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Venezia 72: The Family (Jia) di Liu Shumin (Settimana della Critica)

Creato il 03 settembre 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
  • Anno: 2015
  • Durata: 280'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Australia, Cina
  • Regia: Liu Shumin

Un esordio tanto eccezionale è The Family di Liu Shumin da essere stato selezionato a programma quasi ultimato della Settimana della Critica con l’onore di pre-aprire le danze. Una storia di sentimenti famigliari che si prende tutto il tempo necessario per mostrare e coinvolgere, The Family è un’opera immensa e compiuta in cui la forma cinematografica vuole aderire alla vita. L’opera prima di Liu Shumin è un atto di ribellione artistica in 35mm che sfida le logiche del mercato per rispettare il ritmo della modesta quotidianità. Il film ha una durata importante, siamo davanti a un lavoro di 280 minuti, che il regista ha deciso di non sacrificare in fase di montaggio a scapito di una versione più snella e adatta alla distribuzione. Il risultato di tale scelta a favore del valore estetico e semantico del girato crea un ritratto di vita quotidiana di respiro quasi umano, e l’insistenza della camera fissa sulle umili attività che giorno dopo giorno impegnano la coppia compie quella straordinaria convergenza tra tempo cinematografico e tempo della realtà.

Come Viaggio a Tokyo di Ozu, una coppia di anziani mossa dalla consapevolezza dell’incombenza della morte parte in viaggio per visitare i figli un’ultima volta. Il Giappone come teatro di cambiamento e scontro generazionale è sostituito da una Cina odierna altrettanto mutata e sfaccettata che detta ritmi e modi del vivere al microcosmo famigliare.

Il film si apre in cucina, con una donna dedicata alla preparazione di una prelibatezza: è Deng, madre, moglie di Liu ed ex insegnante. Come in buona parte della cultura e del cinema orientale, il cibo e la sua preparazione sono il momento dell’unione famigliare, e sono anche uno dei tanti modi di Deng di occuparsi della sua famiglia, di parlare e di tramandare, di riconciliare. Nella cura e meticolosità con cui Deng taglia, soffrigge, conta – sempre sei portate a tavola – e serve quelle pietanze che tanto si vorrebbero assaggiare, si esprime e concretizza un’idea di vita e di amore per e nella famiglia. Quella donna che da giovane dormiva a malapena per occuparsi di un marito buono ma non sempre paziente, dei figli spronati con solerzia a sviluppare le proprie virtù, è ora un’anziana e saggia donna che viaggia per la Cina con al fianco l’anziano compagno di una vita per fare visitare ai suoi affetti e accertarsi che stiano bene. Dispensatrice non giudicante di consigli culinari, scolastici, amorosi, Deng è il pilastro della casa, colei che conosce la natura profonda dei suoi amati e sa come apprezzarli e incoraggiarli a migliorarsi.

Tra inquadrature che ora si stringono discrete tra la cornice di una porta e il muro di casa – ancora un omaggio ai geometrici quadri di Ozu – ora si aprono per rivelarci i personaggi nel loro circondario, Liu Shumin ci mostra una storia di legami, tra persone e con un Paese dalla presenza così condizionante. Quando la coppia raggiunge i tre figli sposati in diverse regioni della Cina troverà diverse forme di accoglienza nonché stili di vita profondamente influenzati dai luoghi. La figlia che conduce una vita agiata sembra non avere molto tempo e voglia di stare assieme, assenza che cerca di colmare con l’acquisto di regali costosi, mentre il figlio non può fare a meno di scontrarsi con un padre a cui non perdona il benché minimo errore. Se i legami tra i membri della famiglia tenuta stretta dall’amorevolezza e comprensione profonda di una madre-colonna portante appaiono in tutta la loro fragilità e natura conflittuale, tra quelli non diretti si annida invece quell’affetto genuino e spontaneo che i figli troppo presi dai propri problemi e dalla differenziazione di sé in relazione ai “padri” pare abbiano abbandonato. Ancora una volta ritorna in mente Viaggio a Tokyo di Ozu e l’impossibilità della progenie di occuparsi dei genitori e amarli incondizionatamente. In contrasto al legame diretto, che si definisce piuttosto come ostacolo alla costruzione di una relazione, si erge il carattere accudente e spontaneo della nuora, che nel film di Liu Shumin ha un’aria quasi puerile e genuina, sempre nascosta dietro una folta e lunga frangia che sembra proteggerla dal cinismo del mondo esterno. Il regista guarda con compassione ai figli irosi o distaccati e ai nipoti svogliati o egoisti, convinto che lungo il cammino della vita il bene possa sempre essere ritrovato.

Se il capolavoro di Ozu si apre e chiude con una partenza, l’opera – osiamo dire – altrettanto monumentale di Liu Shumin stringe prologo ed epilogo attorno al cibo servito in tavola a cui nel finale, però, il tratto conviviale si carica di un’aura funesta marcata dall’assenza che gioca sugli opposti.

Come il cinema di Liu Shumin si prende il tempo necessario per raccontare i sentimenti, ricordandoci il potere costruttivo dell’amore, così i due anziani mossi dal presentimento del tempo che stringe sono un monito a non affidare a domani il tempo della riconciliazione e della cura.

Francesca Vantaggiato



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