Venivamo tutte per mare.

Creato il 15 aprile 2012 da Tazzina @tazzinadi


Non ho mai letto un libro così bello. Non "potente", non "giusto", non "importante", non solo almeno. Ma proprio bello. Nel senso della bellezza. 
Sulla quale scrittori, registi, pensatori, mistici, pittori, scultori e altri si interrogano da sempre. E adesso è arrivato anche questo romanzo di Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, Bollati Boringhieri ad aggiungere un tassello dorato nel mosaico dello splendore e dell'ingegno. 
Perché, oltre a rappresentare un vero documento storico - l'autrice infatti esplora* il fenomeno dell'immigrazione giapponese in America a inizio Novecento - il libro contiene in sé anche una prova di abilità di scrittura e di tecnica, di perfezione e miniatura. In una parola, leggerlo è come accorgersi di un prodigio naturale, come un alto picco innevato, ed esserne testimoni. Ho letto che è stato definito ipnotico e corale. Concordo. Non leggevo un libro così corale e ipnotico, credo, dall'Antologia di Spoon River
Corale perché la voce narrante è molteplice. Il soggetto è sempre "noi". Nello specifico, "noi ragazze giapponesi" trasferite, per mare, negli Stati Uniti, a incontrare futuri mariti mai visti prima.
Il Giappone, la sua cultura, per quel che ne so io, ha poteri, tra le tante altre cose, incantatori. 
(Digressione ultra-personale: qualcosa di giapponese, forse ve l'ho già raccontato, è entrato nel mio sangue, da goffa bambina cintura bianca "troppo alta per la sua età" a giovane donna cintura nera primo dan di aikido dagli otto ai ventitrè anni, che sembra un soffio, ma è stata un'impresa sotto ogni aspetto, comunque in modo indelebile. Qualcosa di importato, indecifrabile, inesatto ma decisivo per così dire e per il resto della mia vita. E quel qualcosa, nel parlare franto e quasi trasparente di queste voci io lo sento davvero, sulla pelle, nella memoria, nel cuore, nei muscoli, non lo so, chissà dove e perché, da qualche parte.)
E dunque dentro questa voce che parla si intagliano come scritte bianche nel vetro, ancora altre voci, quasi echi ancora più lontani ma che saltano su come i ricordi più netti, scritte in corsivo che letteralmente parlano e non so come spiegano meglio il concetto appena espresso dalla voce principale, che racconta tutto il tempo. 
In una parola, la voce narrante è la vita. La vita di quelle persone che racconta se stessa, guardata con gli occhi delle sue donne, il loro vociare, le loro meditazioni, i loro sogni, la loro paura, la preoccupazione, l'esasperazione, il sogno, l'ingenuità maledetta, tutto insieme, contemporaneamente. 
Perché in effetti c'è tutto: la ricerca di qualcosa di meglio. Il viaggio per andarlo a cercare. La disillusione. L'amore. I figli. Le disgrazie. Le sorprese. La guerra. I frutti della terra. L'abnegazione. L'abiezione. La sopraffazione. L'incomunicabilità. La tradizione. La servitù. Il soggiogamento. La distruzione del passato. Il ritorno del passato. E lunghi capelli lisci, pettinini di tartaruga, fragole, sangue, dolore, morte, dicerie, tradimenti, deportazioni, valigie, rughe, minuzie, cani, calli sulle mani, percosse, sguardi, incubi notturni, cieli azzurri, riso, carne, destini.
Tutti i destini di questa fetta di mondo semovente, piccolo, questo angolo di Storia che nelle parole di questa scrittrice si circoscrive in sussurri. 
E questo tutto, che potrebbe sembrare un enorme brusio sovraffollato, assomiglia invece a un panorama pieno di stelle differenti. Belle. Ed eterne.
"La prima parola della loro lingua che ci venne insegnata fu: 'acqua'. Gridala forte, ci dissero i nostri mariti, quando cominci a sentirti debole in mezzo ai campi. 'Impara questa parola', dissero, 'e ti salverai la vita' ".
"Non sapevamo leggere le loro riviste e i loro giornali. Fissavamo disperate i loro cartelli. Ricordo solo che cominciava con la lettera 'e'".
"Non lasciarti scoraggiare. Porta pazienza. Stai tranquilla. Ma intanto, ci dicevano i nostri mariti, per favore, lascia parlare me".  
c\_/
* nei ringraziamenti in fondo al libro trovate le sue fonti. 

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