Venezia 72. Recensione: KRIGEN (A War), uno dei migliori film della mostra

Creato il 26 settembre 2015 da Luigilocatelli

Krigen (A War), un film di Tobias Lindholm. Con Pilou Asbæk, Tuva Novotny, Søren Malling, Dar Salim. Presentato alla mostra del cinema di Venezia 2015 nella sezione Orizzonti.
La sorpresa di Orizzonti (ed è un peccato che la giuria presieduta da Jonathan Demme l’abbia ignorato). Appena scelto dalla Danimarca come proprio rappresentante alla corsa all’Oscar del miglior film straniero. In missione in Afghanistan, il soldato Klaus si trova a dover prendere una decisione che avrà conseguenze fatali. Sarà richiamato e processato in patria con l’accusa di aver causato la morte di alcuni civili. Come dobbiamo considerarlo: un criminale di guerra o un eroe? Un film tra bellico e courtroom-movie che va dritto al cuore delle missioni cosiddette di pace. E che lo fa astenendosi da ogni facile pacifismo. Importante. Da non perdere quando arriverà in sala. Voto 8
Uno di quei film visti a Venezia 2015 in Orizzonti, la rispettabile ma pur sempre sezione seconda del festival, che chissà come mai non son stati ammessi – come sarebbe stato sacrosanto – nel concorso maggiore. Dove, val la pena ricordarlo un’altra volta, han trovato posto bufale senza la minima attenuante come Beasts of No Nation, The Endless River, Equals, L’attesa (e mi fermo qui, ma si potrebbe continuare con cose di autori acclamati). Forse perché questa bellissima e importante produzione danese ha le sembianze, i modi, la costruzione, l’andamento narrativo di un solido film di genere che incrocia war- e courtroom-movie? E si sa che basta un minimo sentore di genere per interdire l’accesso alle massime competizioni dei festival, anche perché la critica bon ton è poi la prima a mugugnare e bocciare e punire con recensioni indignate ogni tentativo da parte di selezionatori e programmatori di esondare dalla pura autorialità (si dia un occhio a com’è stato trattato e snobbato da certa nostra stampa il notevole Sicario allo scorso Cannes). Forse stavolta, e sottolineo forse, ha finito col pesare su Krigen il suo guardare senza demonizzazioni agli interventi militari dell’Occidente nelle plaghe disagiate e disperate del mondo (qui siamo in Afghanistan), il suo non urlare allo scandalo neocolonialista e neoimperialista, l’astenersi da ogni semplificazione ideologicamente corretta e facile pacifismo in materia. La sospensione di ogni giudizio e soprattutto pregiudizio avrà irritato le anime belle e ireniste presenti alla mostra, ma è precisamente quanto fa di Krigen un film speciale, oltretutto costruito con sapienza narrativa e somma artigianalità come raramente un bellico europeo. Confermando Tobias Lindholm regista di rispetto, e confermando tutto quello che di buono aveva mostrato proprio a Venezia tre edizioni fa con quell’A Hijacking – serratissime trattative tra pirati somali dirottatori di un cargo danese e gli headquarters della compagnia armatrice a Copenaghen – che sarebbe diventato un successo globale anticipando un film analogo e però più ricco di mezzi e star come Captain Phillips con Tom Hanks. Siamo nel cinema di sceneggiatura, quello che ai critici intello francesi piace poco (si legga quanto scritto da Libération – lo ha pubblicato da noi Internazionale – a proposito del palmarès veneziano, ove si esecra che il leone Desde Allà sia per l’appunto un mero film di sceneggiatura e non cinema-cinema). Quello che si fonda sullo storytelling, sull’incalzare della narrazione e che, piaccia o meno ai francesi, non è la negazione del cinema, ma uno dei modi possibili di farlo, e di farlo grande. Tobias Lindholm, già sceneggiatore del bellissimo Il sospetto di Thomas Vinterberg, qui firma non solo la regia ma anche lo script, andando al cuore di una delle questioni che agitano gli inconsci individuali e collettivi del nostro sempre più timoroso e pure vigliacco continente, ovvero il senso e la stessa legittimità delle nostre missioni sedicenti umanitarie e/o di peacekeeping in teatri di guerra. Che poi son missioni di guerra, come ben sappiamo, solo rinominate e mascherate linguisticamente secondo l’ipocrita eufemismo trionfante per cui negli ultimi decenni i ciechi son diventati non vedenti, gli handicappati disabili, e via edulcorando e smussando. Siamo negli anni dell’Isaf, la missione Nato in Afghanistan con soldati di diversi paesi (Italia compresa) autorizzata dall’Onu onde contenere la controffensiva talebana, e più precisamente siamo in un avamposto a casa di Dio tenuto da militari danesi. Là fuori il solito paesaggio di pietre, villaggi polverosi abitati da gente imperscrutabile (da che parte stanno?), e l’eterno nemico, i talebani, pronto a colpire con ogni mezzo, quello degli attentati kamikaze incluso. Lì, nel chiuso del fortino, i soliti ozi, la solita attesa da deserto dei tartari, il solito ammazzare nevroticamente il tempo tra giochi di ordinario, goliardico machismo, e telefonate e collegamenti con casa (ormai un classico del cinema d’oggidì il papà soldato in Iraq o Afghanistan costretto a dare il bacio della buonanotte via skype al pupo e a informarsi su come siano andati la giornata scolastica e il corso di nuoto con gli amichetti, mentre a pochi metri infuria il fuoco nemico e lo jihadista di turno avanza e il nostro rischia di morire ammazzato: vedi le scene tra Bradley Cooper e Sienna Miller in American Sniper) e poi, di colpo, ecco arrivare l’assalto, ecco la necessità di rispondere con le armi, e le bombe, gli scontri, i feriti, e il resto. Klaus è il comandante della guarnigione, un brav’uomo, un soldato serio e responsabile, che ha a cuore la sicurezza dei suoi ragazzi e vorrebbe sinceramente dare una mano anche a quei poveri disgraziati di afghani, solo che – come abbiamo visto anche in molti film sull’Iraq – quelli non parlano, fan gli omertosi, temendo di essere considerati collaborazionisti e sgozzati come capretti. Finché ecco il fattaccio. Mentre è sotto attacco con i suoi, Klaus per salvare la vita a un commilitone ordina di colpire, e ci saranno conseguenze fatali. Richiamato immediatamente in patria, Klaus si ritrova addosso l’accusa di aver causato la morte – con quel suo ordine di fare fuoco – di alcuni civili afghani, di non aver rispettato le regole di ingaggio e la complessa procedura, di avere attaccato senza reale necessità. E comincia il processo. Dove quei momenti vengono rivisti, rivalutati, ridiscussi, ricostruiti minuziosamente più volte e secondo i diversi punti di vista e i vari testimoni. E secondo i documenti man mano emersi. Con un pubblico ministero che è una signora assai abile, preparata, determinata a far condannare Klaus. Un film dunque che, bellico e action nella sua prima metà, si sviluppa e si conclude come un classicissimo e assai teso courtroom-mpvie, molto bene orchestrato da Lindholm con tanto di ping pong tra accusa e difesa e i rituali “mi consenta vostro onore”, “obietto” ,”obiezione accolta (o respinta)”. Solo che qui non si tratta solo di stabilire che cosa sia davvero successo, e come, e perché, e se Klaus per caso stia mentendo asserendo, come fa, di aver dato quell’ordine in ossequio alle procedure e non avendole violate. La vera posta in gioco del processo, e del film, è la legittimità dei nostri interventi militari laggiù. I twist, i colpi e contraccolpi di scena non costruiscono solo un thriller peraltro eccellente, ma lo stesso teatro in cui la nostra – ebbene sì – coscienza è chiamata a scegliere, a decidere il che fare e da che parte stare. Coloro che si aspettano un film di aperta condanna delle missioni in Afghanistan (o Iraq) resteranno delusi, qui non si fa del pacifismo facile, del benpensantismo sentenzioso, qui non si omaggia il pensiero medio e unico, qui si pone la questione lacerante se un soldato che ha fatto il suo mestiere e il suo dovere per salvare i suoi sia da considerarsi un criminale di guerra o un eroe. Non sto certo a dirvi come Krigen finisce – sento già gli squittii paranoici di chi grida ‘spoiler! spoiler!’ -, ripeto solo quanto mi ha detto un critico mentre si stava in fila a Venezia: un film così dieci anni fa non sarebbe stato neppure pensabile e se ne sarebbe impedita e censurata la visione. Perché? Semplicemente perché i militari in missione antitalebana non vengono dipinti sic et simpliciter come mostri sanguinari. Si esce da Krigen con parecchie domande e tormenti dentro. Perché l’Europa è così vile di fronte a certe tragedie (vedi adesso la Siria)? Perché l’opinione pubblica è ferocemente contraria a ogni tipo di intervento? Perché tendiamo a criminalizzare con tanta facilità militari che rischiano la pelle? Perché l’Occidente si è rinserrato in una bolla da cui è espunta ogni traccia di realtà, ogni confronto con la storia? Ci mancava, un film come questo. Spero che qualcuno lo distribuisca in Italia e faccia il giro del mondo. Intanto, la Danimarca l’ha giustamente appena scelto come proprio candidato all’Oscar nella categoria migliore film in lingua straniera. Stiamo a vedere dove arriverà.