“Verso Nord”, di Pia de Jong

Da Fabry2010

Estratto da

Pia de Jong
VERSO NORD

Traduzione di Claudia Di Palermo

Titolo originale: Lange dagen
Traduzione dal nederlandese di Claudia Di Palermo
I edizione giugno 2010
© 2010 Elliot Edizioni s.r.l.

Tutti i diritti riservati

1

L’inverno in cui compii quattordici anni la nostra sala giochi si trasformò lentamente in una cabina di comando. Come una gazza in cerca di oggetti luccicanti per il suo nido, così mio padre si presentava ogni volta con delle nuove cose. La prima a richiamare la mia attenzione fu uno strumento d’ottone, una bussola appartenuta ancora a mio nonno. Mio padre si era deciso ad aprire il baule di cuoio che il giorno dopo il funerale aveva riposto in soffitta e da allora non aveva mai più toccato. Qualche ora più tardi lo vidi strofinare con cura lo strumento, che entrava esattamente nel palmo della sua mano, con un panno morbido. Mio padre diceva che bisognava curare bene gli oggetti, per farli durare più a lungo. Dietro il vetro c’era un ago arrugginito che vibrava appena toccavi la bussola.
«È uno strumento estremamente sensibile» avrebbe detto mio padre. «Indica la strada ovunque tu sia». Ma questo fu in seguito, nell’estate spietata in cui andammo giusto nell’unico posto al mondo in cui questo non valeva.
La stanza si riempiva sempre più. I miei giocattoli erano spariti, tutti buttati via o regalati. Gli scaffali dell’armadio erano vuoti e spolverati; su uno di essi un giorno trovai una boccetta marrone, OLIO PER FUCILI diceva l’etichetta. Poi vidi bombolette spray per impermeabilizzare i tessuti e lattine di unguenti scuri per ingrassare la pelle. Tazze di plastica accanto a borracce di alluminio, un coltellino svizzero vicino a scatole di fiammiferi antivento. La camera si riempì di sacchi a pelo di piume, berretti di lana e biancheria termica. In un angolo fu piazzato un fornellino azzurro con due pentolini, e accanto i manici.
Che cosa stava succedendo? Non poteva che trattarsi dei minuziosi preparativi di una spedizione pericolosa. Ma quale poteva mai essere la destinazione? Mio padre stava tramando qualcosa. Se non era impegnato a racimolare oggetti, si fermava per interi minuti a fissare il vuoto. Non sentiva nemmeno quando mia madre lo chiamava per andare a tavola. I suoi pensieri erano altrove, in un luogo di cui io non avevo idea. Né volevo averci nulla a che fare, a me bastava la mia vita.
C’era stato un tempo in cui mio padre riusciva a farmi ridere con poche parole, era una calamita e io mi facevo catturare volentieri dalla sua forza magnetica. Facevamo clic, lui e io, come i cagnolini bianchi e neri con cui spesso giocava spensierato Steven, mio fratello maggiore di due anni.
«Lui è mio padre» dissi orgogliosa alla maestra il giorno in cui mi accompagnò a scuola per la prima volta. All’epoca mio padre era magro, con una bella capigliatura folta. Le sue mani erano le più belle che avessi mai visto. Dagli occhi di lei capii che lo trovava speciale, e arrossì quando lui le tese la mano.
In quell’epoca i giorni s’infilavano uno dopo l’altro come le perline al filo che portavo al collo. Erano fatte di semi di melone seccati, che bucavo con un ago preso dal cestino del cucito di mia madre.
Ricordo esattamente quand’era iniziato il cambiamento, poco prima del suo quarantacinquesimo compleanno. Mi disse che era giunto a metà della sua vita. Il motivo non mi era chiaro, forse perché suo padre aveva vissuto fino a novant’anni.
Per l’intero compleanno aveva tenuto il broncio, non aveva degnato di uno sguardo nemmeno la neve che era scesa dal cielo dalla mattina alla sera. Quando aveva scartato il mio regalo, una boccetta di dopobarba, si era limitato a scuotere la testa. Non l’aveva neanche annusato. Io lo avevo evitato il più possibile. Trovava sciocco tutto quello che facevo, ogni cosa era fonte d’irritazione.
Più o meno nello stesso periodo diventò calvo. I capelli restavano attaccati allo schienale della sua poltrona e al bavero della sua giacca. Cadevano sul cuscino, nel lavandino e sulla tovaglia. In quelle settimane mia madre puliva più spesso del solito, gli spazzolava i vestiti prima che lui andasse al lavoro e taceva su ciò che vedeva. Quando era in casa, mio padre faceva avanti e indietro fra il bagno e l’ingresso, gli unici due posti dove c’era uno specchio. Su consiglio dell’erboristeria comprò una lozione per capelli alla betulla, che si cospargeva continuamente sul cuoio capelluto. Quell’odore nauseabondo non si sarebbe più tolto dalla sua poltrona. Dopo sei settimane esatte era finita. Di colpo notai le sue sopracciglia, che erano grigie e irsute, come se con la loro presenza accentuata volessero compensare la perdita dei capelli. Mio padre era inesorabilmente cambiato. Solo le fotografie tradivano il suo aspetto di un tempo, ma di foto ne facevamo raramente.
Il dado della sua vita era tratto, aveva seguito quelle che secondo lui erano le tappe obbligatorie per un uomo: si era trovato un lavoro, aveva preso moglie e messo su famiglia. Aveva plasmato me e Steven a sua immagine e somiglianza. Ma con suo sgomento la società gli aveva strappato di mano il ruolo di educatore. Dava in escandescenze per le feste scolastiche in cui si beveva birra e si fumava hascisc. L’intrattenimento triviale della tivù lo irritava al punto che un giorno mise l’apparecchio in strada tra i rifiuti ingombranti. La sua carriera aveva raggiunto l’apice, non poteva crescere più di così; da quel momento la situazione poteva solo precipitare.
Questo pensiero lo consumava. Quando leggeva il giornale, batteva ritmicamente il tacco della scarpa sul pavimento. Un ticchettio irritante che mi faceva impazzire. Non riuscivo nemmeno a sfogliare in pace una rivista, figuriamoci leggere un libro. Si spiava intorno di continuo, come fosse assediato da elementi nascosti che l’avevano preso di mira.
«Cercano di fregarti dappertutto» borbottò una volta.
Era al tavolo del soggiorno, chino su una pila di carte. Una busta marrone era caduta a terra, poco lontano dalla sua scarpa. Teneva gli occhiali da lettura appesi al collo con un cordoncino.
«Ognuno pensa solo ai propri interessi, e la gente retta e onesta come me ne paga lo scotto. Dove andremo a finire?». I pasti, consumati sempre tutti insieme e definiti espressamente da mia madre come il momento tranquillo della giornata, assunsero man mano un’altra piega. Mio padre parlava tutto infervorato dei suoi colleghi. Di Jansen dell’amministrazione, che prendeva regolarmente le decisioni sbagliate, e Houtsma del reparto vendite, che era un tipo falso. Ma soprattutto del suo capo diretto, Kees ten Bruggenkate, un uomo gobbo che a suo dire gli stava deliberatamente distruggendo la carriera.
«Non sapete anche oggi cosa mi ha combinato…» attaccava nell’istante in cui mia madre aveva appena servito il cibo nei piatti. Poi seguiva immancabilmente il racconto della penosa ingiustizia di cui era stato vittima. In silenzio mia madre, Steven e io mandavamo giù le patate col sugo della carne – prima infilzate, poi schiacciate – mentre mio padre sempre più velocemente, inciampando sulle parole, riferiva del suo lavoro, un universo che conoscevo solo dai suoi racconti. Il mondo esterno era una giungla in cui bisognava sopravvivere, questo era ciò che capivo. Non vigeva la legge del più forte, no, valevano altre regole. Era tutta questione di amicizie, di conoscere le persone giuste al posto giusto, di essere simpatico a tutti. La sua pelle del volto e del collo assumeva un colorito sempre più rossastro e innaturale. In momenti del genere mi faceva paura.
Steven mangiava sempre con aria impassibile e, quando aveva finito, indietreggiava in silenzio con la sedia e andava in camera sua. Un’ora dopo di solito mio padre metteva la giacca e si chiudeva alle spalle la porta di casa.
Mia madre, una donna taciturna che un tempo veniva definita bella ma che ora non dava più alcuna importanza al suo aspetto, trattava mio padre come un musicista alle prese con uno strumento che bastava un niente perché si scordasse. Sapeva esattamente quando tenere la bocca chiusa e quando era il caso di parlare del più e del meno. A lei non piacevano le note stonate, era un’amante dell’armonia all’interno della sua famiglia.
Mio padre restava sempre più spesso a casa dal lavoro. Cominciò a soffrire di emicrania, di fitte inspiegabili all’orecchio destro e di mal di pancia che lo condannavano a ripetute visite al gabinetto.
«Avvelenano il nostro cibo» disse un giorno, dopo aver allontanato il piatto con la carne e le verdure, poggiando le mani sullo stomaco. «I polli, ad esempio, li rimpinzano di ormoni, così crescono più in fretta e li possono ammazzare prima. È una cosa del tutto innaturale, no? Solo delle menti malate possono partorire idee del genere».
Da quel momento in casa nostra non entrò un solo grammo di carne di pollo. I pasti divennero per lui l’occasione di raccontare tutte le sofisticazioni di cui aveva letto. Nelle patatine fritte già pronte non c’era praticamente traccia di patate, erano fatte di fecola raffinata pressata in uno stampo. L’olio per friggere veniva sostituito una sola volta al trimestre ed era pieno di particelle di fuliggine che provocavano il cancro all’intestino. La polizia avrebbe reso un servizio davvero utile se avesse raso al suolo tutte le friggitorie. Ci costrinse a promettere che non avremmo mai più mangiato patatine fritte. E sapevamo che l’inquinamento atmosferico danneggiava irrevocabilmente il sistema nervoso dei bambini? E poi che razza di adulti sarebbero diventati i bambini che ora crescevano in simili casermoni, tutti ammassati uno sull’altro come ratti?
La sera, a letto, le sue parole mi ronzavano nella testa. Mi domandavo perché solo mio padre si preoccupasse di cose del genere. Distrattamente raschiavo con le dita la parete a rilievo. Andavo in cerca di una venatura ancora intatta – poco sotto il bordo del letto, in modo che non si notasse. Come ne trovavo una, iniziavo a grattarla. L’intonaco era più duro delle mie unghie e non riuscivo mai a farlo sgretolare. Le unghie smussate si ricoprivano di uno strato di polvere bianca e se le mettevo in bocca sentivo il sapore smorto della calce. Nei miei sogni non facevo che correre per una serie di uffici deserti, inciampando su cumuli di immondizie, in cerca dell’uscita, che non riuscivo a trovare.



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