Viaggio Antiquario ne’ contorni di Roma di Antonio Nibby (1819)
Membro ordinario dell’Accademia Romana di Archeologia. TOMO II. Che contiene il Viaggio a Frascati, Tusculo, Algido, Grottaferrata, Alla Valle Ferentina, al Lago Albano, Ad Alba, Aricia, Nemi, Lanuvio, Cora, Anzio, Lavinio, Ardea, Ostia, Laurento, e Porto.
Presentiamo la parte relativa al nostro paese.
[...]
Velitrae, oggi Velletri.
Due miglia dopo, si lascia a destra l’Appia che da Genzano si è sempre seguita, e voltando a sinistra si perviene dopo circa tre miglia a Velletri, antica città, che poche rovine conserva del suo antico splendore, e che non è qui luogo descrivere, essendo fuori de’ limiti, che mi sono prefisso. Solamente debbo osservare, che Velletri corrisponde all’antica Velitrae, una delle città principali de’ Volsci, la quale molto diede a fare ai Romani ne’ primi quattro secoli di Roma. Nell’avvicinarsi a questa città si gode la veduta magnifica di una gran parte del Lazio, e le montagne formano un vero anfiteatro.
Lago, e Villaggio di Giuliano.
Senza entrare in Velletri, si prende la strada a destra; debbo qui avvertire, che fino a questo punto si può andare in vettura, ma da Velletri a Cora bisogna andare sempre a cavallo per il tratto di dodici miglia in circa. Questa città si vede da lungi sulle falde di un monte, e comparisce più grande di quello, che realmente sia. La strada, quando io vi passai, era molto cattiva, e sembrava da parecchi anni non essere stata risarcita, e senza una guida assai prattica, ed un cavallo assuefatto a questo tragitto era impossibile poterne uscire. A mezza strada circa si passa a sinistra presso un antico cratere di vulcano estinto, oggi ridotto a lago, e chiamato di Giuliano, che è molto pittoresco. Esso trae nome da un villaggio, che ivi dappresso si trova a destra della strada, il quale si chiama Giuliano. Si può salire a questo villaggio per un viale di olmi, ma per l’insalubrità dell’aria il villaggio si trova oggi quasi deserto, non essendovi rimasti, che pochi abitanti. Io credo, che fra un secolo si ridurrà allo stato di semplice casale. La chiesa è l’oggetto principale, che meriti di essere veduto, essendo sufficientemente bella per un villaggio in rovina.
Satricum, oggi Rocca Massima.
Continuando il cammino, si vede a sinistra sulla sommità di una montagna un miserabile villaggio de’ bassi tempi, detto Rocca Massima. Io non vi sono salito ma mi si dice, che vi siano avanzi di mura costrutte di poligoni, e perciò vi si deve supporre resistenza di un’antica città Volsca, forse Satricum.
Presso Cora, sopra una eminenza a sinistra ella strada si vede la chiesa di S. Francesco, nella quale non esiste oggetto degno di osservazione; solo posso notare, che questa è la passeggiata, e luogo di diporto della città. Nel convento però ivi annesso merita di essere veduto il Refettorio, adornato di pilastrini di legno, sopra i capitelli de’ quali un Fra Vincenzo da Bassiano intagliatore, che scolpì il Crocifisso di Nemi, e di Bassiano, rappresentò la vita di S. Francesco, e varj animali. A destra della strada havvi un vasto oliveto, volgarmente chiamato l’Insito, nel recinto del quale esiste un monumento de’ bassi tempi di forma rotonda, forse cappella rurale. Proseguendo il cammino verso Cora, prima di giungere alla porta si vede a destra un ponte, pel quale si va ad un Romitorio, e ad una piccola chiesa detta dell’Annunziata, essendo dedicata all’Annunciazione della Vergine. Questo tempietto è coperto di pitture fatte ne’ primi tempi delle arti moderne; esse rappresentano parecchie storie del vecchio Testamento. In queste pitture il colorito, il contorno, e l’espressione delle teste è assai buono, il resto delle figure, e la composizione risente della secchezza, o per dir meglio rozzezza dell’arte. Sulla porta, in lettere volgarmente dette gotiche, si legge in una linea:
DE · SPAGNIA · FECIT · QVI · HIC · LEGERIT · DICAT ·
VNV · PATER · NR · P ·AIA · MEA
cioè De Spagnia fecit qui hic legerit dicat unum pater noster pro anima mea. Ivi si vedono le armi gentilizie di questa famiglia de Spagnia in pietra.
Storia di Cora.
Giunto presso Cora, prima d’inoltrarmi a descriverla parlerò de’ fatti più rimarchevoli della sua storia. La fondazione di Cora è affatto incerta; Servio nel commento sul verso 672. del libro VII. della Eneide dice, che dal nome di Coras fratello di Catillo, e Tiburte Argivi fu così denominata questa città: Coras, a cujus nomine est civitas in Italia, il che potrebbe indicare, che questi ne fosse il fondatore, e così si crede volgarmente, ma l’autorità è troppo debole per sostenerlo, e non v’ha alcun altro scrittore, che dia di ciò il più piccolo indizio. Plinio nella Storia Naturale lib. III. c. V., e Solino nel c. VIII. ne fanno fondatori i Trojani; il primo dice, Corani a Dardano Trojano orti; l’altro, Coram a Dardanis. Ma ciò, che può con maggior fondamento avanzarsi, è, che essa fosse una delle Colonie Albane dedotte da Latino Silvio. Imperciocchè chiaramente si dice dall’autore dell’opera intitolata Origo Gentis Romanae: Igitur regnante Latino Sylvio coloniae deductae sunt Praeneste, Tibur, Grabii, Tusculum, CORA, Pometia, Locri, Crustumium, Cameria, Bovillae, caeteraque oppida circumquaque. Lo stesso indica Livio al capo 10. del libro II. dove chiama questa città, Colonia Latina, e con questa tradizione si accorda Virgilio, che nel VI. della Eneide v. 774, e seg. cantò:
Hi Collatinas imponent montibus arces
Pometios, Castrumque Invi, Bolamque, Coramque.
Come Colonia Albana fu l’anno decimoquinto appresso la distruzione di Alba insieme colle altre Colonie da Tullo Ostilio invitata a sottomettersi a Roma qual novella metropoli del Lazio. Ma essa, come tutte le altre, non diede risposta, e mandò i suoi deputati alla Dieta generale della nazione al Bosco della Dea Ferentina, per decidere questo affare. La Dieta risolse di non sottomettersi al Re di Roma, ed in conseguenza scelse per capitani dell’esercito collegato Anco Publicio da Cora, e Spurio Vecilio da Lavinio, siccome narra Dionigi nel libro III. pag. 175. La scelta di uno de’ capi dell’esercito caduta sopra un Corano mi fa supporre, che Cora più delle altre s’impegnasse contro le pretensioni del Re di Roma. Questa guerra però ebbe pochi fatti degni di osservazione, e finì con un trattato di pace, di cui non si conoscono le condizioni. I Corani rimasero in quiete fino all’anno di Roma 251, nel quale, al dire di Livio lib., 2., c. 10., passarono nel partito degli Aurunci: Eodem anno duae coloniae Latinae Pometia, et Cora ad Auruncus deficiunt etc. Pomezia fu dai Romani distrutta, ma nulla da Livio si aggiunge di Cora, segno evidente, che rimase impunita. Anzi poco dopo, allorchè si conchiuse la lega generale contro i Romani per ristabilire i Tarquinj sul trono, essi vi presero parte cogli altri popoli Latini, siccome Dionigi stesso afferma nel lib. V., p. 326. Non giunsero però, come neppure gli altri Volsci, in tempo per soccorrere i Latini alla battaglia al Lago Regillo, siccome si trae da Livio al capo 12. del secondo libro; e dopo che i Latini ebbero conchiusa la pace co’ Romani, i Volsci, nella cui lega entravano i Corani, diedero ai Romani 300 ostaggi da Cora, e da Pomezia in pegno della loro fedeltà. Dopo questo fatto fino all’altra lega generale del Lazio contro Roma, nulla si conosce di Cora; è però probabile, che questa città vi prendesse parte, e che siccome non fu di quelle, che più accanite si mostrarono ai Romani, perciò non si fa di essa particolare menzione. Quella lega fù l’ultimo sforzo del Lazio, e dopo le tre disfatte, che i Latini riceverono, la prima non lungi dalle falde del Vesuvio, l’altra presso Pedo, e la terza sulla Stura, vennero forzati a sottomettersi alle condizioni, che al Senato piacque loro d’imporre. Da quel momento i Corani si mostrarono sempre fedeli ai Romani, nella famosa guerra Annibalica conosciuta sotto il nome di seconda guerra punica, Silio (libro VIII. v. 377.) ci mostra Cora, come una delle città, che mandarono il loro contingente ai Romani, e che ebbe parte insieme con loro nella famosa giornata di Canne:
At quos ipsius mensis seposta Lyaei
Setia, et e celebri miserunt valle Velitrae,
Quos Cora, quos spumans immiti Signia musto.
Da Livio nel capo VI. del libro 26. apprendiamo, che a questa stessa epoca, cioè durante la seconda guerra punica, Cora era di già un municipio: Hoc Senatus consulto Capuam perlato, Quintus Fulvius proconsul…. cum Hannibalem Latina via iturum satis comperisset, ipse per Appiae municipia, quaeque propter eam viam sunt Setiam, CORAM, Lanuvium praemisit. Che dopo quella epoca Cora continuasse a fiorire, lo mostrano i due tempj di Ercole, e di Castore e Polluce, e che, siccome vedremo, appartengono al secolo di Tiberio, e di Claudio, e formano l’ornamento principale di questa città. Quindi si ha una prova di più contro quella enfatica predizione di Lucano nel libro VII. della sua Phiarsalica v. 391:
Tunc omne Latinum
Fabula nomen erit: Gabios, Vejossque, Coramque
Pulvere vix tectae poturent monstrare ruinae.
Imperciocchè, siccome dove trattai di Veji ho mostrato questi versi non debbono intendersi di ciò, che realmente seguì, ma solo vanno presi come una predizione de’ mali, ai quali le guerre civili esponevano il Lazio. Nè solo le citate fabbriche ci mostrano Cora in tutto il suo splendore nel secolo di Tiberio, o poco dopo, ma ancora Strabone, che vivea circa gli stessi tempi, come una delle città del Lazio la nomina nel lib. V. p. 164. Ed è questa l’ultima memoria, che si abbia di Cora. Ne’ tempi della decadenza questa città dovè soggiacere ai mali comuni del Lazio, ed alle devastazioni de’ Goti, Vandali, e Longobardi. Ne’ tempi bassi poi dovè essere dì qualche importanza, giacchè una parte delle sue mura data da quella epoca, ed il popolo Romano la volle considerare come suo proprio feudo.
Mura.
Venendo ora alla descrizione della città, prima di entrarvi debbonsi considerare le mura, che sono di opera reticolata incerta, siccome si può osservare dalle torri, che difendano la porta Romana, e mostrano perciò di essere state edificate negli ultimi tempi della Repubblica. Ne’ bassi tempi però sono state risarcire, vedendo molti pezzi di esse di opera Saracinesca. Il materiale impiegato per queste mura è una pietra calcarea, che si trova nelle vicinanze di questa città: la porta è moderna. Appena entrati si cominciano a trovare magnifici avanzi di mura antichissime di massi poligoni, dette communemente di opera ciclopea, le più alte, che di questa costruzione io conosca. Queste nel tempo stesso, che formavano tre recinti alla città, le servivano di sostruzioni solide Il recinto più basso di queste si trova nelle cantine a destra della strada appena passata la porta. Una di queste è stata da me visitata. Le mura si estendono in essa per 33 palmi, e mostrano di continuare, avendo fatto smuovere due pietre, ho trovato, che sono addossate al vivo del monte a doppia fodera, le quali insieme formano sei palmi di grossezza. Sembra però, che questo recinto inferiore non sia così antico come gli altri, due de’ quali or ora vedremo, poichè i massi non sono così grossi, e sono più lavorati. Continuando il cammino per questa strada, che chiamano via ritta, si vede poco dopo a destra incassato nel muro un bei frammento di antica sedia di marmo rappresentante un grifo. Quindi a sinistra si trovano le mura di poligoni, che formavano il secondo recinto, costruite di massi enormi, e più rozzi dell’ordinario, indizj di antichità ancora più remota.
Di là voltando a sinistra, e passando alla piazza della Chiesa principale dedicata a S. Maria, havvi sotto il campanile la iscrizione seguente:
TI · CL · TI · FILIO
P · · ·
OMNibUS · HONOrib
CORAE · FVNC
TO · ORDO · ET · POPVL
CORA · BENEMERITA
EIVS
Tempio di Castore, e Polluce.
Da S. Maria si possono passare a vedere gli avanzi del tempio di Castore, e Polluce esistenti presso la Chiesa di S. Salvatore, edificio de’ secoli bassi come la sua costruzione di opera saracinesca lo mostra. Il Tempio di Castore però è uno de’ più belli avanzi, che ancora ci restino dell’antichità. Che esso fosse dedicato a Castore, e Polluce l’iscrizione che ancora si legge sul fregio, e sull’architrave, il dimostra:
· · · M · CASTORI · POLLVCI · DEC · S · FAC · · ·
M · CALVIVS · M · F · P · N
cioè Templum Castori Polluci Decurionum sententia faciundum curavit Marcus Calvius Marci filius Publii Nepos. Questo M. Calvio era contemporaneo di Claudio, ed in conseguenza a quella epoca appartiene il Tempio. Una iscrizione già esistente presso il Tempio di Ercole serve di testimonio alla mia asserzione:
M · CALVIVS · M · F · PAP · PRISCI
ADLECTVS · IN · ORDINEM · SENATORIVM
A · TI · CLAVDIO · CAESARE · AVG · GERMANICO
D · S · P · F
Di questo edificio rimangono ancora tre colonne scanalate dì ordine corintio, due intiere, ed una rovinata; de’ capitelli uno è intiero, l’altro manca di un corno, ed il terzo è segato. Queste tre colonne, che venivano a formare un angolo del tempio stesso, come le tre di Giove Tonante sul clivo Capitolino in Roma, sono di buona proporzione, hanno uno stucco assai fino che le ricopre, e poggiano sopra un basamento di travertino, o pietra calcarea, della quale sono esse stesse formate.
Cora a monte; Tempio di Ercole.
Cora si può dire separata in due città, alta, e bassa, che il volgo di questo luogo appella Cora a monte, e Cora a balle (valle). Queste due parti di Cora equivalgono alla antica città, ed alla cittadella, e sono fra loro divise da un oliveto. Le rovine fin qui descritte esistono nella città propriamente detta. Salendo verso la cittadella, si trova un altro gran pezzo di muro di pietre poligone, che forma tre angoli, o risalti, a guisa di bastioni, e di torri. Sull’alto poi della cittadella nel luogo dove esiste la Chiesa di S. Pietro, che è anche essa edificata sopra sostruzioni di mura a massi poligoni, si vede uno degli avanzi più belli, che esistano nel Lazio, e si gode una veduta assai vasta delle Paludi Pontine, da civita Lavinia fino al mare presso Terracina. L’avanzo del quale io tratto è il famoso Tempio di Ercole, che può considerarsi come un modello dell’ordine dorico della quarta epoca, del quale tanta stima faceva Raffaello, che ne fece un disegno che insieme con altri esisteva nel museo del celebre Barone di Stosch. Ciò che resta di questo tempio sono otto colonne, quattro che formavano la fronte, e due per parte ne’ fianchi, tutte di ordine dorico, scanalate dal terzo in su, di pietra calcarea simile al travertino, e coperte di stucco. Queste colonne sostengono ancora il frontespizio, ed hanno tre palmi, e un quarto di diametro ai piedi, e due palmi e otto oncie in cima; esse sono alte sette diametri non compresa la base, ed il capitello, ed hanno di altezza totale dieci palmi, e dieci oncie. Posano sopra la base, cosa che non si osserva generalmente nel dorico antico greco, ed il capitello molto si accosta al capitello toscano, onde Raffaello le giudicò di ordine toscano. Dal punto centrale di una colonna fino al centro dell’altra vi sono dieci palmi, onde il loro intercolunnio è di circa due diametri. Queste colonne servivano di pronao al tempio; sulla porta della cella, che oggi è murata, ed i cui stipiti sono di marmo bianco, si legge in due righe la seguente iscrizione:
M · MANLIVS · M · F · L · TVRPILIVS · L · F · DVOMVIRES · DE · SENATVS SENTENTIA · AEDEM · FACENDAM · COERAVERVNT · EISDEMQVE · PROBAVERE
Questi Duumviri sono da Winkelmann nelle osservazioni sull’Architettura degli Antichi, pag. 52., e seg. (Storia delle Arti Tom. III. Ediz. Rom.) definitivamente stabiliti come contemporanei di Tiberio, onde assai strana riesce la ortografia delle parole DVOMVIRES, COERAVERVNT, EISDEMQUE invece di DVVMVRI, CVRAVERVNT, IIDEMQUE, che potrebbe far credere questo edificio molto piu antico. E’ da notarsi inoltre, che Livio nel c. XII. del VI. libro asserisce, che dopo il supplicio di M. Manlio Capitolino, la gente Manlia stabilì, che niuno più prendesse il prenome di Marco: Adjectae mortuo notae sunt: publica una…. gentilitia altera, quod gentis Mantiae decreto cautum est, ne quis deinde Marcus Manlius vocaretur: quindi conviene credere, che a’ tempi di Tiberio questa legge di famiglia fosse ita in disuso, poichè troviamo in questa iscrizione un M. Manlio. Finalmente, che questo Tempio appartenga ad Ercole lo mostra chiaramente una iscrizione ivi trovata, e riportata dal Volpi nel suo Lazio Tom. IV., pag. 140, la quale diceva:
HERCVLI · SACRVM
Nella Chiesa di S. Pietro addossata a questo tempio, si conserva una bella ara quadrata, decorata ai quattro angoli di teste di ariete, ed ornata egualmente nelle quattro faccie con festoni, e figuradel Sole in mezzo, lavoro de’ tempi migliori dell’arte, e probabilmente contemporaneo alla edificazione del Tempio.