Viaggio In Iran: Per Staccare La Spina Bisogna Cambiare Aria

Creato il 16 dicembre 2015 da Sunday @EliSundayAnne

Avevo bisogno di cambiare aria. Non sopportavo più niente: le persone, i profumi, il posto. E così, dopo l’ultimo tour e qualche giorno di puro stress per cause sentimentali – lo stress, nella mia vita, arriva sempre da quello 😀 -, mi sono guardata allo specchio e ho detto: “Ma io sono andata via dall’Italia per avere questa faccia qua?”. Non ero più io, o meglio, non ero ciò che sono quando sono felice.

– Rajasekhar, trovami il volo più economico per andare via dall’Oman per una quindicina di giorni.
– Bombay
– Il mio visto per l’India scade il 17 dicembre
– Teheran
– Emetti il biglietto.

Il visto non ho avuto tempo di farlo, e così sono partita senza. Prima, però, ho fatto una chiamata all’Ambasciata iraniana a Roma per sapere se l’avrebbero rilasciato all’arrivo in aeroporto a Tehran, come qualche anno fa. Sono già stata un paio di volte in Iran, da sola, nel 2012 e nel 2013, la prima volta per piacere, la seconda per un colloquio di lavoro. Entrambe le volte feci il visto all’arrivo, rischiando che mi rispedissero a casa: il rilascio del visto è a discrezione loro. Mi hanno risposto di andare tranquilla che secondo loro me l’avrebbero rilasciato, e che oggi lo rilasciano addirittura di 30 giorni e non solo di quindici come allora.

E così eccomi qua, all’Aeroporto Internazionale Imam Khomeini, dove mi obbligano a fare un’assicurazione medica da 15 euro, ora obbligatoria, perché non ho stampato la mia assicurazione sanitaria internazionale (nel tablet non vale, mi sento rispondere).

Poi mi danno il solito modulo da compilare, in cui devo scrivere il mio sponsor in Iran, o una prenotazione alberghiera. Il mio sponsor è Maryam, la mia amica iraniana che mi ospiterà a Tehran, che conobbi la prima volta che venni in Iran grazie al sito Couchsurfing.com. E’ lei quella che, qualche giorno fa, mi ha detto via messaggio “Basta soffrire: prendi la tua roba e vieni qui subito.”

Detto, fatto.

Anche il mio amico iraniano Amir, che oggi vive a San Francisco grazie alla vincita di una green card, è stato perentorio: “Basta paesi arabi! Basta arabi! Se fossi lì non sai cosa ti farei, mannaggia a te! Via dall’Oman, e poi comunque baby (lui chiama tutte baby, quand’è protettivo) cosa aspetti a trovare un posto in cui stabilirti e startene in pace?”.

Quando l’aereo della Air Arabia si alza in volo mi sento già meglio: è quella sensazione di andare via, quella libertà che ti prende al cuore, anche se la libertà, in Iran, è un concetto diversamente interpretabile: prima di scendere le donne iniziano a sistemare i capelli sotto l’hijab, e così faccio anch’io, anche se mi volano da tutte le parti e, mentre loro sono tutte bellissime, io sembro mia bisnonna Petronilla quando stava in cascina.

Muscat dall’alto

Ma non divaghiamo.

Dopo un minuto mi sono ritrovata a compilare in inglese il modulo di un paio di signori omaniti – vestiti non coi sensuali dishdasha e turbante ma con pantaloni a zampa di elefante e scarpe da ginnastica per ripararsi dal freddo iraniano – che non sapevano cosa scrivere, a cui si sono accodati degli asiatici che non capivano cosa avrebbero dovuto scrivere neanche loro. Risultato: mentre l’addetto ai visti mi guarda con sguardo torvo, io sono seduta su una sedia coi moduli degli altri in mano, a scrivere Abdullah Mohammed professione businessman. E mi scappa da ridere.

Lascio il modulo, e si allontanano per chiamare la mia amica. Poi mi chiede quanto voglio stare, dico tredici giorni, mi fa un visto di quindici, pago 60 euro e mi restituiscono il passaporto col mio visto sopra, senza neanche chiedermi le due fototessera, ma con un sorriso di benvenuto: “Welcome to Iran.”

Prendo le scale mobili per andare a cambiare dei soldi, e quando scendo mi imbatto in una ciurma di donne anziane in chador dal Pakistan, accompagnate da un paio di signori in camice pachistano tutti ingioiellati, anche nel copricapo, che sembrano santoni indiani. I due cercano di far scendere le donne sulle scale mobili, ma queste hanno paura e la scena è la seguente: uno che ne tira una dal braccio, l’altra che dice “NO!!” tenendosi al corrimano, uno che ne convince un’altra e la portano sotto in due, uno sul gradino in basso, uno in alto, e lei in mezzo con gli occhi chiusi, mentre ride a crepapelle, e io con loro.

Il taxi sta sfrecciando per il traffico di Teheran, e mi sento un po’ a casa: il cielo plumbeo da neve, lo smog a renderlo ancora più grigio, macchine sporche, macchine stipate, donne in chador, bandiere dell’Iran, ritratti di Khamenei, foto di Khomeini, immagini di martiri, passi svelti, make-up pesante.

E io sono felice.

Avrei potuto accontentarmi, ma è così che si diventa infelici. (C.Bukowski)

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Un’ora e mezza e sono a Teheran nord, a casa di Maryam: il samovar per il tè è già sul fuoco, il pane è caldo, il letto senza il lenzuolo di sopra, ma solo con due coperte di ciniglia, è pronto per un lungo sonno ristoratore.

Stamattina mi sono svegliata alle sette, il cielo era azzurro, Maryam era già uscita per andare al lavoro, la sua giacca era sul divano, pronta per essere indossata da me in questa fredda mattina iraniana.

Mi è tornata la voglia di scrivere.

Il viaggio cura.

Le amiche curano.