Tanto sublime il piano sequenza iniziale quanto tronfia la scena finale. Gravity di Alfonso Cuaron si muove tra questi due estremi, sineddoche dell’apice e del punto morto inferiore di un film sci-fi che di fantascienza ha ben poco, solo l’ambientazione galattica, mostrandosi più come un film di sopravvivenza ambientato al di là dell’atmosfera. L’apice è la regia di Cuaron. Ma questo già lo si sapeva (basti vedere lo splendido I figli degli uomini). La macchina da presa si muove su orbite libere che sfuggono ai satelliti, in vortici continui tra il vuoto immenso e una navetta di salvataggio mai vicina come si vorrebbe. Un lungometraggio che, con pochissimi tagli di montaggio, vive di un realismo no-stop. Uno splendore visivo esaltato da un 3D moderato e mai invasivo che amplifica il mondo senza gravità, che ammalia all’inizio e si ammoscia solo sulla lunga distanza. Palla al piede di questa magnificenza tecnico-stilistica è quella ostentata fierezza americana che mischia “I have a dream” e “barcollo ma non mollo”. E si affrontano scene alla Cliffhanger, richiami a posizioni fetali come solo in 2001: Odissea nello spazio e malinconie “home sweet home” culla degli affetti umani. Ci può stare tutto, ma Cuaron si sbrodola nel finale, con un ampolloso ritorno alla madre terra promessa. La Bullock accarezza e stringe nelle mani la sabbia bagnata. Potrebbe anche masticarla, baciare il terreno come Cristoforo Colombo, ma non, come fa, rimettersi in piedi, palesando come, superstite a mille disavventure, sia in grado di tornare nella piena facoltà di camminare e ad una vita nuova dopo un grave lutto familiare.
Detto questo, Sandra Bullock stupisce tutti, credibile pure nel dialogo ululato con i cani di un cinese casualmente intercettato in orbita prima di una tentata eutanasia nello spazio. Al suo fianco un George Clooney sopra le righe, splendido come non mai in un personaggio che, nei suoi panni, non vive il dramma di una “calamità” in itinere nello Spazio. Scortato da musichette country da camionista dell’Illinois, è piacione all’eccesso, con uno charme da imbrocco fisso che non scompare neppure nel primo “salvataggio” al volo” della dottoressa Stone. Il suo “portamento” è accettabile solo in una sequenza, e lì, al posto della vodka, avremmo apprezzato un Nespresso con sensuale invito della Bullock: “Mr. Clooney, come in!”.
What else? Non avrebbe guastato un po’ più di controllo in contenuti e sceneggiatura (esile e deboluccia) a tutta questa forza estetica e autoriale. E allora anche in Sala Grande qualche applauso in più sarebbe arrivato.
Voto: 7