’ineluttabilità esistenziale individuale ed umana. Consapevolezza accentuata, in Leopardi, da un vivere costretto e costipato in un corpo malato e nella VILE PRUDENZA che famiglia e sistema sociale-ambientale di una Recanati e di ‘pezzi di Regno’ italiano gli impongono. A cominciare dal dominio psicologico di una figura paterna, padre-padrone di questo fanciullo prodigio, da lui educato alle lettere (che assorbe voracemente come pane indispensabile di nutrimento e conoscenza) in maniera ossessiva e rigorosa: un uccello in gabbia, che può appena intravedere un barlume di luce e di aria. La vita da infante cresciuto che Giacomo Leopardi ha avuto fino a 24 anni, il suo pathos feroce con la natura, nel rapporto di odio-amore che instaura con essa… La sua imprescindibile e disperata malinconia, porta di comunicazione con un esistere dove l’unica certezza da seguire è il dubbio, solo faro a partire dal quale esplorare il rapporto con l’io e il mondo… L’affetto di suo fratello e sorella, la rigidità svuotata di sentimento e vita della madre… La fraterna amicizia con Pietro Giordani… Ci rendono un giovane e soprattutto un’anima a cui Mario Martone (e lo stesso Elio Germano, guidato nella giusta direzione interpretativa) riesce a dare corpo e respiro in un canto visivo che pur restando classico nella struttura e nel ritmo, predomina negli affondi interiori dove il tormento di Leopardi è vivo e vivido e si abbraccia alle resistenze fisiche e psicologiche di un mondo che devia il percorso di conoscenza da cui il giovane si sente attratto: stare dentro il caos che ci contiene, assaggiarne l’essenza, rifuggire ogni ‘protezione’, ogni balsamo lenitore, religione in primis.

La seconda porzione del film, dove ritroviamo il giovane favoloso ‘liberato’ dalla sua gabbia, prima a Firenze, poi a Roma e infine a Napoli, si ingolfa in una lunghezza che Martone non riesce a gestire: tutto diventa ‘pesante’, scaglionato dentro capitoli narrativi e visivi di fatto, che segnano i vari passaggi di territorio e vicissitudini, senza lasciare un consistente segno dei nuovi solchi interiori di cui Giacomo prende atto: le illusioni di apertura nell’affaccio nel mondo vero e nel rapporto diretto con gli intellettuali del tempo, della cui ipocrisia e perbenismo prenderà atto presto… L’innamoramento non corrisposto di una donna, la dama Fanny Targioni Tozzetti, lo brucerà nello sperimentare quelle illusioni naturali dell’animo destinate solo a lenire una condizione umana da cui non è possibile fuggire. Il solo elemento che pulsa in questa seconda parte, merito della buona prova attoriale di Michele Riondino, è il rapporto di sangue che Leopardi instaura con Antonio Ranieri, esiliato in Francia, Inghilterra e in Toscana per le sue idee liberali, incontrato a Firenze nel 1828, che vivrà fianco a fianco di Giacomo e lo assisterà fino alla sua morte, preservando anche i suoi scritti. Riondino e Germano ci rendono un’empatia totale, dove l’affetto reciproco e solido è la sicurezza reciproca, punto di riferimento reale, tangibile di un affidarsi assoluto. Anche la parentesi napoletana (nella descrizione di un mondo che Martone da napoletano ben conosce) riesce a tratti a rendere l’essenza selvaggia, cinica e plebea di una città in cui il caos è anche rappresentato da una natura incarnata nel Vesuvio, nella quale Leopardi trova più ‘pace’ di consapevolezza esistenziale che altrove. Merito a Martone di aver scardinato il cliché di un Leopardi ai più sinonimo di pesantezza, rendendoci un italiano modernissimo nella sua chiave di lettura esistenziale con la quale confrontarsi e a partire dalla quale approfondire i suoi scritti dove la sua essenza e il suo pensiero sono incarnati per sempre.

 Maria Cera


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