CENTRO STUDI SUL FEDERALISMO
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Verso le elezioni del 25 maggio: costruire insieme il futuro europeo /2
Roberto Palea e Flavio Brugnoli*
Le ragioni dell’euro
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La storia dell’euro è una storia di successo. È necessario ripeterlo mentre si moltiplicano gli attacchi a uno dei pilastri fondamentali del progetto europeo. Oggi occorrono volontà e capacità di completare la costruzione con la creazione di un governo economico dell’Eurozona, dotato dei mezzi per realizzare quella “economia sociale di mercato, fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale” indicata dal Trattato sull’Unione europea.
Spesso si cade in due errori di prospettiva: pensare che i sostenitori di un’Europa federale siano difensori acritici dell’Europa esistente, quando spesso ne sono i critici più incalzanti; attribuire all’Europa e all’euro problemi e limiti che sono propri del quadro economico, politico e sociale dell’Italia, non di rado accumulatisi in decenni. Ma facciamo qualche passo indietro, per meglio guardare al presente e al futuro. Dal 1971, a seguito della dichiarazione americana di non convertibilità in oro del dollaro, la flessibilità dei cambi e le fluttuazioni delle monete nazionali costituirono un ostacolo allo sviluppo degli scambi intracomunitari. Dopo il rilancio dell’integrazione europea con l’obiettivo del “mercato unico entro il 1992”, il passo successivo fu quello della moneta unica. Insieme hanno costituito per anni un fattore di stabilità e di benessere per gli europei. Due errori furono compiuti allora in Europa, anzitutto per la miopia dei governi nazionali, di cui paghiamo ancora le conseguenze: aver lasciato cadere il Piano Delors, nel 1993, che avrebbe irrobustito la “gamba economica” dell’Unione monetaria, e, un decennio dopo, aver affossato la Costituzione europea con i voti referendari in Francia e Olanda nel 2005, che avrebbe consolidato l’architettura istituzionale dell’Unione allargata ai Paesi dell’Europa centro-orientale. La nuova moneta europea ha contenuto il tasso medio di inflazione annuo attorno al 2%. In Italia, prima dell’unione monetaria, le periodiche svalutazioni del cambio avevano contribuito a portare l’inflazione oltre il 20% annuo, senza migliorare durevolmente la competitività del Paese. Deficit di bilancio elevati e crescenti avevano solo fatto aumentare a dismisura il debito pubblico, di cui tuttora sopportiamo gli oneri gravosi, senza promuovere una crescita stabile. I tassi d’interesse erano arrivati a livelli proibitivi per i mutui delle famiglie e il credito delle imprese. L’Italia, come altri Paesi dell’Europa meridionale, non ha saputo approfittare della imponente riduzione degli oneri sul debito pubblico dopo l’introduzione dell’euro. Era miope la convinzione diffusa che l’ingresso nell’euro costituisse un punto di arrivo. Era piuttosto una tappa, un punto di partenza, l’inizio di un percorso di modernizzazione del Paese. Un percorso imposto sia dal processo di globalizzazione sia dal grado di irreversibile integrazione dell’economia europea. Quando nel 2007 la più grave crisi del dopoguerra si propagò dagli Stati Uniti all’Europa, e si estese poi dalla finanza all’economia, l’Italia si trovò fortemente indebitata e senza avere affrontato i nodi critici della sua arretratezza, sintetizzati dalla bassa produttività dei fattori, e realizzato riforme davvero strutturali (incremento degli investimenti infrastrutturali e in R&S, lotta alla corruzione, riduzione dell’evasione fiscale, riforma della giustizia penale e civile, pagamento degli arretrati della pubblica amministrazione, riduzione dei costi della politica, ecc.). I Paesi con l’economia più fragile subirono gli effetti disastrosi della crisi di sfiducia dei mercati finanziari nei loro confronti, esasperata dagli attacchi della speculazione internazionale. D’altra parte, l’Unione europea non possedeva tutti gli strumenti atti a reggere l’urto della crisi, in mancanza di un governo europeo dell’economia e di un adeguato bilancio comunitario, in grado di realizzare con efficacia e tempestività le necessarie misure anti-cicliche, anche attivando la solidarietà tra i Paesi membri. Una calma relativa venne conseguita solo quanto gli Stati dell’Eurozona e la Bce ersero solidi argini contro la speculazione, attraverso il varo del Fiscal Compact, la costituzione del Meccanismo Europeo di Stabilità, gli interventi stabilizzatori della banca centrale, l’avvio dell’Unione bancaria. Molto è stato fatto, in tempi inimmaginabili in passato, anche se molto si poteva fare in modo più lungimirante e molto resta da fare. Alle debolezze dell’Unione monetaria si può porre riparo soltanto avanzando rapidamente – nella nuova legislatura che si aprirà al Parlamento europeo e fin dal semestre di Presidenza italiana – verso una politica economica e fiscale federale, dotando l’Eurozona di un governo e di un ministro del Tesoro con piena responsabilità e capacità di attivare nuove risorse finanziarie (TTF e carbon tax europea) per fronteggiare nuove, possibili crisi, e dare vita a un Piano europeo di sviluppo sostenibile, che rilanci lo sviluppo e l’occupazione. Come dovrebbe essere noto, i Trattati istitutivi dell’Ue non prevedono l’ipotesi dell’uscita dall’euro: per realizzarla sarebbe necessario abbandonare l’Unione europea rinunciando a quelle premesse e a quelle conquiste che hanno garantito il più lungo periodo di pace e di prosperità nella storia europea. Chi propone l’uscita dall’euro vuole, ne sia consapevole o meno, tornare a quel modo di governare l’economia (basato su svalutazione, inflazione, debito pubblico) che la nostra storia ha condannato come fallimentare. Il solo annuncio di un simile piano, con la necessità di convenire il valore della “nuova lira”, comporterebbe la corsa agli sportelli bancari per ritirare i depositi in euro o per trasferirli in altre banche della zona euro, e il crollo del mercato dei titoli pubblici. La ipotetica reintroduzione della lira significherebbe imporre ai risparmiatori la conversione dei loro risparmi nella nuova moneta, destinata a perdere valore nei confronti dell’euro. Parallelamente, la svalutazione della lira determinerebbe un aumento del valore dei debiti verso l’estero degli italiani, ponendo imprese e famiglie di fronte al rischio di insolvenze con effetti a catena. Ne conseguirebbe una riduzione del valore dei salari e degli stipendi nonché del PIL, stimata da autorevoli istituti di ricerca tra il 20% e il 30%. Il passaggio dall’euro alla “nuova lira”, quand’anche fosse fattibile, non risolverebbe alcuno dei problemi strutturali che, da anni, affliggono l’economia italiana. L’uscita dall’euro, comporterebbe invece un’irreparabile perdita di fiducia da parte dei mercati nel sistema Paese, così che l’Italia si troverebbe internazionalmente emarginata e isolata. Anziché distruggere le realizzazioni entro cui l’Italia ha svolto sempre un ruolo d’avanguardia, dobbiamo procedere con maggiore lena e coraggio a completare il processo di unificazione europea in forma federale. Ai partiti che si presentano alle elezioni europee del 25 maggio dobbiamo chiedere con quali scelte e quali alleanze intendano realizzare questo obiettivo. Scarica Pdf * rispettivamente Presidente e Direttore del Centro Studi sul Federalismo