Vent’anni fa Rodney King infiammò la metropoli globale

Creato il 12 maggio 2012 da Nicola Mente

Venti anni prima. Il triste anniversario solca un flusso di sangue, quel sangue che per le strade di Los Angeles è ormai macchia indelebile. Sangue che racconta di un’antica battaglia, assorbito e mai cancellato dall’asfalto, assoluto padrone della città degli angeli. Il 29 aprile del 1992 tre poliziotti su quattro furono assolti nel processo che li vedeva accusati di violenze reiterate nei confronti del tassista afroamericano Rodney King. I quattro fermarono l’uomo nella notte del 3 marzo 1991, ufficialmente “per eccesso di velocità”: il successivo pestaggio selvaggio sul malcapitato King si consumò sotto l’obiettivo di una cinepresa amatoriale. George Holliday, il videoamatore di Lake View Terrace, dal suo appartamento al secondo piano credeva di filmare un arresto da esibire con fierezza agli amici, inconsapevole di colpire al cuore un paese intero, e con esso il resto del pianeta.

In una metropoli falcidiata dalla faida tra bande e dalla guerra di “Colors”, dove (come spiegato da Sean Penn e Robert Duvall qualche anno prima) il colore non contava più sulla pelle ma su una giacca d’appartenenza, Holliday aprì la nuova era del filmato amatoriale, dell’atrocità in presa diretta, dell’occhio vigile, del vouyerismo dossier.  Era il 1991, e nulla avrebbe comunque fatto presagire un’evoluzione così deflagrante della questione: l’ondata di violenza esplosa in reazione all’assoluzione dei quattro poliziotti fu un evidente esempio di altrettanto evidente cedimento. Anzi, una serie di cedimenti. Il cedimento dei principi di una nazione che si trovò a fare i conti con i suoi mali più grandi, come la discriminazione sociale e l’insofferenza urbana. Il fallimento del meltin’ pot tanto sbandierato. Il cedimento delle strutture cittadine, causato da un improvviso collasso della politica e della buona amministrazione, che trasformarono la metropoli in triste teatro di morte. Il cedimento della tranquillità e del silenzio, riguardo un problema (in California, come in tutti gli Stati Uniti) che con il tempo non aveva cessato di incidere sulle coscienze, ma che veniva semplicemente taciuto.

Holliday, subito dopo aver spento la sua videocamera, trovò nell’emittente locale KTLA un proiettore delle paure e dei conflitti quotidiani: un manifesto da regalare al mondo. I più grandi network non persero tempo nell’incorniciare il tremendo cortometraggio, con le botte dei quattro agenti che provocarono lividi e tumefazioni ad un sistema in piena campagna elettorale. Un sistema impegnato nell’allestire un mondo di cartapesta, come un riflettore che illumini solo la metà sana della mela, nascondendo quella marcia. Così,  proprio in quel mercoledì 29 aprile 1992, si consumò il verdetto di assoluzione degli agenti, che innescò una deflagrazione dalla rara forza d’impeto: 53 morti, 2.383 feriti, circa 7000 incendi e 3100 attività commerciali distrutte, con danni per un miliardo di dollari. Le immagini che ci aiutano a ricordare scenari da guerriglia urbana sono molteplici, e per chi può ancora chiedere aiuto alla memoria – come la mia di adolescente – questa angosciante sequenza è un tuffo nel passato.

Le strade, i supermercati, gli scorci metropolitani che tramite la tivvù e il cinema abbiamo diligentemente e inconsciamente imparato a rendere casa nostra (sebbene ci sia un oceano in mezzo), trasformati  in ring apocalittici dove tutto brucia e dove i pugni colpiscono duro, tanto da sfondare lo schermo e chiuderti lo stomaco. Come in un film vietato ai minori, l’escalation abbracciò tre giorni d’inferno, in cui il caos regnò sovrano, lasciando in dote martiri di un conflitto tanto inedito quanto cruento. Oggi, con due decadi alle spalle passate senza un come e con parecchi perché, siam qui a sgranare gli occhi sul passato  con la paura di doverlo ritrovare, prima o poi, sulla nostra strada. E allora, a guardare a ritroso, si scopre come lo sgomento colpì duramente la sempre austera opinione pubblica americana: nessuno avrebbe immaginato che, in quel 29 aprile, la giustizia più imparziale del paese che più di tutti, tra ostentazione e proclami, si sforzava di mostrare il suo volto pulito e sciacquato da antica sporcizia, avrebbe rincarato la dose amara della già indigesta pillola.

Il 29 aprile lo Stato mostrò la sua espressione più inquietante: quella dell’impunità. Discriminando. Innalzando la propria condizione di intoccabilità. Marcando differenze. Manifestando la sua brama di controllo. Il 29 aprile 1992 la coperta si rivelò troppo corta, il sommerso traboccò, e le conseguenze furono nefaste. Perché Rodney King non fu soltanto reticenza di una lotta razziale figlia di Malcolm X. Rodney King (e l’impunità del crimine a lui perpetrato) incarnò l’impotenza degli ultimi, e i disordini che dapprima scoppiarono nei sobborghi più poveri, ben presto travolsero tutta la città. Per la prima volta, il conflitto sociale non era più riconducibile all’esclusiva lotta tra bianchi e neri. Per la prima volta, il conflitto assumeva proporzioni molto più grandi, incarnando le angosce dei diversi e degli ultimi. Coreani, Latinoamericani, Neri, e bianchi indigenti improvvisamente emersero e mostrarono tutte le contraddizioni di un sottotessuto fatto di schiavitù quotidiana. Perché l’esclusione sociale aveva sì gli abiti del razzismo, ma non solo. Il tutto venne esacerbato dall’impudenza di un sistema accartocciato da corruzione e ripicche personali, in cui oltre 50 vittime potevano rappresentare il segno di un patetico scontro altolocato tra un capo della polizia bianco (William Gates) e un sindaco nero (Tom Bradley). Insomma, la rivolta di Los Angeles fu lo specchio di ogni brutalità umana, ma anche lo stagno in cui vedere le nostre angosce riflesse, immaginando quanto possa essere opprimente occupare quella fetta di società mai baciata dal sole.

Tra il 29 aprile e il 4 maggio del 1992, gli Stati Uniti mostrarono tutte le loro brutture, e tutti quei cronici problemi falsamente dati per risolti. Oggi come allora, ci tocca apprendere e conoscere esperienze tragiche tese a spiegare quale sia realmente il diritto alla vita di una persona, nel momento in cui parte da una condizione di non-persona. Sullo sfondo, varie analogie che corrono per quattro lustri, a cominciare dal contesto in cui emerge la corsa politica e il rastrellamento di consensi, come vuole una buona campagna elettorale.  Oggi come allora, si corre per le presidenziali e, con esse, per un nuovo ordine di cose. Oggi come allora, Rodney King è il simbolo di chi resta fuori dalla stanza, a morire di stenti. King come Pinelli, come Cucchi, come Aldovrandi, come chissà quanti altri. King come cento, mille ragazzi neri maltrattati da poliziotti bianchi.
Oggi come allora, la rivolta furiosa e dissennata, simbolo della solitudine umana, si scopre figlia di due genitori così diversi: da una parte il malcontento per una vita ai margini,  dall’altra lo sconsolante eco di voci flebili, che non arriva mai ai piani alti. «Can we all get along?» («Riusciremo a vivere uniti?») si chiedeva lo stesso King, durante i giorni della rivolta. Il problema è che quel genere di sommossa non ha nessun crisma di unità. Quella  fu l’insurrezione della solitudine, forse l’unica possibile, principale deterrente per qualsiasi tentativo di risposta organizzata, sebbene ce ne fosse realmente bisogno. Rivolta sì, rivoluzione no. Stirner diceva che la rivolta «è una lotta contro ciò che esiste. Una volta riuscita, ciò che esiste crolla da solo. Essa non fa che liberare il mio Me dallo stato di cose esistente, il quale, dal momento in cui me ne congedo, viene meno e cade in putrefazione».

(Pubblicato su Gli Altri Online del 3 maggio 2012)



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