Oddio adesso scoppia la rivoluzione e io non ho niente da mettermi, il bianco della camicia di Delacroix, in autunno, ancorchè caldo, e impallidita l’abbronzatura, sbatte, sembra di sentir dire a qualcuno di quelli che non si sa se desiderino o temano che arrivi anche in Italia il vento insurrezionale, come quegli attempati professionisti che vogliono sentirsi giovani cavalcando una moto, col chiodo e gli stivaletti grintosi.
Non so se arriverà quel vento anche in Italia. Mi interrogo come tanti e da molto sulla inspiegabile indole all’accidia, alla soggezione mal mostosa ma tenace, all’indifferente o tollerante sopportazione di soprusi, sottrazione di diritti, perdita di garanzie che dimostriamo, una penombra dolente illuminata da luci episodiche, isolate, poco sostenute dall’opinione pubblica e trascurate anche dalle tv del dolore, che si accendono solo in occasione di affronti particolarmente oltraggiosi.
Si è davvero sconcertante la penitenziale rassegnazione di un Paese dove le risorse comuni e la legalità sono svendute, la democrazia irrisa, l’iniquità delle disuguaglianze alimentata come un valore competitivo di mercato. Sconvolge chi è un po’ più sveglio, per varie coincidenze e non per privilegio, chè anzi quelli hanno un poderoso potere letargico, il perdurare della spettacolare sottovalutazione del male che ci fanno e del male che facciamo a noi stessi, salvo qualche sussulto quando il fango tracima. Quando cioè il ceto dirigente riconferma l’istinto alla malversazione, alla corruzione, alla pura e semplice conservazione cinica delle proprie rendite di posizione miserabili e lo apprendiamo malgrado l’operoso attivismo dei media che usa il frastuono del nulla per coprire l’orrore del tutto, per stordirci di scetticismo e di rassegnazione.
E’ probabile abbiano ragione quelli, a cominciare da Bobbio, che hanno indicato tra le patologie della nostra autobiografia, quell’equazione tragica tra servi contenti e padroni gabbati. Perché la rassegnazione denuncerebbe un alto numero di individui che forse non prosperano ma sono sopravvissuti grazie alla diffusione di standard disuguali ma utili di impunità, di condoni, di licenze, premi nazionali per eccezionali performance dell’arte di arrangiarsi. Diversi per quantità e volume ma non per qualità da evasori e esportatori di quattrini, cementificatori che feriscono borghi e contrade, inquinatori dell’aria e della morale, appaltatori di smaltimenti tossici, “protettori” civili e così via, fino a assessori, presidenti di regione, industriali che investono i risparmi sulla sicurezza in derivati e fondi. Forse hanno ragione quei disincantati osservatori, se in tanti in questa “terra di infanti, affamati, corrotti”, hanno per anni votato, sia pure in un contesto di porcate e porcelli, Berlusconi o Bossi, Polverini o Fiorito, ma anche altri esemplari meno maleducati, meno estremi, meno vistosi, per via di un grottesco codice genetico, di un maligno determinismo per essere stati terreno di conquista e di rapina, si servitù e decadenza civile, di subalternità morale, spirituale e politica sotto il tallone di signori e preti.
Forse sarà questa la spiegazione di tanta rassegnata pazienza, che non è più una virtù. O forse dobbiamo indirizzare altrimenti la pazienza, nell’attesa di un risveglio inevitabile che faccia uscire allo scoperto quella politica “sotterranea”, mossa dalla sfiducia che circola nell’Occidente verso i governi e il ceto dirigente, espressione del malcontento per la crisi economica e per le politiche di austerità imposte dai poteri europei, ma forse anche di un rinnovato bisogno di “rivelazione” politica che va al di là delle normali forme di partecipazione democratica.
Ecco io non so quanto ci sia a Piazza Syntagma o a Madrid o in Occupy Wall Street di critica della forma partito, delle sue logiche verticiste, della delega nei confronti di élite politiche professionalizzate. Quanto vi sia di agnizione che il purgatorio neo-liberale degli ultimi trenta anni sta volgendo al termine, che l’ideologia predominante del capitalismo mostri segni di collasso. Se queste donne e questi uomini partecipi di un senso di rabbia, disgusto, della sensazione più generale che il troppo è troppo, stia anche dicendo basta collettivamente alla dittatura del denaro, se vuol rompere il patto mortale con il mercato e l’oro e sia alla ricerca di un nuovo mondo umano dove “se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto con il mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia”.
Sarebbe bello fosse così ma comunque di fronte a una crisi sempre più profonda e devastante, queste proteste repressa ma non zittite dal configurarsi di stati di polizia emergenti in tutto il mondo, dimostrano un potenziale di resistenza sorprendente che sanno spezzare il dominio delle astratte relazioni sociali imposte dal capitale, sostituendole con rapporti reali, corporali e umani che anticipano e disegnano istintivamente i sentimenti dell’emancipazione umana.
E allora deve succedere anche qui che in molti si chiedano come Gobetti “ma cosa ho mai io a che fare con gli schiavi”, che in molti alzino la testa, tanto per far sapere almeno a se stessi “che c’è almeno uno che non vuole essere complice”.
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