E’ fosco l’aere, il cielo è muto, ed io sul tacito veron seduto, in solitaria malinconia ti guardo e lagrimo, Venezia mia. Fra i rotti nugoli dell’occidente il raggio sperdesi del sol morente, e mesto sibila per l’aura bruna l’ultimo gemito della laguna. Passa una gondola della città: Ehi, dalla gondola, qual novità? Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca! No, no, non splendere su tanti guai, sole d’Italia, non splender mai; e sulla veneta spenta fortuna sia eterno il gemito della laguna. Venezia! L’ultima ora è venuta; illustre martire, tu sei perduta… Il morbo infuria, il pan ti manca, sul ponte sventola bandiera bianca! Ma non le ogni dove palle roventi, né i mille fulmini su te stridenti, troncano ai liberi tuoi dì lo stame… Viva Venezia! Muore di fame! Sulle tue pagine scolpisci , o storia, le altrui nequizie e la sua gloria; e grida ai posteri: Tre volte infame chi vuol Venezia morta di fame! Viva Venezia! Feroce, altera, difese intrepida la sua bandiera; ma il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca! Ed ora infrangasi qui sulla pietra, finch’è ancor libera, questa mia cetra. A te, Venezia, l’ultimo canto, l’ultimo bacio, l’ultimo pianto! Ramingo ed esule sul suol straniero, vivrai, Venezia, nel mio pensiero: vivrai nel tempio qui del mio cuore, come l’immagine del primo amore. Ma il vento sibila, ma l’onda è scura, ma tutta in gemito è la tua natura: le corde stridono, la voce manca, sul ponte sventola bandiera bianca! -Arnaldo Fusinato- (Sul ponte sventola bandiera bianca, poesia <raccontata> in ricordo dell’eroismo veneto dell’agosto 1849).
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SUL GIANICOLO
Mia cara Anita. Io so che tu sei stata, e sei forse ancora ammalata, voglio veder dunque la tua firma, e quella di mia madre per tranquillizzarmi. I Gallo-Frati del Cardinale Oudinot si contentano di darci delle cannonate, e noi, quasi, per perenne consuetudine, non ci facciamo caso. Qui le donne, i ragazzi, corrono addietro alle palle, e bombe, gareggiandone il possesso. Noi combattiamo sul Gianicolo e questo popolo è degno della passata grandezza. Qui!… si vive, si muore… si sopportano le amputazioni al grido di <Viva la Repubblica>. Un’ora della nostra vita in Roma… vale un secolo di vita!! Felice mia madre! D’avermi partorito in un’epoca così bella per l’Italia. Questa notte, trenta dei nostri, sorpresi in una casetta fuori le mura, da centocinquanta Gallo-Frati, se l’ànno fatta a baionettate: hanno ammazzato il capitano, 3 soldati, 4 prigionieri del nemico ed un mucchio di feriti. Noi un sergente morto ed un milite ferito. I nostri appartenevano al Reggimento Unione. Procura di sanare, baciami mamma, i bimbi. Menotti m’ha beneficato di una seconda lettera. Glie ne sono grato. Amami molto tuo Giuseppe Garibaldi. Roma, 21 giugno 1849.
LA RAPSODIA GARIBALDINA
I
Alto, a cavallo, mentre il sol dilegua
dietro i templi dell’Urbe, alla Coorte
Garibaldi parlò: Nessuna tregua!
Lascio Roma, che cede oggi al più forte,
ma non lascio la guerra. Volontari:
v’offro fame, battaglie, agguati, morte.
Chi vuol, mi segua. E al Duce, fra gli spari
delle francesi artiglierie più fitti,
si strinsero, acclamando, i Legionari.
E quel lacero gruppo di sconfitti,
quel mitragliato avanzo, ultimo e stanco,
d’audacie eroiche, d’epici conflitti,
mosse via dietro Lui, via dietro il bianco
puncio del Duce, cui l’invitta Annita
tacitamente cavalcava al fianco.
Debole e incinta, pallida e sfiorita,
l’ardita Donna, dall’Eroe travolta
nel turbinoso vol della sua vita,
seguì ombra fedele anche una volta
L’Eroe suo biondo in quella tragica ora
in quella notte perigliosa e folta,
verso l’ignoto. Come rossa aurora
bpreale, nel buio, qualche tetro
baglior d’incendio fiammeggiava ancora,
e, quasi faro di trionfo dietro
lo stuol fuggiasco, ne splendea per l’aria
la jeratica volta di San Pietro.
Durò tutta la notte; obliqua e varia,
sfuggendo alle vittrici soldatesche,
la taciturna marcia leggendaria;
fin che all’alba sostò su tra le fresche
tiburtine ombre, fluttuando il piano
di baionette ispaniche e tedesche,
dense nei campi come a giugno il grano.
II
Nel silenzio di Tivoli, già insigne
di sacre Muse ospizio, tra sfumate
di pallido vapor selvette e vigne,
crosciava alla quieta alba d’estate
l’Anio spumante, memore d’Orazio,
chiamando al fresco delle sue cascate;
e per l’ultima volta, in breve spazio
sparsa fra il verde, bivaccò la schiera
di Garibaldi sotto il ciel del Lazio:
mentre Egli, in faccia alla velata austera
del pian malinconia fermo in arcione,
(né un soffio movea l’aurea criniera)
guardava assorto nella visione
del gran sogno di Roma, consacrato
dal miglior sangue della sua Legione.
E rivide, per quel sogno, l’alato
impeto di Mameli e di Montaldi
procomber su lo spaldo fulminato;
e sanguinar Manara co’ suoi baldi
bersaglieri piumati, un contro mille,
fra una selva di punte immoti e saldi;
e cascar Bixio, ardente Achille,
e Morosini piegar come un giglio,
e Villa Spada in cenere e in faville,
e Roma vinta… Fumido e vermiglio
il sole uscìa, fra umidi vapori,
sul mesto agro di Roma e sul periglio
del Cavaliere suo. Con precursori
lampi appressavan, rapida minaccia,
le baionette dei trionfatori.
E lo stuolo fuggiasco, senza traccia
lasciar di sé, come uno stuol di larve,
dinanzi all’oste sguinzagliata in caccia,
dall’opposto pendìo scese, e disparve.
III
Tutto quel luglio andò così, più scarsa
di giorno in giorno, la fedel Coorte,
trafelata, affamata, assetata, arsa,
da quattro eserciti inseguita a morte
fra gente ostil, fra l’odio e la paura
che le sbarravano in faccia le porte
come a masnada di briganti, in dura
continua marcia sotto lo stellato,
sotto la fiamma della gran caldura,
via, d’ansia in ansia, d’agguato in agguato,
per impervio selvaggio erto cammino,
dietro al suo Duce come dietro al Fato,
ché nel cor di quel Duce era il destino
d’Italia. Per la verde Umbria selvosa
valicò ansando l’eremo Appennino;
ruinò col Metauro in tortuosa
corsa pei greppi verso l’Adria gialli,
pei borri della Marca montuosa;
scese, ascese, ristette: E all’ime valli
ogni sbocco chiudean, presso e lontano,
siepi di sciabole irte e di cavalli.
Come accerchiata belva, il Capitano
sta fra il bosco d’acciar che lo circonda,
a te guardando, o arduo Titano;
e per quel bosco minaccioso a fonda
notte serpendo, attinge cauto a volo
la tua libera vetta al sol gioconda.
Primo, davanti allo sbandato stuolo,
reggendo Annita sua egra e sfinita,
salutò San Marino, ospite suolo.
Poi calò al mare. A nuova corsa ardita
pochi animosi or ne seguiano i passi;
ma gli batteva accanto il cuor d’Annita,
e un gran cuore di martire: Ugo Bassi.
IV
L’Austria bandì: Sarà pagata a peso
d’oro la testa del filibustiere
Giuseppe Garibaldi. Chi sia preso,
in mare o in terra, ai monti o alle costiere,
della sua banda, e chi ricetti o aiuti
quei campati alle forche e alle galere,
sarà impiccato. Ed ecco verso i muti
lidi, dell’Adria che solingo fiotta
e dalle ronde austriache battuti,
ecco arrancare un palischermo in lotta
con la grossa marea, ferocemente
cannoneggiato dall’austriaca flotta;
ed ecco, a notte, su le sonnolente
dune gittarsi un naufrago, portando
sopra le braccia una donna morente,
e cacciarsi nel buio. A quando a quando
fra le cannucce e il brago della valle
palustre affonda, arrestasi alenando.
E Garibaldi sentesi alle spalle
la pesta dei gendarmi e dei croati,
sente, nell’ombra, sibili di palle.
E va e va, cercando agli assetati
labbri d’Annita un gocciol d’acqua nelle
profondità dei botri e dei fossati,
un gocciolo di fresca acqua per quelle
fauci anelanti che la febbre asciuga
nell’afa della notte senza stelle.
E va e va, mentre la ronda fruga
ogni frasca ogni covo ogni romito
angolo. Non più corsa, ora, ma fuga:
fuga di cauto leone inseguito
che si rimbosca, cupido di strage,
contenendo nel gran petto il ruggito,
e sbarrando nel buio occhi di brage.
V
E Annita muore. Quella bruna testa,
che passò fra i baleni alta e tranquilla
sotto un perpetuo rombo di tempesta
langue riversa, mentre il vespro brilla,
sopra un guancial pietoso, aprendo immota
sul dolce Eroe la vitrea pupilla.
Fisando ancor la cara faccia nota,
ecco velarsi l’occhio moribondo
che una lenta lacrima le nuota,
e tutto a quel velato occhio profondo
impallidire su la ravegnana
pineta il cielo e scolorire il mondo.
Come un lamento d’anima lontana,
nella penombra che quieta scende,
piange per l’aria un pianto di campana.
Annita muore. Levasi e s’accende
quel cereo viso a un tratto: al guardo inerte
forse una estrema vision risplende.
Oh verdi, interminabili, deserte
distese della Pampa! Oh pascolanti
saure, del fren della sua mano esperte!
Ivi ella crebbe con l’alte erbe ondanti,
ivi Ei le apparve, biondo come il sole,
e la guardò con gli occhi scintillanti…
Sfumavasi in pallori di viole
l’adriaco vespro, e all’amor suo sul petto,
fra quell’umili mura ignote e sole,
ella piegò. Con ansioso affetto
Ei la chiamò, chiamò con passione
impetuosa il bel nome diletto;
e in desolata disperazione
la violenza del compresso duolo
dal cor gli uscì. Quel core di leone
poteva ormai ben piangere: Era solo.
-Giovanni Marradi-