Verticalità diagonale: Sergio Toppi e il suo mondo senza tempo

Creato il 31 luglio 2013 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco
Speciale: Sergio Toppi: pennellate d'artista

Ritratto di Sergio Toppi, a opera di Caktus&Maria (caktusemaria.blogspot.it)

Mi è capitato da poco di dover rileggere I sette messaggeri, racconto di Dino Buzzati edito nel 1968 e incluso nella raccolta La boutique del mistero. Si narra di un principe che vuole esplorare l’immensità del regno di suo padre: partito ancora giovane insieme a sette messaggeri, che si alterneranno per recare notizie a casa, si accorgerà presto che quel mondo non ha confini e che la distanza percorsa negli anni di cammino è ormai troppa per poter tornare indietro e rivedere vivi i suoi cari. La logica impone che l’ultimo messaggero inviato non consegnerà mai l’ambasciata.

Come in molte delle storie di Buzzati – si pensi al romanzo Il deserto dei tartari lo spazio, il tempo e l’ambiente che contengono le vicende sono totalmente sfocati, universali e quindi inesistenti. Le montagne e le pianure che oltrepassa il principe sono qualunque montagna e tutte le pianure, senza limite né confine; così succede anche per la storicizzazione degli episodi.

È stata proprio questa lettura e il coinvolgimento con l’inquietudine suscitata dal testo a proiettarmi per analogia nel mondo sospeso di Sergio Toppi, un mondo in cui tutto racchiude un significato preciso e tutto diviene simbolo.

Nato nel 1932 a Milano, “schiva” un’ipotetica carriera da medico ed entra subito nel mondo dell’illustrazione, lavorando per la UTET a partire dagli anni ‘50 per poi collaborare con gli studi d’animazione Pagot  in diverse campagne pubblicitarie. A partire dagli anni ‘60 inizia la sua carriera di fumettista disegnando per il Corriere dei Piccoli le storie del Mago Zurlì
È da quel momento che inizia l’inarrestabile ascesa di Toppi nell’universo del fumetto con collaborazioni sempre più prestigiose: spulciando nella sua bibliografia salta all’occhio Sgt. Kirk, Ken Parker, Alter Alter, Il Mago, Corto Maltese, L’Eternauta, Linus e Comic Art. Dal 1976 inizia a lavorare per il settimanale cattolico Il Giornalino e in seguito realizzerà episodi di Julia, Nick Raider e Martin Mystère per la Sergio Bonelli Editore.

La poliedricità di Toppi non si fermerà solo al fumetto, ma la sua penna darà vita a tavole sfruttate dal Messaggero dei Ragazzi, dal Corriere della Serae dalle edizioni Einaudi.

Nel 2009 la sua fama viene coronata definitivamente: il Comune di Lucca e il ministero dei Beni Culturali lo insigne del “Comics Day Anno Zero”, primo fumettista a ricevere un premio dalla Repubblica Italiana.

Proprio per via di questa importanza e della diffusione capillare della sua arte, sono certo che almeno un suo disegno giaccia sepolto nella memoria di qualunque italiano. È proprio questo che rende importante il lavoro di questo disegnatore: essere stato la mano in grado di unire qualunque sfera sociale con storie adatte a tutti, ma leggibili con gradi di interpretazione molto diversi.

La riconoscibilità del tratto, che senza esagerazioni può essere definito klimtiano o idealmente vicino al gusto di Egon Schiele, è immediata, come lo è la magia che emana dal montaggio delle immagini nel riquadro della pagina.

Quando si leggono le storie di Toppi – e ritorno sull’analogia con Buzzati – si entra in un mondo senza tempo e senza evoluzione geologica, in cui la natura è principalmente roccia.
Si provi a sfogliare Il collezionista (1984) o Sharaz-de (1977): tutto è pietrificato, immobile e immutabile. I volti dei suoi personaggi condensano nelle loro espressioni il fatto che nulla potrebbe essere differente da come il destino, cioè la storia concepita dall’autore, vero e unico dio del loro mondo, ha stabilito.
Fu lui stesso a sostenere durante alcune sue interviste di essersi ispirato ai paesaggi pasoliniani dell’Edipo re: Pasolini ‘inventò’ per quel film un oriente “occidentalizzato” del tutto immaginario, ricreato in luoghi suggestivi quali il deserto attorno a Ouarzazate (Marocco) o l’italianissima scalinata di San Petronio in Piazza Maggiore a Bologna.
Ne nacque da quel momento un mito nuovo, personalizzato, capace di dialogare anche visivamente con lo spettatore. Il concetto base che si evince leggendo entrambi gli artisti è che lo spazio è indubbiamente necessario al racconto, ma il racconto non esige uno spazio in particolare per essere credibile: ciò che circonda la storia diventa storia a sua volta se dosato con la giusta regia.

È un espressionismo rinnovato quello di Toppi, decisamente fuori tempo rispetto alla corrente di inizio novecento. Se scrivesse musica, più che all’atonalismo della Scuola di Vienna, sarebbe forse prossimo all’inquietante atmosfera elettronica di Murcof (Remembranza in particolare) o alle stratificazioni sonore di Olga Neuwirth (si ascolti fra gli altri Vampyreotheone leggendo L’uomo del Messico).

Tutto è psicologico e rimanda all’inconscio degli attori in campo: la spigolosità discontinua delle linee e dei tratteggi, lo sfondamento delle barriere e quindi dei limiti imposti dai tradizionali riquadri, gli innesti e le compenetrazioni visive, gli animali che di volta in volta fanno capolino nelle vignette e strizzano l’occhio alle fiere allegoriche di Dante.
La distorsione nei confronti della tradizione si completa con una significativa inversione di tendenza: il suo è un fumetto in cui i vuoti e i silenzi sono fondamentali. Ecco che il bianco diventa più preponderante del nero e la potenza dell’immagine esplode proprio grazie alla mancanza di elementi.

Da quanto detto è facile capire perché i livelli di interpretazione debbano essere molteplici quando ci si accosta alla sua produzione: non è sufficiente una lettura superficiale di queste opere per capirne le giuste (e mai univoche) prospettive.

Chi potrà disegnare un albero senza diventare un albero!” mi pare sostenesse Nietzsche: Sergio Toppi è stato un tempo Sharaz-de ma le sue storie allieteranno per sempre il gran re Shahriyar.
Almeno fino a che l’alba sarà lontana e con lei la morte che incombe.

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