Per fare sì che tutto rimanga semplice il più a lungo possibile sto accuratamente evitando di pensarci, agendo più o meno come un robot che compie efficientemente il suo dovere senza che il minimo ripensamento possa sfiorarlo. In qualche zona del mio cervello è presente, sì, la consapevolezza che tra cinque mesi scarsi sarò dall'altra parte del mondo, soprattutto perché la gente intorno a me, comprensibilmente, mi fa spesso domande a riguardo. Io però tendo a rimuovere, rimandare il momento terrificante in cui dovrò rendermene conto, e se focalizzo il giorno della partenza mi prende un groppo alla gola e fatico a respirare.
Se avessi vent'anni e fossi una otaku che per tutta la vita ha sognato di passeggiare per Shibuya con un'uniforme da studentessa, traviata da anni di stereotipi da shoujo manga, non starei in me e giurerei di voler vivere per sempre a Tokyo, perché i giapponesi sono i più fighi del mondo e sicuramente ne sposerò uno.
La mia decisione invece è stata inevitabile e anche penosa. Lasciare la vita che conosco da sempre in stand-by per un anno non mi entusiasma e soprattutto mi spaventa da morire, per quanto cerchi di non darlo a vedere, l'idea che per dodici mesi sarò lontana da Paolo e dai mille modi in cui riesce a farmi stare bene. Lui mi supporta sempre, è quasi commovente, e la sua convinzione che tra noi andrà tutto bene nonostante le difficoltà è pressoché assoluta, tuttavia non riesco a non cogliere, tra parole e sguardi di conoscenti più o meno vicini, un'infinità di dubbi sul nostro futuro.
Io, come ho detto, non voglio pensarci. Ho fatto una scelta, consapevolmente, perché non sono ancora disposta a rinunciare alle mie ambizioni e non voglio avere rimpianti. Non sono più il tipo di persona che cerca rifugio in qualcun altro e lo mette al centro del suo mondo, accantonando sogni e progetti. Sono grande adesso.
E poi, due teste dure come noi, se decidono che una cosa deve andare per il suo verso ce la fanno andare a ogni costo.