Rosario Livatino era un giudice che credeva nell'indipendenza della magistratura, che riteneva opportuno che i colleghi che si candidavano in politica dovessero togliersi la toga definitivamente e che temeva la responsabilità civile dei magistrati perché avrebbe costituito una minacciato l'azione penale e spinto all'inazione.
La sua etica:
“è da rigettare l'affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindo, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole. Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile”.
Fu ucciso da un commando mafioso il 21 settembre 1990: stava andando ad inseguire i piccioli dei mafiosi, soldi, case, beni. Sulla sua agenda di lavoro fu trovata la scritta “Sub tutela dei”.
Girolamo Minervini prese il posto, come direttore degli istituti penitenziari, che prima era stato di Riccardo Palma e GirolamoTartaglione. Entrambi uccisi dalle Br nel 1978.
Sapeva che rischiava di essere ucciso anche lui, ma rifiutò la scorta, per non mettere in pericolo altri ragazzi.
Al figlio disse una frase che andrebbe scolpita in tutti i luoghi istituzionali “In guerra un generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore”.
Come Mario Amato, i suoi killer lo aspettarono alla fermata dell'autobus il 18 marzo 1980.
Il presidente della Repubblica Pertini al funerale scoppiò “Morti, morti, morti. Cos'è diventata l'Italia?”