VIAGGI / Negli Usa, tra country e bluegrass

Da Godblesscountry @massimoannibale

Ricevo dal mio amico Roberto Campovecchi, che molti di voi ricorderanno come l’organizzatore per diversi anni del Correggio Country Festival, il resoconto del viaggio che ha fatto alla fine dello scorso anno con  la moglie ed il figlioletto negli States tra Georgia, Tennessee e Alabama. Offre senz’altro spunti di riflessione interessanti che potrete anche non condividere ma che certamente sono la testimonianza di un vero estimatore di un genere, quello bluegrass, che se possibile fa ancora più fatica a prendere piede in Europa. Lo pubblico volentieri e vi auguro buona lettura.
M.A.

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NEGLI USA, TRA COUNTRY E BLUEGRASS
Di Roberto Campovecchi
Generalmente la nascita di un figlio ti cambia la vita, spesso in meglio. Poi devi prendere decisioni per il nascituro. Tanti genitori vorrebbero per i loro figli quello che loro non hanno mai avuto; altri desiderano che abbiano i loro stessi gusti, i loro stessi interessi e le loro stesse passioni. Io appartengo a questa seconda categoria e in parte anche mia moglie (che è innamorata di Elvis Presley nonché membro di un gruppo musicale country). Ne consegue che entrambi abbiamo deciso, al momento del battesimo di nostro figlio Denny, di aggiungere come secondo e terzo nome Hank e Presley.

Una cosa che preme molto a me e mia moglie è che nostro figlio si innamori del country e del bluegrass; una delle cose che dovevamo quindi per forza fargli fare era di portarlo il più presto possibile negli States per poter vedere ed ascoltare il meglio di questa musica. L’ideale sarebbe stato portarlo quando grande abbastanza per capire cosa stava ascoltando e vedendo, ma lo stato di decadenza di questa musica ci ha costretto ad anticipare i tempi.
Ormai in America chi fa del country e lo fa bene come ad esempio Randy Travis, Clint Black e Ricky Van Shelton, suonano pochissimo; quelli un po’ più grandi di loro sono ormai tutti internati nei teatri di Branson (Missouri) fino alla fine dei loro giorni.
Io credo e temo che molti artisti non country abbiano intuito che l’ascoltatore di questa musica sia il più ingenuo di tutti e che basti dirgli: “Ehi, io sono un cantante country” per ottenere che per il resto della loro vita gli comprino tutti i dischi che vorranno incidere.
Le classifiche country, se ancora si possono chiamare così, sono dominate da personaggi fino a poco tempo fa lontanissimi da questa musica come Kid Rock, Big Kenny, o Darius Rucker (il leader nero della pop band Hootie & the Blowfish) e da tantissimi ragazzini e ragazzine usciti dai programmi americani omologhi dei programmi della nostrana De Filippi. Come sono lontani i tempi del Nashville Palace, il ristorante dove Randy Travis lavorava in cucina e dopo aver lavato i piatti chiedeva il permesso di cantare quando la sala ormai era vuota. Quando pensi che il rapper Big Kenny insieme a John Rich si può già permettere un Greatest Hits dopo appena un paio di album ti rendi conto della gravità della situazione.
Oggi chiunque può decidere di essere un cantante o musicista country. Non importa che genere di musica fai, basta che tu dica che fai del country. Anche Kevin Kostner ha una band country!
Scorrendo una classifica che ho trovato su Country Weekly è impressionante quanti artisti che non fanno country siano presenti: Lady Antebellum, Taylor Swift, Darius Rucker, Dave Matthews, Rascal Flatts, Love And Theft, Gloriana, Kelly Pickler.
“E allora sbrighiamoci!” ci siamo detti “Facciamo vedere a nostro figlio quel poco che è rimasto di buono e partiamo per questo tour autunnale che parte il primo di ottobre da Atlanta.
Appena arrivati, venerdì 2 ottobre, ci imbattiamo in un interessantissimo Festival Bluegrass a Chattanooga nel Tennessee. Ci fermiamo solo la prima sera, che ci pare la più interessante. La sera successiva ci sarà la Del McCoury Band e poco altro e siccome la Del McCoury Band l’abbiamo già vista diverse volte decidiamo per quella data di andare piuttosto a vederci Alan Jackson.
Ma torniamo alla serata di venerdì. Viene aperta dai bravi ma non eccezionali Dismembered Tennesseans, una Band di musicisti attempati che avevamo già visto alcuni anni fa; dopo di loro gli incredibili Mike Cleveland and the Flamekeepers (foto a sinistra) e qui va aperta una parentesi. La sera precedente a Nashville erano stati consegnati i premi della International Bluegrass Music Association, il più grande riconoscimento che un musicista bluegrass possa ricevere nella sua carriera, a parte il Grammy ovviamente. Mike Cleveland si è portato a casa il trofeo di miglior violinista dell’anno (è la settima volta negli ultimi nove anni); Marshall Wilborn quello di miglior bassista e Jesse Brock quello di miglior mandolinista. Inoltre la Band tutta insieme ha vinto i trofei per Miglior Gruppo Strumentale e Miglior Performance Strumentale con il brano “Jerusalem Ridge” scritto da Bill Monroe e per il quale Michael Cleveland è stato premiato anche come produttore.

Jesse Brock e Tom Adams della band Mike Cleveland & The Flamekeepers

Presentarsi sul palco freschi vincitori di ben cinque awards ti da una carica incredibile ed è proprio l’energia la chiave dei loro spettacoli. I padroni assoluti delle pirotecniche evoluzioni strumentali sono indiscutibilmente Mike e Jesse mentre lo sfortunato Tom Adams è costretto ad accompagnarli alla chitarra. Tom è stato per quasi tutta la sua vita uno dei migliori banjoisti del pianeta ma una grave malattia muscolare ha ridotto le funzioni della sua mano destra. Per niente rinunciatario si è inventato uno stile dove riusciva ad usare le poche dita rimaste sane ma in breve le sue condizioni sono peggiorate e ha dovuto ripiegare sulla chitarra, il suo primo strumento, con la quale però si limita ad accompagnare ritmicamente i suoi compagni senza potersi lanciare in assoli. Tom però, malgrado le divertenti perplessità di Mike che scherzosamente lo considera un cantante mediocre, si cala niente male nella parte del cantante solista (ruolo nuovo ed inusuale per lui).
Lo spettacolo dei Flamekeepers è spaventoso e ci regala pezzi travolgenti, molti dei quali tratti dal loro ultimo album, “Leavin’ Town”.
Dopo di loro una delle rivelazioni degli ultimi anni, gli Infamous Stringdusters (qui a sinistra). Confesso di averli sentiti nominare ma non avevo mai ascoltato nulla del loro repertorio. Leggendo alcune recensioni mi ero però convinto che fossero una Band che proponeva un Bluegrass alternativo ed innovativo; invece, con grande piacere, li ho trovati sì innovativi ma non alternativi. Il loro sound è sicuramente fresco ma non li trovo così lontani dal buon vecchio bluegrass tradizionale. Ottimi tutti e sei i ragazzi, maestri ognuno del proprio strumento. Una Band giovane con un futuro brillante.
La serata viene chiusa dai Grascals, vincitori del premio Intrattenitori dell’anno per le stagioni 2007 e 2008 nelle cui fila è da poco entrata a far parte Kristin Scott Benson, insignita la sera precedente del titolo di miglior banjoista al mondo (premio che vinse peraltro anche nel 2008). I Grascals salivano sul palco dopo le esibizioni straordinarie dei gruppi precedenti per nulla intimoriti e ci hanno regalato pure loro un concerto memorabile. Erano già bravissimi ma con l’inserimento di Kristin hanno fatto un altro grandissimo salto di qualità, tanto che la compagnia ExxonMobil ha deciso di sponsorizzare il loro prossimo tour. 
La strada da Chattanooga a Pelham, sobborgo a nord di Birmingham, nell’Alabama, è breve e ci permette di raggiungere l’hotel nella mattinata del 3 Ottobre e quindi arrivare al concerto di Alan Jackson con largo anticipo. Il Verizon Music Center di Pelham (foto a sinistra) al contrario delle mie previsioni, è un’arena all’aperto e quella sera fa un freddo cane. La serata viene aperta da uno sconosciuto, almeno per noi, Chris Young. Nei giorni successivi mi renderò conto tramite riviste e video che il ragazzo si è già ritagliato una bella fetta di popolarità nel circuito country. Oltre a essere nominato uno dei cantanti più sexy della stagione in corso, cosa che francamente mi lascia indifferente, Chris presenta un bel repertorio di country solo leggermente contaminato dal rock, dimostrando di essere un buon intrattenitore e di possedere una bella voce. Nel poco tempo a sua disposizione presenta pezzi tratti in gran parte dal suo ultimo album, “The Man I Want To Be”, raggiungendo il picco di entusiasmo con il suo ultimo e per ora più grande successo, “Gettin’ You Home (The Black Dress Song)”, che lo stesso Chris annuncia aver raggiunto il primo posto delle classifiche di Billboard in un messaggio dal suo sito datato 13 Ottobre (ma controllando il sito ufficiale di Billboard pare abbia invece raggiunto solo il secondo posto… Boh!?!). Autocelebrazioni a parte, il suo spettacolo risulta piacevole e soprattutto pieno di energia.
Energia che invece manca all’headliner della serata. Avevo visto concerti di Alan Jackson in un paio di occasioni. La prima nel 1991 ma il concerto si svolgeva al Rialto Theater di Joliet, nei pressi di Chicago, un locale che come fa intuire il suo nome, ha le sembianze di un teatro italiano. Un posto bellissimo e con un’acustica straordinaria ma che non si prestava ad un concerto pirotecnico con luci ed effetti speciali ma piuttosto adatto a situazioni acustiche. Alan Jackson in quella occasione non si scatenò nemmeno un tantino ma era appena uscito il suo grandioso album “Don’t Rock The Jukebox” con il singolo omonimo già number one delle classifiche e poco importava se correva o ballava sul palco. Ogni pezzo di quel disco era meraviglioso (da questo cd usciranno altre due number one) come lo erano tutti i brani del suo precedente lavoro, quello dell’esordio (“Here in The Real World”). Lo rividi poi nel 1998 e anche stavolta non fu un concerto scatenato, ma si trattava del Fan Fair dove aveva a sua disposizione solo una mezz’oretta e dove il palco veniva montato e smontato in pochi minuti quindi non era possibile allestire scenografie molto complesse. Si doveva solo cantare e pure in fretta, senza parlare tanto per poter cantare più pezzi possibili.
La sera del 3 ottobre 2009 era invece tutta sua e visto il successo e la fama acquisiti in tutti questi anni, mi aspettavo stavolta un concerto veramente spettacolare. E invece…. Come nelle mie precedenti esperienze Alan arriva sul palco e si posiziona davanti al microfono dove probabilmente gli hanno disegnato la croce per fargli capire dove deve stazionare. Non si muove di un metro dalla sua postazione, giusto qualche centimetro indietro per dare direttive al batterista. Inoltre non si scomoda nemmeno a presentarti le canzoni, a raccontare storielle o a fare battute. Canta la sua canzone, ringrazia (non sempre) e prosegue con un’altra canzone.
Queste non sono diverse da come le ascoltiamo sui suoi dischi: niente variazioni, assoli o arrangiamenti che rendano i brani un pizzico sorprendenti. L’unica libertà che si concede è quella di iniziare il concerto con il ritornello finale di “Gone Country”.
Non fraintendetemi. Amo Alan Jackson, uno dei pochi che ancora canta il country e che scrive canzoni country. Amo quasi tutti i suoi pezzi; però aver assistito a questo concerto è stato come aver ascoltato un suo cd e francamente quando vado ad un concerto voglio provare un’emozione maggiore.
Ce ne andiamo un tantino delusi e il giorno successivo arriviamo a Memphis per un soggiorno culturale: portiamo nostro figlio a vedere Graceland (qui a sinistra)  a meditare sulla tomba di Elvis Presley e poi ad ascoltare del buon blues passeggiando per Beale Street. Chi ascolta country non può non apprezzare il blues e il rock’n'roll, e a Memphis ascolti e respiri il meglio di queste musiche. Da Memphis giungiamo infine a Nashville, tappa finale del nostro viaggio. Non siamo fortunati dal punto di vista dei concerti: nei successivi dieci giorni c’è ben poco di interessante in programma. Allora ne approfittiamo per mostrare al piccolo Denny Hank Presley i luoghi sacri per noi amanti del country: una passeggiata sulla Broadway con sosta da Robert’s per ascoltare un paio di ottimi pezzi da una band locale, un’occhiata al Ryman, una visita alla Country Music Hall of Fame (che con mio grande piacere ospitava in quei giorni una mostra dedicata ad Hank Williams). E poi i concerti che ogni appassionato di country e bluegrass non può ignorare la prima volta che si reca a Music City: Il Grand Ole Opry e il Midnight Jamboree. Andiamo con ordine.
Il 9 Ottobre è la volta del Grand Ole Opry, presso la Opry House. Riusciamo a mettere nostro figlio in braccio a Patty Loveless che sta firmando autografi nel negozio di souvenirs prima del concerto (un bel ricordo da immortalare con una foto) ed è già un bell’inizio.
La serata propone come al solito quattro segmenti intervallati da pause pubblicitarie per la diretta radiofonica e a volte televisiva. Il primo segmento e’ aperto dal 64enne, ma ancora in buona forma, John Conlee seguito dalla quasi coetanea (è più “grande” di sei anni…) Jeannie Seely. Dopo di loro i divertenti Riders In The Sky e gli straordinari Kentucky Thunder capitanati da Ricky Skaggs, ai quali viene dato l’incarico di chiudere il primo segmento e concesso il doppio del tempo dato agli artisti precedenti (ben due canzoni).
Il secondo segmento è aperto da Little Jimmy Dickens che a ottant’anni suonati non ha ancora perso il suo smalto. Le corde vocali sono ancora in forma e la sua esibizione strappa come al solito tante risate. Tanti aneddoti (tutti rigorosamente inventati!) scherzando sulla sua statura minima e sulla sua veneranda età. Il più divertente che ricordo è quello dove sua moglie gli dice: «Caro, saliamo in camera a fare l’amore» e lui risponde che non ce la fa a fare entrambe le cose. Il pubblico lo ama e gli tributa applausi scroscianti fino a quando annuncia una band leggendaria della musica Country: i Whites. Speravo, vista la presenza di Sharon White nella Band, di assistere ad una ospitata del marito Ricky Skaggs sul palco, ma rimango deluso. Il segmento è chiuso da una grandissima Patty Loveless che approfitta della partecipazione per presentare un paio di pezzi bluegrass. E’ da poco uscito il suo “Mountain Soul – Vol.II” e la priorità è promuovere questa uscita.
Il terzo segmento e’ aperto da uno straordinario banjoista cabarettista che avevo visto per la prima volta ad un festival nel 1991, il “Bluegrass On The Hills”. Ho stentato a riconoscere Mike Snider tanto e’ invecchiato (come del resto anche io). Stavolta indossa un cappello da baseball e suona il mandolino, forse anche per questo non lo avevo riconosciuto. E’ un grandissimo piacere vedere nella sua band il violinista Matt Combs, che feci suonare alcuni anni fa al teatro di Rio Saliceto con la Band di Chris Jones. Quando il pubblico dell’Opry vede arrivare sul palco Mike Snider sa già che si farà un sacco di risate ascoltando le sue irriverenti battute su sua moglie Sabrina, che lui chiama Sweetie, e tante barzellette sulla vita degli hillbillies. Il pubblico sa anche che sta per assistere ad una performance di quella che è forse la miglior string band al mondo.
Mike è però il presentatore del terzo segmento e deve lasciare immediatamente il palco a B.J.Thomas che a sua volta dopo un solo pezzo lascia le luci della ribalta ad uno scatenato Josh Turner che invita subito il pubblico ad accompagnarlo col battito delle mani sulle note di “Would You Go With Me” seguito dalla nuovissima “Why Don’t We Just Dance”. Stavolta sono i giovani, anzi le giovani, a scatenarsi e correre sotto il palco per scattare una foto ricordo di uno dei pochi artisti che oggi possono definirsi country. Una voce meravigliosa come non sentivo dai tempi degli esordi di Randy Travis.
Il Grand Ole Opry per noi finisce qui. L’ultimo segmento che comprende Bill Anderson, Jack Greene, Jean Shepard e Montgomery Gentry decidiamo di evitarlo e, come facevano tanti americani mezzo secolo fà, ce lo ascoltiamo alla radio mentre torniamo in albergo. Ha un certo fascino anche questo.
Seppure imperdibile per ogni fan della musica Country, il Midnight Jamboree, per una ragione o per l’altra, mi era sempre sfuggito. Da decenni l’appuntamento storico per chi si recava al Ryman Auditorium per vedere l’Opry e poi attraversava la strada per entrare nel negozio di dischi di Ernest Tubb nella Broadway per il Midnight Jamboree che iniziava intorno a mezzanotte, concedendo qualche minuto ai fans per la camminata che divideva i due edifici. Da quando l’Opry si è spostato alla Opry House nell’ex parco di Opryland, a nord della città, il Midnight Jamboree lo ha seguito e ora si svolge al Texas Troubadour Theatre, un piccolo teatrino comunicante con un altro negozio di dischi di Ernest Tubb, in Music Valley Drive.
Entro con qualche minuto di anticipo e scopro che l’ingresso è gratuito e mi sorprende che ci sia pochissima gente e che io sono uno dei pochi sotto i 60 anni.
Gli speakers trasmettono in diretta le ultime fasi del Grand Ole Opry e al termine di quest’ultimo si parte col Jamboree. Il programma della serata prevede James Hand come host e Heather Myles come special guest.
Lo show è carino ma non trascinante e con troppo pause pubblicitarie per la diretta radiofonica. James Hand ricorda nei costumi, nella voce, nelle movenze e nelle canzoni Hank Williams ma viene accompagnato da una house band che probabilmente ha imparato i suoi pezzi solo poche ore prima e quindi manca lo spirito di gruppo.
Stesso discorso per Heather Myles che si avvale degli stessi musicisti ma che farà tremare le poltrone con la sua voce imponente.
Lo show dura circa un’ora compreso le pause e non lascia il segno; ma è stato bello poter assistere almeno una volta nella vita al Midnight Jamboree.
Come non puoi mancare almeno una volta la jam session della domenica sera allo Station Inn dove musicisti più o meno bravi e più o meno famosi si danno appuntamento per una serata di puro divertimento. Nessuno è pagato, ognuno arriva quando vuole e si siede a fianco degli altri musicisti che già stanno suonando. Quella sera tra i partecipanti alla jam riconosco Roland White e Hoot Hester (quest’ultimo l’avevamo già visto qualche giorno prima al Grand Ole Opry).
Lo Station Inn è pure il luogo dove assisterò ad una serata incredibile denominata Banjo Extravaganza (nella foto a sinistra la jam session finale). Sarà pure l’ultimo appuntamento dal vivo di questo tour autunnale.
Appena entrato allo Station Inn rimango sbalordito nel vedere schierati sul palco i musicisti che costituiranno la house band deputata ad accompagnare i grandi banjoisti che si alterneranno sul palco quella sera. Al violino Barbara Lamb, al basso John Weisberger, al mandolino Roland White, alla chitarra Tim May e al dobro Michael Witcher. Alla chitarra poi troviamo anche Tom Adams, straordinario banjoista costretto a ripiegare sulla sei corde per i suoi problemi alla mano destra.
Prima di iniziare, fuori dalla sala, faccio la conoscenza di un altro grande banjoista, Richard Bailey, che però quella sera sarà solo spettatore. Rientrati in sala mi presenta Alan Munde, una leggenda del banjo.
Quando in Italia alla fine degli anni ‘70 cominciava la mia ricerca di dischi country, quello che si riusciva a trovare, a parte qualche scontatissima raccolta, erano i dischi di Dolly Parton, Kenny Rogers, Alabama, John Denver e…….Country Gazette, gruppo Bluegrass capitanato da Alan Munde. Non ricordo benissimo ma credo sia stato il mio primo gruppo bluegrass, quindi immaginatevi che onore possa essere stato incontrare Alan Munde.
Uno dopo l’altro salgono sul palco Bill Evans, Ned Luberecki, Charlie Cushman e Alan Munde. In particolare mi colpisce la straordinaria forma di Charlie, considerato che pochi mesi prima si è sottoposto ad un intervento di triplo bypass. I pezzi eseguiti sono tutti standard in quanto la Band è probabilmente improvvisata, ma vedere sul palco tanti grandi banjoisti contemporaneamente e poter confrontare le varie tecniche è bellissimo. A me, vecchio batterista in pensione, la serata è piaciuta un sacco. Immagino quanto sia piaciuta ad un banjoista.
Dopo la serata dello Station Inn si torna mestamente in Italia e si torna al lavoro sognando il prossimo viaggio a caccia di buona musica.


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