Vermut Story!

Da Valeriadisagio

Quando ci si deve trasferire (per studio, per lavoro, per amore o dio solo sa per cosa) in un paese straniero, le prime cose da ricercare per mettere le basi per una nuova esistenza sono sostanzialmente tre: un tetto sopra la testa, un bar di fiducia, una bevanda alcolica ignorante cui fare affidamento. Diffidate di chi vi dice di farvi degli amici, di intessere relazioni sociali, di buttarvi sul rimorchio spietato. Certo, queste cose sono importanti, ma verranno col tempo! I grandi nodi esistenziali dell’emigrante, poche storie, sono i tre sopra elencati. E, non a caso, due su tre hanno a che vedere con l’alcol.

Ero a Barcellona da un paio di giorni. Avevo affittato un letto in un ostello del Barrio Gotico, del quale mi ricordavo dai tempi di una vecchia scorribanda barcellonese post liceale. Erano passati poco più di cinque anni. Sembrava una vita intera. Il pernottare in ostello era solamente il primo baluardo per la ricerca di una casa. Era il 2008 e la crisi economica aveva iniziato a pizzicare le caviglie, di certo non a mordere duro. Il concetto di smartphone non poteva essere più lontano. Il cablaggio e il wi-fi universale erano utopie spicce. Esistevano ancora quei surrogati comunicativi chiamati schede telefoniche. Si andava all’edicola e, assieme all’ultima copia del “Periodico” (doppia versione, in castigliano e catalano), si chiedeva una scheda telefonica da dieci euro, per chiamate nazionali e internazionali. Era da poco iniziato settembre, ma l’afa barcellonese saliva dal mare, deviava nei pressi della statua di Colon, e si scaraventava (passando per il Barrio Gotico) fin sopra al Parc Guell, asfaltando di caldo la Sagrada Familia e il quartiere di Gracia. Spiccicavo a malapena qualche parola di spagnolo che cercavo di implementare con la lettura del “Periodico” e con la classica “soluzione all’italiana”, ovvero l’aggiunta di un’infinità di “s”. Anche e soprattutto su termini che non ne avevano alcun bisogno.

Ripensando a quelle giornate, le ritengo giornate eroiche. Avevo pochi soldi in tasca, meno ancora nel conto corrente. Uscivo la mattina presto al solo scopo di trovare un appartamento quanto prima, così da non sputtanare tutte le mie sostanze per un letto in una camerata di un ostello per russatori. La scheda telefonica, quindi, era la mia migliore amica. Prendevo un caffè in un internet point a pochi passi dall’ostello. Cercavo su siti specializzati le possibili offerte abitative e le segnavo sul bloc-notes comprato all’aeroporto di Girona. Riempivo un paio di pagine al giorno di numeri di telefono, contatti, indirizzi email e via discorrendo. Segnavo le uscite della metro, le vie, i numeri civici, le specifiche degli appartamenti. Più passavano i giorni, più cresceva la disperazione. Avrei accettato di tutto. Quasi di tutto. Chiamavo da una cabina vicino alla Sagrada Familia. Accanto a me gruppi di anziani giocavano a bocce o a scacchi. Io imbastivo una richiesta di affitto con il mio spagnolo maccheronico, convinto che, in fin dei conti, tra mediterranei si solidarizza al volo. Prima che sia la vita a spiegarvelo, ve lo dico io: no, non è così. Per lo meno non a Barcellona. In ogni caso riuscivo a tirare su un paio di appuntamenti al giorno, deciso a chiudere la questione “affitto” quanto prima. Così da abbandonare in fretta la sinfonia di russatori dell’ostello.

Il primo appartamento che visitai fu quello di una coppia di ragazze cinesi. Studentesse della UAB (estremamente) fuori sede. L’appartamento di per sé era molto piccolo. La stanza che mi sarebbe stata affittata era una specie di loculo con un letto scassato e un comodino composto da vecchie cassette della frutta (ai tempi non era ancora iniziata la moda delle cassette della frutta usate come mobili) recuperate con ogni probabilità al mercato della Boqueria. Il bagno, poi, aveva quel classico rivolo giallo-arancione sulla porcellana dei sanitari. Sinonimo di calcare ancestrale unito a una pulizia non proprio impeccabile. Non me ne vogliano le amiche “nature”, ma anche la ricrescita ascellare delle due fanciulle (ben superiore a quella della mia barbetta da ventiquattrenne) non riuscì a rendere il tutto sufficientemente invitante. Peccato! Per loro ero il primo della lista. Fossi stato realmente interessato alla stanza avrei potuto chiamare in ogni momento.

La seconda stanza che visitai fu quella di una coppia di fashion designer. Due ragazze sulla trentina che cercavano un ragazzo da inserire per limitare gli alterchi femminili vigenti. Volevo essere quel ragazzo? Sì lo volevo! La casa era bella e pulita, e le due fanciulle, al netto degli alterchi suggeriti, sembravano davvero carine e interessanti. Unico difetto? L’affitto importante e il fatto che avevano già visto alcune persone. In questo caso no, non ero il primo della lista. Le visite continuarono, così come il dubbio amletico se chiamare le cinesi (in caso di ricerca fallimentare) o le fashion designer (per capire se gli altri ragazzi che stavano nelle posizioni di testa avevano rifiutato l’appartamento in questione). L’afa di settembre mi si appiccicava alla pelle, e dalla Sagrada Familia scrivevo una specie di diario in cui annotavo tutto ciò che mi passava per la testa. Buttata giù una pagina di pensieri, la strappavo e ritornavo a chiamare in cerca di una casa. La chiamata definitiva la feci alle due del pomeriggio del mio terzo giorno barcellonese. L’appuntamento lo fissai per un paio di ore dopo. Mi presentai con delle infradito scassate e con una maglietta dei Clash. Non avrei potuto scegliere delle credenziali migliori.

Il proprietario dell’appartamento era un artista catalano con la passione per il naturalismo. La casa, infatti, brulicava di sue opere in cui, con i materiali più disparati, erano riprodotti insetti, uccelli, pesci e così via. Voglio comunicare la fisicità della natura attraverso i materiali del consumismo, mi spiegò. Poi passò a mostrarmi la casa. Pulita, vicina al centro, spaziosa. Ha solo tre difetti, mi disse: la tua stanza da letto non ha una ventana (e io qui già stavo canticchiando “Spanish Bombs” dei Clash: Oh, please, leave the ventana open, Federico Lorca, dead and gone), lo stabile è vecchio, quindi non c’è calefacción, ovvero riscaldamento (ma a Barcellona non fa caldo tutto l’anno, pensai), e poi di notte, quando meno te lo aspetti e sempre per la storia di cui sopra, escono fuori le cucarachas, gli scarafaggi. Apprezzando la sincerità, e disperato perché l’alternativa sarebbe stata il tugurio delle cinesi, accettai la sua proposta. Xavi (così si chiamava l’artista catalano) sarebbe stato il mio nuovo coinquilino. Ci stringemmo la mano. Traslocai in meno di mezza giornata. Ora, potevo concentrarmi sul resto: la ricerca di un bar e di una bevanda alcolica ignorante di fiducia.

Il bar arrivò di lì a poco: una bettola nel Barrio del Born in cui scolare Voll Damm su Voll Damm (andare a Barcellona e non innamorarsi della Voll Damm è pura utopia) a prezzi concorrenziali. Non la annovererei mai tra le birre da discount (per ovvie ragioni economiche), ma la Voll Damm divenne parte integrante della mia vita. La buttavo giù bottiglia da 33cl dopo bottiglia da 33cl. Fresca, maltata, insuperabile. Ci si appoggiava al bancone del bar e si guardavano le partite di calcio scolando Voll Damm, con in sottofondo i commenti dei tifosi catalani, sempre critici sugli arbitraggi sfavorevoli al Barcellona. Sembrava che tutta la città tifasse Barcellona, e che fosse impossibile che chiunque vi trascorresse un periodo non finisse contagiato dalla medesima passione. Di tanto in tanto si vedevano tifosi del Real Madrid o, ben peggio, dell’Espanyol, il secondo club della città. Xavi mi spiegò subito il perché un catalano non poteva non tifare il Barcellona. Ti pare possibile, mi domandò socraticamente, che un catalano tifi un club che si chiama “Espanyol”? Spagnolo? Tutta la sua visione geopolitica della questione catalana poteva risolversi in quelle poche parole.

Le finanze, però, non permettevano di dedicarsi a eccessi continui di Voll Damm. Bisognava trovare quanto prima il terzo punto nella lista: una bevanda alcolica ignorante di fiducia. Avevo iniziato a uscire quasi subito con dei compagni del corso di lingua catalana. Un insieme di ragazzi e ragazze che comprendeva quasi tutti i paesi europei. Belgi, olandesi, portoghesi, francesi, tedeschi, cechi. Una crogiuolo di persone catapultate a Barcellona che iniziavano a scoprire assieme le mille luci della città. Tra tutti, però, il mio compagno di sbronze preferito era Aar: un ragazzo olandese che, se fosse vissuto un paio di secoli prima, sarebbe stato un perfetto marinaio. Per la capacità di reggere l’alcol, per i consigli di vita e per il fatto di avere una fidanzata in quasi ogni porto del Mediterraneo/Atlantico. Forse anche in qualche luogo del Mar Baltico o del Mar del Nord, ora che ci penso. Di solito ci trovavamo nei pressi della Barceloneta, tra quelle viuzze strette e annerite che sembravano uscite dalle pagine di qualche romanzo di Jean-Claude Izzo. Poi ci si dirigeva verso il bagnasciuga, fermandoci sui muretti che delimitano l’irrompere della spiaggia. Per Aart le tappe dell’acclimatarsi a Barcellona non erano state troppo diverse dalle mie. Un appartamento nei pressi dell’Arc de Triomf, un bar pijo a due passi da Plaza del Sol, un Mercadona sotto casa che garantiva rifornimento costante di alcolici.

Aart si era specializzato in vino. O meglio, credeva di essersi specializzato in vino. Non escludo che dall’Olanda possano provenire (o già ci siano stati) eccellenti sommelier, tuttavia Aart non era tra questi. E non perché si approcciasse ai vini da discount con spilorceria estrema. Semplicemente aveva la rara e innata capacità di saper sempre pescare “dal mazzo” quello che in gergo tecnico si chiama “vino de merda”. Tra tutti ricordo uno dei suoi must soprannominato, per la disperazione, “el Peor”. Il peggiore. Credo che Aart si fosse infatuato di quel vino perché aveva un packaging davvero accattivante: un’etichetta gialla e rossa coi colori della Spagna e una specie di retina avvolgi tappo (non chiedetemi che utilità potesse avere, ma in Spagna tale ammennicolo va un sacco) che dava al vino quel tocco di vintage in più. Come se provenisse direttamente da una meravigliosa cantina della Rioja quando, in realtà, era stato pescato dagli scaffali del paki-shop più vicino. Oltre al danno la beffa, perché elPeor, forse unico tra tutti i vini-pacco spagnoli, aveva il “pregio” di essere stato imbottigliato col tappo di sughero. Aspetto che poneva il problema logistico del procurarsi sempre un cavatappi, nonché quello aleatorio di accettare il rischio che il vino finisse per sapere di tappo. Problema che, nel caso del Peor, era forse l’ultimo dei mali.

In ogni caso, se Aart era il fan numero uno del Peor, io ero ancora alla ricerca di un liquore economico da propinare a tutto il gruppo di amici. Dopo numerose ricerche, e assuefatto dall’acida mediocrità del vino di Aart, la scelta cadde sul vermouth. Declinato alla spagnola: vermut! Quando Sorrentino, nel delirio egotico de “La grande bellezza” fa dire alla Santa che lei mangia radici perché le radici sono importanti (anche i sampietrini sono importanti, tuttavia non li mangiamo), non poteva certo immaginare che mi avrebbe riportato alla mente le mie radici etiliche. Ovvero il periodo vermut a Barcellona il quale recuperava l’imprinting famigliare che vedeva il mio nonno materno fiero sostenitore e consumatore di vermouth bianchi. Scolati rigorosamente all’ora dell’aperitivo e corretti con gazzosa o, nei momenti di maggiore euforia, Cynar. Il nonno beveva vermouth bianco, e questo lo ricordo chiaramente. Aveva preso l’abitudine da emigrante, in Argentina, quando correggeva il vermouth con il selz e una scorza di limone. A diversi decenni di distanza, in una Barcellona completamente diversa da quella in cui il nonno aveva fatto scalo nel ’52 diretto a Buenos Aires, la passione del vermut si era manifestata anche in me. Per cause di forza maggiore, ovviamente. Perché sì, perché il pregio del vermouth è quello di costare molto poco, di essere sensibile alla “correzione” e di nascondere dietro la dicitura “aromi naturali” chissà quali piante e folli edulcoranti. Ingredienti capaci di trasformare una resaca assicurata, solitamente causata dal Peor, in un’allegra sbronza. Nemmeno troppo molesta o deleteria. Se Xavi mi aveva salvato dalle cinesi, il vermut mi aveva salvato dal Peor. Come cantava Joe Strummer: Yo te quiero infinito! Yo te quiero, oh mi corazón!

Anche il periodo a Barcellona finì. E lo fece con un’ultima, meravigliosa, cena all’italiana, innaffiata di bottiglie su bottiglie di vermut. Presi il primo aereo del mattino dopo un after lungo una trentina d’ore. Tirando le somme devo dire che, ad anni di distanza, persi completamente le tracce di Xavi, maturai una crisi d’astinenza da Voll Damm, riportai a casa un libro di Enrique Vila-Matas, rischiai una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale (con i Mossos d’Esquadra non è mai il caso di scherzare) in un bar di Sitges e smisi di bere vermut. Rimasi, però, in contatto con Aart con il quale mi incontrai diverse volte tra l’Italia e l’Olanda. In quei casi si finiva sempre a parlare dei bei vecchi tempi di Barcellona. Programmando una sorta di ritorno in grande stile, quando avessimo avuto il tempo e il denaro sufficienti.

L’occasione si presentò a cinque anni di distanza dal mio saluto notturno alla città. Aart aveva alcuni giorni liberi dal lavoro all’università, mentre io dovevo intervistare la nipote di una reduce della Guerra Civile Spagnola (una donna eroica e meravigliosa affiliata al POUM) per un progetto mai andato del tutto in porto. Fissammo la data, ovvero gli ultimi giorni di agosto. Barcellona era una sorta di serra a cielo aperto. Alloggiammo nel solito ostello del Barrio Gotico, rinomato per avere un’aria condizionata spacca-budella e fotti-polmoni. Come sopravvivemmo a quel mix di afa esterna e gelo artico interno rimane tutt’ora un mistero. Lo scopo dell’amarcord barcellonese era quello di “rifare” tutte le piccole/grandi esperienze messe in atto cinque anni prima. Non avevamo messo in conto, però, l’evidenza del tempo passato. Del cambio generazionale. Dell’esplosione della Barcellona fattasi non più città bensì brand commerciale. Orde di turisti russi e cinesi affollavano le Ramblas così come, nemmeno un decennio prima, era stato il turno degli inglesi e degli italiani. Tuttavia ciò non ci rovinò i piani. Ci tuffammo nel mare di Barcellona, vincemmo un match di beach volley contro un gruppo di scoordinatissimi tedeschi, passeggiamo per la Barceloneta brindando a bottiglie di Peor, riuscimmo a guardare una partita di calcio in un bar del Born mangiando patatas bravas e pan tumaca, rimorchiammo due turiste finlandesi e, in ultima, facemmo visita a un vecchio vermut bar.

Il bar lo trovammo quasi per caso, uscendo mezzi sbronzi da un locale vicino a Plaza del Sol. Era un bar in vecchio stile, con le damigiane di vermut a vista e un bancone costituito da una teca di vetro che serviva a esporre bottiglie di vino apparentemente vecchie di qualche decennio. Se per datare i fossili si usa il metodo del radiocarbonio, per datare quelle bottiglie sarebbe bastato passarci un dito sopra e contare gli strati di polvere. Seduti al tavolo, reduci dal saluto con le finlandesi, l’amarcord si accese all’ennesimo bicchiere di vermut. Era un amarcord dolce e sentito. Un amarcord che non aveva nulla a che vedere con il nostro incontro, bensì con il ricongiungimento con la città. Non eravamo io e Aart a parlare delle nostre vite, delle nostre delusioni, dei nostri sentimenti. Piuttosto era Barcellona che, con il suo respiro tanto docile quanto sincopato, ci raccontava di sé. Di quello che era stato. Di quello che le era accaduto. A noi toccava solamente il compito di ascoltare. Posare l’orecchio sul ventre placido della città e sentirne il respiro. Auscultarne il battito. Ogni suono, ogni impressione, ogni umore che le usciva dal petto era poi mediato da ciò che avevamo visto tanto cinque anni prima, quanto in quei giorni folli di fine agosto. I bicchieri di vermut accompagnavano questo rito purificatore. Si susseguivano l’uno sull’altro, accatastandosi all’angolo del tavolo di legno grezzo. Diventando come occhi di animali sconosciuti che ci guardavano da una dimensione completamente diversa. Impossibilitati a comprendere ciò che ci era accaduto. Ciò che ci stava accadendo. Quando il gestore del locale ci fece capire che s’era fatta una certa e che era meglio sloggiare, prendemmo l’ultimo bicchiere di vermut, lo scolammo al salto e uscimmo in strada diretti all’ostello. La notte di Barcellona era afosa e tenera come la ricordavamo. Come le notti di cinque anni fa, quando si rincasava ubriachi e felici ascoltando il fruscio del mare salir su dalla Barceloneta, incrociare le Ramblas e poi disperdersi nel Barrio Gotico. La mattina seguente (ovvero la mattina della mia partenza) mi svegliai presto e salutai Aart, abbracciandolo. Lui non disse quasi nulla, solo mi passò un bicchiere di vetro che aveva preso nel vermut bar della sera precedente. Prendilo, disse, come ricordo di questa rimpatriata! Allora uscii dall’ostello e camminai con un bicchiere di vetro in tasca per una Barcellona al risveglio. Frenetica e frizzante. Presi un caffè in un bar sulla Laietana, mi fermai ad acquistare una copia del “Periodico” e mi diressi a prendere l’autobus per l’aeroporto. Salutando la città avrei voluto piangere lacrime di vermut.

Alcuni giorni fa, scorato dall’umido inverno pordenonese, mi sono imbattuto nel vermouth “Gianni”. Il vermouth di fiducia del Penny Market. Memore del mio passato barcellonese ne ho preso una bottiglia, al proletarieggiante prezzo di 2.59 euro per un litro di vermouth. L’etichetta dice che “Gianni” è un vermouth di Torino, prodotto secondo una ricetta originale dal 1820. Dubito che anche solo una di queste informazioni sia vera. Tuttavia mi sono accaparrato la bottiglia e, come una madeleine proustiana, appena rincasato mi sono versato un bel bicchiere abbondante di vermouth. Utilizzando il bicchiere di vetro regalatomi da Aart. Il sapore era il sapore che ricordavo. Il sapore che ha qualsiasi vermouth sulla faccia della terra. Quel misto di dolcezza e mistero dato dalla dicitura (presente nell’elenco degli ingredienti): infusione di piante aromatiche. Chissà cosa diavolo si cela in quell’infusione di piante aromatiche? Quali piante? Quali aromi? Quale mistero? Me ne sono versato un secondo bicchiere, più abbondante del primo. L’ho sorseggiato con calma, cercando di assaporare ogni minima inerenza del gusto dolciastro del vermouth. Lisciavo la lingua e le papille gustative, ricercando nel vino quei ricordi che portavo dentro di me. I ricordi degli aperitivi di mio nonno. I ricordi di Barcellona. I ricordi delle serate passate a guardare il mare dai muriccioli della Barceloneta. Era come se fossero tutti dentro quel gusto complesso ma, allo stesso tempo, semplice che una banale etichetta aveva fatto riferire a un’infusione di piante aromatiche. Allora, al terzo bicchiere, mi sembrò come di capire ogni cosa. Come se il senso stesso di quell’azione fosse tanto inutile quanto superfluo. Ciò che assaporavo era ciò che avevo dentro. Ciò che avrei portato con me. In qualunque luogo fossi andato. I ricordi non necessitavano di chiarezza, bensì dovevano proliferare nella confusione. Nella suggestione indistinta. Chiedermi cosa diavolo ci fosse dentro non aveva alcun senso. Cauterizzare ferite, sezionare istanti, dare nomi o etichette a eventi era un’operazione che non dovevo fare. Che non avrei fatto.

Buttai giù l’ultimo bicchiere di vermouth. Mi adagiai alla sedia. Sotto di me, come un respiro, qualcosa di vivo brulicava.

Come il mare della Barceloneta.

Come il ritmo sincopato della città.

Come i ricordi vividi e fumosi di quella stagione: infusione di istanti magici.

Dolci e misteriosi come il sapore di quel vermouth da poco. Vermouth da discount.

Umido e sincero sulle mie labbra.

Spanish bombs rock the province

I’m hearin’ music from another time…


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