Ultimamente la parola “verde” mi fa venire in mente la faccia di Angelino Alfano. È curioso come il cervello leghi tra loro elementi di una lunga catena, fino a affiancarne i due estremi, come gli anelli della chiusura di un rosario.
Il fatto è che la parola “verde”, sic est, è da tempo usata per indicare ogni cosa che concerne il mondo delle piante (siano esse alberi, fiori o erbacce), dell’ecologia e della biologia nel senso più esteso (e quindi più vago) che si possa immaginare.
È una parola semplice, perché rappresenta il colore fondamentale delle foglie, quindi il pensiero corre subito ad esse e ad un idillico stato di paesaggio non antropizzato.
Come tutte le parole che veicolano con facilità e velocemente un concetto, la burocrazia e la politica l’hanno adottata senza indugio. Ne sono nate espressioni al limite dell’oscenità linguistica, come “verde pubblico”, “verde ornamentale”, “verde attrezzato”, “spazio verde”, “area verde”, “il verde” (qui siamo nel campo della massima genericità), “mondo verde” o “mondo vegetale” (questa poi sembra un insulto: “Piove, mondo vegetale!”).
Non ne parliamo dell’espressione “operatore del verde”. Chi sarebbe un operatore del verde? Un barelliere che porta le piante malate in sala operatoria? Anzi, è già una fortuna se non si parla di “materiale vegetale” alla stregua di malta e sabbia per il calcestruzzo.
Purtroppo quest’uso è stato avallato anche dai professori di discipline di architettura del paesaggio, che nell’utilizzarle sembrano i più contenti di tutti…tranne che i politici.
Un politico o un assessorino andrà in deliquio di fronte a queste espressioni, che sanno tanto di tecnicismo da ingegnere e di garanzia di efficienza.
Ed ecco perché alla fine della catena mi viene in mente la faccia di Angelino Alfano, perché tale volto mi sembra il risultato formale della sovrapposizione della beatitudine compunta di tutti i volti degli assessori e consiglieri comunali italiani quando parlano alle telecamere, tale che –a cercarla bene- forse la si ritroverebbe in qualche affresco michelangiolesco.
Questo tirare in ballo il verde mi manda ai matti, mi dà l’orticaria, mi fa venire la febbre fredda. Soprattutto perché in certe “aree verdi” l’unico verde è quello della vernice dei tubi delle altalene per bambini.
Inoltre le parole “spazio” e “area” sono fredde, glaciali, esattamente come vuole essere un burocratismo. Al giardino, al paesaggio urbano, ai giardinetti di periferia, viene tolta perfino l’anima lessicale. Il giardino, il paesaggio, non devono essere uno spazio, un’area, il che significherebbe solo una mera estensione superficiale, ma un luogo. Un posto dove depositare l’idea che abbiamo della natura. Ecco perché sostengo che anche una mensola con le foto di famiglia, un portafiorino di cristallo sfaccettato con dentro una rosa miniatura, un portacenere e una scatola di carte da gioco, per me sono un giardino.
Non riusciamo ad identificare quello che vogliamo indicare con un termine preciso, che identifica quella e non altre. Una situazione che –mi ha spiegato un noto enigmatista- si chiama di penuria nominis.
Non ho molta simpatia per il giardinaggio inglese, ma non posso fare a meno di paragonare la loro ricchezza linguistica in materia di giardinaggio. La lingua inglese è tanto ricca di termini differenti sui giardini e la natura quanto è povera in fatto di cucina. Se gli inglesi non fanno troppo caso alla differenza tra la crema, la panna e la panna montata, faranno invece caso alla differenza tra un boschetto naturale, uno piantato, un bosco aperto e uno più ombroso. Hanno verbi e sostantivi per ogni situazione, e se non ce li hanno li coniano velocemente con quel loro modo abile di usare le parole composte, e –ovviamente- hanno una tal quantità di nomi di colori per definire i fiori da fare andare fuori di testa un italiano.
Tanto per fare degli esempi: in italiano manca il verbo che indica la pratica del giardinaggio.
Il “De Mauro”, molto apprezzato dal mio enigmatista, porta il verbo “giardinare”, in cui significato scommetto non indovinereste mai: “Nella falconeria tenere il falco all’aperto, sulla pertica o sul blocco”.
Chiuso con “giardinare”! Tanto noi giardinieri lo usiamo felicemente e lasciamo la falconeria alle sue arti.
Manca un aggettivo qualificativo che riguardi il giardino. Sempre il “De Mauro” riporta “giardinale” (un termine che sembra ricordare i mesi napoleonici, con quel –ale in coda), su cui si spendono pochissime parole, appena due: “di giardino”. Mah.
Proviamoci: “rose giardinali e rose campestri sono in questi mesi al massimo del loro rigoglio”, “le piante giardinali in questa stagione rendono coloratissime le aiuole”, “Mi scusi, saprebbe indicarmi le più fiorite piante giardinali per l’estate?”.
C’è di peggio, ma si potrebbe anche tentare.
Noi aficionados abbiamo creato degli aggettivi che ci piacciono di più: giardinicolo e giardinesco. Il secondo lo usiamo quando vogliamo dare un tono un po’ farsesco alle nostre avventure in giardino. Ci chiediamo se e tra quanti anni possano entrare a far parte del “De Mauro”.
Questo in quanto alle lacune vere e proprie, ma anche in campo sinonimi l’italiano non raggiunge la sufficienza.
Manca, manca, manca, manca un sinonimo di giardino. E ora io mi domando se Umberti Echi vari, che possiedono fantasia e tecnica linguistica e in più hanno trovato il tempo di inventare parole come “tetratricotomia”, non potessero più proficuamente impegnarsi in settori dove le parole sono poche e sempre quelle.
Prendiamo per esempio “pianta”.
“Ho piantato una pianta”, è un frase brutta ma grammaticalmente ineccepibile. Si potrebbe dire “albero”, “arbusto” ecc. Ma mettiamo che il nostro scrittore non sappia la differenza tra un albero, un arbusto, una rosa e un tulipano.
Quindi noi giardinieri siamo costretti a “piantare piante” quando portiamo il falco a prendere il sole sul palo.
C’è chi parla di “essenze da giardino” nel senso di esseri viventi che si usano nei giardini. Un modo per dire che le piante sono “esseri” di serie B.
Fiori? Ma se la pianta in questione non fa fiori?
In più non esiste una parola che indichi l’arte di creare un giardino. In verità che io sappia non è mai esistita in nessuna lingua e in nessuna epoca storica. Per distinguere la creazione di un giardino dalla pratica hobbistica del giardinaggio, che oramai sono due attività nettamente distinte, ho pertanto coniato il termine kepopoiesi, che almeno a me sembra soddisfacente.
Il mio amico enigmatista mi ha mollato nel bel mezzo di un gelido inverno e i professoroni della lingua si applicano solo alle questioni che solleticano la loro stanca fantasia. Chissà se il giardinaggio riuscirà in futuro a smuovere le fantasie di Accademici dei Cereali? Eppure una statistica di oggi[1] dice che è una attività coltivata dal 37% degli italiani. Una buonissima fonte di lucro. E poi si sa…dietro una parola viene sempre un gadget.
Attualmente i dizionari si serrano in un dotto silenzio. Ma pare che il verde sia il colore della speranza.
[1] 10 maggio 2011-05-10
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