Quando non ero che un giovincello ero quasi convinto che viaggiare mi avrebbe aperto la mente, che mi avrebbe consegnato al mondo senza alcuna remora, senza meschinità, doppi fini, atteggiamenti intriganti o presunzioni. Avrei abbracciato la comunità globale con un sorriso inebetito e lo sguardo intriso di affetto non richiesto.
Invece no. Seppure è vero che in viaggio sono un fringuello libero e felice, ogni volta che ritorno sono più acido, irritabile e cinico di prima. È come se il mondo mi sbattesse in faccia quanti lati straordinari ci sono là fuori, che noi qua non riusciremo mai a implementare.
Allora, ho pensato, rimbocchiamoci le maniche: usciamo per le vie del mondo a carpire i segreti della felicità degli altri popoli e saccheggiamoli, facciamone dei trofei di pubblica utilità in casa nostra. Certo, non si può esportare un modello senza le dovute modifiche, bisogna tararlo sulle caratteristiche intrinseche della comunità che lo riceve. E gli italiani ne hanno parecchie di caratteristiche intrinseche.
Cominciamo con la fiducia: in Italia non ci fidiamo gli uni degli altri. Invece ho letto che in Canada pochi giorni fa un nostro connazionale ha assistito a una scena di quelle che restituiscono la speranza nel genere umano. In una stazione della metropolitana la macchina per obliterare il biglietto era fuori servizio e i passeggeri, invece di attraversare indenni i cancelli, hanno lasciato i soldi sull’obliteratrice pur di pagare il biglietto.
Ma ecco un altro valore importante di cui in Italia scarseggiamo alquanto: la sportività, intesa come l’inclinazione ad avere una vita dinamica, scandita da regolare esercizio fisico e pratica sportiva. Perché la verità è che lo sport nazionale italiano è “qualunque, basta che lo trasmettano in prima serata”. Invece in Tailandia vedevo la gente – donne, vecchi e bambini compresi – uscire di casa all’alba o al tramonto per correre, oppure incontrarsi nei parchi per fare tai chi.
Sempre sulla cronaca recente ho scoperto che, in vista delle prossime Olimpiadi, nella metropolitana di Mosca non facevano pagare il biglietto a chi riusciva a fare 30 piegamenti. Qui da noi, al massimo, nella metro di Roma possono portare un maxi schermo e far viaggiare gratis chi riesce a guardare una partita senza insultare la squadra avversaria con epiteti che si riverserebbero nel patrimonio genetico dei giocatori per le prossime tre generazioni. Sarebbe un buon esercizio di sportività anche quello, ma tanto dubito che si salverebbero in molti.
Io nutro un sincero affetto per questo popolo disciplinato e molto ben organizzato – le cui ricchezze provengono essenzialmente dalle banche e dall’industria farmaceutica, due settori che io considero più o meno il male assoluto – e quando ho sentito raccontare che il Ministro dei Trasporti arrivava ai convegni in bicicletta, sotto la neve, non ho potuto fare a meno di pensare ai nostri politici e alle loro 7900 auto blu (veicoli di rappresentanza, a cui si aggiungono 52.600 auto grige, cioè veicoli operativi). Dovremmo almeno costringerli ad utilizzare il car pooling, solo che nessuno accetterebbe di salire in macchina con personaggi di quel calibro.
Gli svizzeri sono così: la politica non gli serve, perciò neanche li pagano i loro politici (l’attività politica non è considerata un’attività remunerativa e viene corrisposta solo con esigui rimborsi spese, mentre i politici italiani sono i più pagati d’Europa e il motivo di ciò ancora mi sfugge). Applicano una democrazia federale totale: in ogni cantone votano almeno una volta al mese, talvolta per decidere il colore dei nuovi tendaggi del Parlamento. Tanto la scheda elettorale gli arriva a casa e loro non devono far altro che compilarla e rispedirla.
La maggior parte degli svizzeri non sa neanche come si chiama il Presidente della Confederazione Elvetica (Ueli Maurer, figlio di poveri contadini cresciuto nelle campagne zurighesi), né che sono stati la prima repubblica d’Europa ad avere avuto un capo di stato donna (Ruth Dreifuss, ex redattrice del giornale della Coop di Basilea, eletta nel 1999). D’altra parte sono stati anche l’ultima nazione a consentire alle donne di votare (nel 1971), probabilmente perché a loro non gliene poteva importare meno. Lo sapete qual è il motto nazionale degli svizzeri? “Uno per tutti, tutto per uno.” Proprio così… l’hanno copiato dai tre moschettieri di Dumas!
Insomma, nessun popolo è perfetto. Io amo viaggiare, e amo il mio popolo e il mio Paese. Ma ogni volta che torno da un lungo viaggio, fosse anche stato in Africa o in India (che tra l’altro è una succursale della Calabria: povertà, strade rotte e cibo piccante), per due mesi non mi sopporta nessuno. Sarà per questo che ho cominciato a fare il blogger… almeno qui siete costretti a tenermi così come sono.
E voi, cosa vorreste importare in Italia di quello che avete visto in viaggio?
Flavio Alagia
Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sudafrica… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.
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