Se Gravity lo scorso anno fu un grandioso film d’apertura (con un piano sequenza iniziale nello Spazio lungo 15 minuti), Birdman apre le danze di Venezia 71 in modo ancor più sorprendente, quasi ineffabile, colpo grossissimo di Alberto Barbera e il suo team.
Birdman è un film gigantesco, magnetico, un flusso di cinema allo stato più puro e più raffinato allo stesso tempo. Se non fosse per i minuti finali, Inarritu realizza un unico incredibile piano sequenza lungo tutto il film, roba vista solo in Arca Russa di Sokurov. La macchina da presa segue i protagonisti, gira continuamente su se stessa, spicca il volo, atterra e riparte.
Birdman coinvolge e diverte, trainato da un mix di elementi senza pari: la fotografia di Lubezki, una sceneggiatura spumeggiante e densa di spunti, una regia che non si smarrisce neppure per un attimo. Inarritu getta anche qualche pennellata di riflessione sulla figura dell’attore, sullo star system, sulla critica teatrale e cinematografica e su molto altro ancora.
Sul grande schermo il tentato ritorno alle luci della ribalta di un attore divenuto una celebrità nei panni di un superhero dotato di becco e ali, un character ingombrante che come un fantasma del passato continua a tormentarlo. Ad impersonarlo un Michael Keaton in grandissimo forma, che da anni non vedevamo on screen, come se avesse passato tutto questo tempo a mettere a punto i dettagli di questa grande prova. Ma nel pollaio c’è anche un Edward Norton mastodontico, che nella prima parte più volte pesta i piedi al protagonista. Bravo Zach Galifianakis, brava anche Emma Stone che la fa crescere molto tutta insieme. Stona l’enfatico e strozzato patetismo di Naomi Watts.
Con Birdman Inarritu riesce quindi in un folle volo, e a differenza di Icaro non si brucia le ali, ma fa sognare. Un’opera che dimostra la straordinaria poliedricità del regista di Babel, capace di passare dai film-puzzle precedenti dominati dal montaggio ad un film che è uno stream fluidissimo dove il cinema si snoda onirico e reale.
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