Santuario della Madonna del Ghisallo, patrona dei ciclisti.
Undici viaggi sulle orme del ciclismo italiano.
Quando si va in bicicletta il vento soffia sempre contro. Sotto gli occhiali lucidati e fascianti, il naso taglia l’aria, indica la direzione e annusa gli odori. Aria malata quando incombe l’afa pesante ed umida di maggio che taglia le gambe; aria fina delle salite di montagna che accarezza i polmoni ma che all’improvviso muta di temperatura e di stagione, e diventa gelida, carica di neve e di terrore.
I ciclisti sono gente con una memoria lunghissima. Binda ha smesso da poco. Coppi è morto l’altro ieri. Pantani pedala ancora, anche se solo nella nostra fantasia di persone malate di ruote, che continuiamo ad assolverlo per la sua fragilità. Il ciclismo è uno sport di emozioni condivise che diventano cronaca nel momento in cui accadono, storia e poi mitologia. Sport individuale e di squadra, ne tramandiamo di generazione in generazione le cronache, lasciando che sulle strade dove passano i ciclisti si accumulino i ricordi.
Diversamente dal calcio, per il quale ogni partita termina per sempre, le salite, le fatiche e i tornanti dei passi alpini sono sempre lì, pronti ad essere vissuti da ciascuno di noi. Una piccola guida, strettamente personale, a undici luoghi del ciclismo italiano. Sicuramente undici discutibili scelte a cui ognuno potrà aggiungere i suoi preferiti.
1. Santuario della Madonna del Ghisallo. Tra Como, Lecco e Bellagio. Il lago di Como s’insinua tra le montagne in due famosi rami e in mezzo si alzano piacevoli verdi montagne. E’ un paesaggio quasi svizzero, anche se con una certa dolcezza mediterranea: alberi meno verticali, case meno appuntite, gente meno asciutta nei modi. In cima al passo del Ghisallo, a poco più di 750 metri, punto di passaggio del Giro del Lombardia e del Giro d’Italia, si trova un santuario. Antico, senz’altro, come qualsiasi cosa in Italia, ma diventato importante solo dopo la seconda guerra mondiale, quando il parroco del luogo, don Ermelindo Viganò, riuscì a convincere papa Pio XII a consacrare la “sua” Madonna a patrona dei ciclisti. La piccola chiesa è diventata il tempio devozionale e pagano delle due ruote, ricolmo delle icone sacre dei grandi campioni, le maglie, le biciclette, le foto. Inoltre, accanto alla chiesa, posto magnifico da dove contemplare il lago di Como, si trova il museo del ciclismo.
Coppi solo al comando nella Cuneo-Pinerolo.
2. Cuneo-Pinerolo (su cinque vette). “Un uomo solo al comando; la sua maglia è bianco-celestre; Il suo nome è Fausto Coppi.” Con questo leggendario incipit Mario Ferretti, radiocronista della RAI, e Fausto Coppi entrarono per sempre nella storia. Era la diciasettesima tappa del Giro d’Italia 1949. Leoni era in maglia rosa ma la classe di Coppi si era già vista all’opera nei giorni precedenti. Coppi si involò in una fuga solitaria per i cinque colli della tappa, infliggendo distacchi incredibili a campioni come Bartali, giunto a ben 11’52″di distanza, su strade sterrate e polverose. Con questa vittoria Coppi si prese la maglia rosa del suo terzo giro. Provate a seguire il percorso della tappa su gogglemaps. Sono 254 chilometri a cavallo delle Alpi francesi ed italiane. Partenza da Cuneo, poi il Colle della Maddalena, il Col de Vars, il Col d’Izoard, il Monginevro e il Sestriere. Conclusione a Pinerolo.
3. Passo del Macerone (Isernia). Nei primi decenni il Giro percorreva spesso lungo la Chieti-Napoli, in un senso o nell’altro. Il momento clou della tappa erano le due salite di Rionero Sannitico e del Macerone, nelle vicinanze di Isernia.Lande stupende ed isolate oggi, immaginiamocele negli anni venti. La salita del Macerone non è altissima, appena 600 metri ma le pendenze sono alte, soprattutto sul versante settentrionale, e per biciclette di ferro, pesanti e senza cambi doveva essere una tortura. Qui Costante Girardengo si arrese nel Giro d’Italia del 1921, dopo essere caduto all’inizio della tappa da Chieti a Napoli e aver distrutto la bicicletta. Il grande campione scese da terra, tracciò una croce per strada sul valico e disse “Girardengo si ferma qui”.
4. Milano. Naturalmente. La casa del ciclismo, della Gazzetta dello Sport e del Giro d’Italia. La Gazzetta, che allora si trovava in via Radegonga, annunciò il 24 agosto 1908 che avrebbe organizzato nell’anno seguente la prima edizione di una corsa a tappa in bicicletta sul modello di quello che i francesi avevano iniziato a fare dal 1903.La prima edizione della corsa sarebbe partita dal rondò di Loreto, a Milano, alle ore 2:53 di mercoledì 13 maggio 1909, lo stesso luogo che più tardi sarebbe stato ribattezzato Piazzale Loreto, tristemente famoso per l’esibizione dei corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci ed altri gerarchi fascisti nell’aprile del 1945.
5. Madonna di Campiglio. Il Giro del 1999 era ormai di Pantani. Il distacco con gli altri era abissale e non vi era nessuno in grado di imitarne la classe. Ma era tutto genuino? Abbiamo qualche motivo per dubitarlo. Le analisi del sangue di quella mattina dissero che l’emocrito di Marco Pantani era superiore a 50. Non vi era alcun giudizio sul possibile uso di EPO ma una semplice misura precauzionale. Il corridore si deve fermare a titolo precauzionale per quindici giorni. Colpevole o innocente, per Pantani è la fine di una brillante e sfortunata carriera che solo l’anno prima l’aveva visto trionfatore al Giro e al Tour, l’ultimo italiano ad averlo fatto. Da quel colpo Marco non riuscì mai a riprendersi e la sua fragilità umana e sportiva apparve evidente quando ritornò alle gare nel 2000, per poi chiudersi sempre più in se stesso, fino alla depressione, alla droga e alla morte nel 2004.
6. Madonna di San Luca (Bologna). Il Giro del 1956 fu funestato da una serie di incidenti per Fiorenzo Magni, il terzo grande campione degli anni d’oro del ciclismo italiano insieme a Coppi e Bartali. Magni si era rotto la clavicola nel corso della tredicesima tappa da Grosseto a Livorno ma, senza dare la minima retta al medico, Magni continuò a pedalare, passando in qualche modo la cronometro individuale Livorno-Lucca e passando la tappa appenninica da Lucca fino a Bologna. Ma il 2 giugno anche la sua tempra inossidabile si arrese di fronte al dolore che gli impediva di stringere il manubrio. Eppure si trattava di una cronoscalata di 2,5 chilometri fino al santuario di San Luca che domina Bologna. Un nulla per un uomo come Magni. Il suo meccanico, Faliero Masi, prese una camera d’aria, la strinse intorno al manubrio e gli mise l’estremità tra i denti. In questo modo Magni riuscì a non sforzare il braccio e a sopportare il dolore. Come se non bastasse, poco dopo il ciclista toscano cadde nuovamente rompendosi l’omero. Continuò lo stesso. Nella tappa del Monte Bondone (vedi oltre) il campione toscano riuscì ad arrivare alla fine arrivando secondo solo a Gaul.
Charly Gaul trasportato a braccia all’arrivo sul Monte Bondone.
7. Da Treno al Monte Bondone. Nel 1956 la ventunesima tappa prevedeva 242 chilometri da Merano al Monte Bondone, nel cuore del Trentino. Il tempo funestò i corridori fin dall’inizio con pioggia e freddo, costringendo alcuni al ritiro, ma fu nella scalata al Monte Bondone che si scatenò una terrificante tempesta di neve che rese impossibile a più della metà dei partecipanti di continuare a pedalare. La temperatura all’arrivo scese a meno quattro gradi sotto lo zero. A vincere la tappa, sopportando incredibili sofferenze, fu il lussemburghese Charly Gaul che all’arrivo era praticamente assiderato come testimoniano le foto dell’epoca. Secondo giunse Alessandro Fantini e terzo un indomito Fiorenzo Magni.
8. Sardegna. Il Giro ha visitato tutte le regioni d’Italia. L’ultima fu la Sardegna, in occasione del Giro del 1961, anno del primo centenario dell’unità. Si trattò di una corsa in linea di 118 chilometri con partenza ed arrivo da Cagliari che attraversò i comuni della provincia. Il giro sarebbe tornato nell’isola solo trent’anni dopo con tre tappe, un circuito intorno ad Olbia, la Olbia-Sassari e la Sassari-Cagliari, tutti percorsi da provare in bicicletta per i più tenaci tra i ciclisti.
9. Passo dello Stelvio. La più elevata quota mai raggiunta dal Giro e il secondo passo automobilistico più alto in Europa, con ben 2758 metri sul livello del mare. Un’altezza che dà vertigine e anche qualche problema di ossigeno. La strada fu costruita al tempo dell’imperatore austriaco Francesco I per permettere di collegare il Trentino con la Lombardia attraverso la Lombardia (1825). Raggiungibile da tre versanti, quello svizzero, quello trentino e quello lombardo, è una salita affascinante ed impegnativa, anche per le variabili condizioni meteo. Memorabile la prima volta dello Stelvio nel Giro del 1953 quando Fausto Coppi compì la sua ultima grande impresa, staccando il leader della classifica generale Koblet nella tappa da Bolzano a Bormio, e vincendo così il suo quinto Giro, l’ultimo.
10. Castellania (Alessandria). Uno dei comuni più piccoli d’Italia con meno di 100 abitanti residenti. Qui, nel 1919, nacque Fausto Coppi, la cui casa è stata trasformata in museo ed è l’unica affascinante attrazione del paese. Vale la pena passare del tempo nella zona per conoscere i luoghi in cui si allenò il giovane Fausto.
Vincenzo Nibali, ultimo vincitore del Giro.
11. Barcellona. Circuito del Montejuic. Cosa c’entra la Spagna con il ciclismo italiano? Moltissimo, e non solo per i campioni iberici che sono venuti qui da noi e quelli italici che sono andati alla Vuelta. Nel 1973 qui si disputarono i campionati mondiali di ciclismo sul quale pendeva l’ombra del “Cannibale”, Eddy Merckx, che aveva già vinto due volte in precedenza i mondiali (1967 e 1971) e veniva da due straordinarie accoppiate Giro-Tour (1970 e 1972). L’unico che in quegli anni riuscì a tenergli testa in qualche occasione fu Felice Gimondi, che così racconta quella giornata al giornalista Stagi. “Sul circuito del Montejuic ho fatto un capolavoro. Due belgi da battere: Merckx e il giovane Maertens, oltretutto coalizzati per farmi fuori. Nel finale, quando eravamo rimasti in quattro (loro tre più Ocana, ndr), mi accorsi che Eddy non pedalava benissimo. In volata mi giocai alla grande l’occasione della vita. Ecco, quel giorno ho capito una volta di più, che quando ti capita l’occasione non puoi permetterti di non farti trovare pronto.” Mi sembrava giusto concludere con Gimondi, modello di un tipo di campione silenzioso, duro e ostinato, forse l’ultimo di una stirpe ciclistica a cui continuiamo a guardare con rispetto ed ammirazione.