In una delle due serate di Che tempo che fa di questo fine settimana veniva presentato il nuovo libro dell'autore di Sostiene Pereira, La Testa perduta di Damasceno Monteiro, Il tempo invecchia in fretta e tutta un'altra serie di scritti meno accessibili ma, forse, altrettanto apprezzabili. Si chiama Viaggi e altri viaggi, una "raccolta di racconti di viaggio di Antonio Tabucchi" (qui l'intervista).Non l'ho ancora letto e, come sempre accade dopo aver visto l'autore che si affanna a raccontare la sua opera, ho le idee ancora più confuse su quanto possa contenere. Non importa. Ciò che ho voglia di raccontare (per rendermi ancora più "noto", potrebbero pensare alcuni) è quella definizione del viaggio che ne dà l'autore. Il viaggio un po' come lo intendo io e, davanti ad un piatto caldo di pasta con una nebbiosa serata d'inverno alla finestra, sembra quasi di essere già in partenza per una nuova avventura.
Il viaggio conta solo nell'esser viaggio. Non tanto perché abbia uno scopo. Esso trova un senso all'interno di se stesso. Il viaggio è bello per l'imprevisto; perché trovi una persona che non avresti mai trovato, perché vedi una cosa che non avresti mai visto. Questo il bello del viaggio: l'imprevisto.
Il viaggio organizzato, ad esempio, ha una quantità di imprevisto molto minore. Qualcun altro ha "previsto" per te. Magari hanno anche previsto le cose migliori: hai un'ottima installazione, il pranzo che farai sarà un ottimo pranzo. Ma è come viaggiare in scatola, sottovuoto. E all'interno di questo sottovuoto è molto difficile che ti succeda un imprevisto. Se succede, succede alla scatola stessa e, magari, ti irrita perchè ne ha turbato l'organizzazione.
Posare i piedi sul medesimo suolo per tutta la vita può provocare un pericoloso equivoco. Può farci credere che la terra ci appartenga come se essa non fosse in prestito come del resto tutto è in prestito nella vita. Il viaggio può darci questa saggezza: il terreno che noi calpestiamo è tutto in prestito. Un luogo non diventa nostro. Un giorno voleremo via.