Viaggiare salverà la letteratura, che salverà il mondo

Creato il 18 giugno 2014 da Storiediritratti @GianmariaSbetta
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Sto viaggiando sul treno OBB diretto a Monaco. Lì cambierò e prenderò un Intercity DB per  Francoforte sul Meno. A bordo è tutto un formicolare di persone: tedeschi che tornano a casa, italiani che vanno a trascorrere il ponte del 25 aprile in Austria o in Germania. Dopo Bressanone il paesaggio si fa già idillico: si vedono le chiare e limpide acque dell’Isarco, così piccolo, quissù, i prati gialli di fiori sbocciati, i meleti ancora in fiore. Arriviamo a Vipiteno, e tra i viaggiatori si parla già di “Estero”. Le montagne sono altissime, imponenti, ancora ricolme di candida neve sulle loro cime. Le punte dei campanili si confondono coi pini che affollano in massa i pendii dei monti. Tesi, verso l’alto, verso Dio, vogliono aspirare a toccare il cielo, o forse vogliono solo mettersi in competizione con le montagne, non essere da meno, in questa terra in cui lo sguardo è sempre teso verso l’alto, per aspirazione naturale, per atteggiamento o semplicemente per amore del paesaggio.

È quasi mezzogiorno, e ci avviciniamo alla frontiera: il Brennero, da secoli crocevia di popoli, affascinante confine naturale e temuto valico per chi lo attraversò. Mi viene da pensare che qui passarono condottieri, re, imperatori: da Druso, figlio d’Augusto, detto Germanicus, a Enrico VI di Svevia, padre di Federico II, che dalla Gheldria scendeva alla Sicilia. Sono su un ponte tra due mondi, la porta che dalle Alpi conduce al Mediterraneo, l’ultimo grande ostacolo per un nordico che desideri mettersi in viaggio per vedere quell’immensa distesa d’acqua che parrebbe senza fine: il mare.

Il treno viaggia, ma la mia mente spazia di più. Per questo decido sempre di mettermi in moto, perché è come se la mente prendesse al volo la forza del treno e ne approfittasse per viaggiare ancora più lontano. Così immagino le colline del nord, le pianure dell’est, i tepori del sud. Tra le mani, a stimolarmi la riflessione, sfoglio un volumetto di Paolo Rumiz. Il titolo mi ha subito attratto e non ho potuto fare a meno di acquistarlo: è Oriente.

«Sono su un Orient Express che non è un espresso e non è nemmeno Oriente. In Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo, espulso dal nostro immaginario, poi l’hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo astronomico: ‘Est’. Ma l’Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi, l’Est è un reticolato che esclude».

La maggior parte delle persone viaggia per arrivare. Vede il viaggio come una sofferenza, un necessario passaggio obbligato per poter raggiungere la meta desiderata. Ma arrivare dove? Forse in un villaggio turistico, in un non-luogo, in un albergo extralusso dove dimenticare per qualche giorno gli affanni della vita quotidiana, «le coincidenze, – così le chiamava Montale – le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede».

Io penso che il viaggio tout court sia forse la parte migliore del viaggio in sé, cioè, per dirla con la lingua inglese che si presta molto al caso: penso che il travel sia la parte migliore del journey. Su quel treno ho potuto pensare, leggere, scrivere. A Francoforte mi sono poi trovato catapultato in una realtà rapida, in continuo movimento, senza un centro o un lento percorsoa tappe come le città italiane inviterebbero a fare.

« Schnell vuol dire veloce, ma la velocità non sta nei treni. Si concentra nelle stazioni: nella fretta con cui si sale e si scende, nel risucchio delle masse a ritmi da film muto ».

Paolo Rumiz mi riporta con la mente a viaggi passati: dalla merenda in un agriturismo sloveno nella Prekmurje, al ventoso mare di Trieste, all’auto che percorreva le immense distese pannoniche dell’Ungheria e al sole che splendeva sulle rive del lago Balaton. Un po’ stanco della lettura, sollevo lo sguardo e mi perdo nel paesaggio che scorre rapido come una pellicola da film oltre il finestrino. Osservo a lungo anche la copertina del libro che ho posato sulle ginocchia: vi campeggia un battello che percorre il Danubio, sullo sfondo palazzi di fine Ottocento o Art Nouveau. Rivedo Budapest illuminata, la sera di Capodanno, come se fosse qui, davanti ai miei occhi. Poi la mente si sposta su ciò di cui mi occupo, la letteratura. Non posso fare a meno di notare quanta poesia si possa cogliere in un semplice viaggio in treno: dalle esperienze delle persone che incontri, ai paesaggi che vedi, alle storie che senti raccontare o che il mondo attorno a te ti comunica in silenzio. Infine, dopo otto lunghe ore di treno, si annuncia l’imminente arrivo a Frankfurt am Main.

« Siamo arrivati e abbiamo già voglia di ripartire. Per Praga magari, o Berlino. Eppure, non sono i luoghi che ci chiamano: dei luoghi non ci resta, in fondo, che un inventario di immagini, un mucchietto di ricevute e conti d’albergo. È l’immersione nel paesaggio che ci manca. (…) Per noi il paesaggio è stato tutt’uno col passaggio, cioè con l’andatura, la quale a sua volta è ritmo, dunque narrazione. Una narrazione semplice ed esatta, come nelle Lezioni americane di Calvino. “Cammina cammina, valicarono la montagna, passarono il ponte e bevvero a una fontana.” Mi chiedo se la forza del racconto non nasca nell’uomo da millenni di cammino, se il narrare (insieme al cantare) non nasca dall’andare. E se il nostro mondo abbia disimparato a raccontare semplicemente perché non viaggia più. »

Carlo