Viaggio senza fine racconto di Adriana Pedicini

Creato il 12 settembre 2013 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr

“E che ca**o!” un urlo uscì di botto dalla chiostra sconnessa dei denti anneriti dalle troppe sigarette. Un prurito enorme lo aveva costretto ad affondare le unghie indurite nella carne fino a farla sanguinare. Nel dormiveglia ancora non capiva se apparteneva al suo corpo tutto questo prurito o a quello che ormai restava del suo sarcofago. Prese una ciabatta nel vano tentativo di schiacciare qualche cimice o altro lurido insetto in agguato.

Si girò e rigirò nella brandina ed ebbe schifo del suo compagno di cella che aveva il gusto orrendo di pisciare sulle pareti tracciando chissà quali improbabili disegni. Gli disse di smettere e che usasse la latrina. Ne ebbe in risposta un calcio in bocca che gli mandò giù un incisivo già traballante nella sua sede.

Rimpianse per un attimo, come riscosso alla coscienza per una improvvisa luce, i tempi in cui ogni sera raccattava per strada cartoni abbandonati per farne il giaciglio personale da quando aveva preso a vivere in strada, lasciando la casa in cui - lo aveva capito - non c’era più disponibile per lui neppure un centimetro quadrato che non fosse occupato da lei.

Sparse a terra guepiere bordate di trine, boccette di profumo rovesciate, scarpe di ogni tipo e colore. Puzzava di marcio questa eccessiva cura di sé, questa voluttà di apparire la tigre aggressiva dal cuore tenero e compiacente. Anche perché non era lui il destinatario di tali soavità. Il colmo fu quando trovò sul suo comodino, -non capì mai se volutamente lasciata o frutto di sbadataggine- la foto di un lui in una piccola bustina di plastica con su scritto Dott. Avv. A. Z.

Una colata di emozioni rabbiose scese dentro di lui da capo a piedi per poi lasciarlo in uno stato di prostrazione indicibile. Si sentì affiorare sulla pelle il tante volte provocatoriamente sbandierato orgoglio maschile. Ne ebbe paura lui stesso, temette un gesto insano che gli potesse recare giustizia immediata, diede una testata al muro, corse in bagno mettendo la testa sotto lo scroscio gelido del rubinetto. Si guardò pietosamente allo specchio, gli passarono davanti agli occhi le immagini tutte della sua vita fino a quel momento. Trattenne con grande sforzo la voglia di urlare e di spaccare tutto, la tensione nervosa gli provocò un collasso.

La testa ancora gli girava, era pesante; riuscì tuttavia a raccogliere dentro una ragionevole decisione le sue energie residue. Senza prendere nulla, anzi lasciando persino i suoi effetti personali, si chiuse alle spalle la porta di casa avendo deciso una volta per tutte di troncare i ponti col passato. Vagava ormai senza meta come spinto da una strana forza, da una volontà ossessiva di andare via, di andare oltre, lontano. Solo un viaggio continuo e incessante l’avrebbe potuto condurre lontano da sé, dalla sua sofferenza interiore, dal suo smacco come uomo e come marito.

Quel giorno aveva preso l’ultimo treno, come ormai faceva da anni, pagando il biglietto con i pochi spiccioli raccattati all’angolo poco distante grazie all’elemosina di frettolosi e distratti passanti

Si era trovato catapultato in una grande piazza, dove un via vai di gente di diverse razze, dalle facce ebeti più della sua -pensava- non faceva altro che andare avanti e dietro come automi impazziti. Tutto quel brulicare, quel vocìo, quelle risate scomposte, quel fervore di vita gli dava ai nervi come quell’insegna di Illy-caffè che sinistramente svettava sul palazzo più alto della piazza. Non voleva vedere nessuno, voleva stare solo. Pensò di andarsi a seppellire nel sottopassaggio. Peggio. Il puzzo dell’urina che i cani leccavano come acqua pura e i resti di cibo sminuzzato che donne, uomini e bambini raccoglievano nel fondo di luride ciotole gli diedero il voltastomaco e stette ad un punto dal vomitare. Più in là corpi deturpati da antiche malattie e volti stravolti da alcol e droghe di pessima qualità creavano come una via Crucis di dannati destinati a condividere la sofferenza del Golgota tra l’indifferenza della gente comune. Molti di essi non avrebbero visto l’alba schiarire il cielo del giorno successivo.

Il vento sibilava incuneandosi nel tunnel come in una corsia preferenziale diradando almeno in parte la cappa di effluvi maleodoranti. Decise di tornare su, almeno avrebbe respirato meglio; a notte fonda sarebbero rimasti a girovagare solo i soliti bastardi in cerca di avventure o accomunati dalla voglia di fare qualche rapina -bel colpo- senza correre rischi.

Non si sarebbero curati certo di lui poveraccio senza neppure una lira.

Aveva fatto male i conti.

Seduto e poi sdraiato su una panchina ai bordi della piazza, poco a poco si era abbandonato al sonno più per la stanchezza che per il piacere di una buona dormita All’improvviso si sentì prima strattonare e poi tirare per i piedi fino al punto che di scatto si ridestò. Capì di aver occupato un posto fisso, già ricovero notturno di un giovane sbandato che dopo aver praticato i suoi riti serali andava lì a far decantare il suo sangue di tutte le tossiche sostanze, sdraiato semimorto senza un cencio che gli coprisse il corpo. E dire che l’aveva notato avanzare col passo traballante e soprattutto lentissimo, fermarsi di tanto in tanto come per dondolarsi su se stesso. Non aveva calcolato il tempo, non sapeva che, trascorsi i minuti necessari a ricoprire il breve tratto, i passi avrebbero condotto lì il giovane, proprio a quella panchina.

Trascorse il resto della notte alla meno peggio sdraiato alla stazione ferroviaria su una panchina di granito, troppo fredda e dura per un sonno ristoratore. Dormì agitando braccia e gambe in quell’improvvisato letto. Non era abituato a quelle anguste superfici. Si ritrovò a terra, la testa dolente e un sopracciglio spaccato. Ebbe un sussulto. Era stordito, non ricordava più dov’era.

Vide davanti a sé un’ombra, un’immagine strana. Non vedeva bene, forse a causa del sangue gocciolato nell’occhio. Si risedette, si rialzò mille volte. Era sconvolto, non capiva. Gli giravano gli occhi, la testa, i vagoni e i palazzi. Tutto gli sembrava mostruoso e nemico.

Soprattutto lo innervosiva il fatto che le braccia, per quanti pugni dessero all’ombra, sempre ricadevano inerti, senza riuscire a scacciarla. "Ho bisogno di muovermi” pensò, “devo andarmene di qui, non posso rimanere neppure un minuto, non posso darla vinta a questo diavolo che m’insegue”.

Per poco non si fracassò la caviglia salendo d’un balzo sul treno che si era appena avviato, un attimo prima che le porte a soffietto si sbarrassero ritraendo l’ultimo gradino.

Sedette in un angolo dello scompartimento quasi vuoto. Grondava sudore e dolore.

Il cuore era ancora pieno di amore e di donna, la sua. La mente no.

“Ca**o, perché sono su questo treno? dove va, dove vado adesso?”

Si guardò intorno; nessuno, neppure un’anima viva. Per un attimo. Di lì a poco una straniera, di pelle olivastra, dalla gonna sgargiante, coi seni costretti in una blusa troppo attillata si sedette alle sue spalle.

" Chi sarà questa baldracca", pensò. "Quasi quasi me la spasserò stasera con lei; non farà mica storie. Con quella faccia di merda avrà fatto scuola a chissà quanti giovani e deliziato chissà quanti vecchi rimbambiti". - Avrò tra le mani almeno un po’ di quello che era mio e me l’hanno scippato".

Si alzò percorrendo guardingo il breve spazio che separava le due poltrone del vagone, si sedette proteso a intessere un qualche dialogo.

Appena le fu accanto la pur non troppo linda signora si ritrasse al puzzo che l’uomo ormai emanava. Non toccava acqua da parecchio.

Il fiato fetido rantolando su dai bronchi costipati dal catrame veniva fuori con zaffate nauseabonde.

Con un ghigno malefico la donna gli ordinò di non starle addosso, di andarsi a sedere a un altro posto.

La mente andò in corto circuito. Si vide di nuovo accerchiato dal fantasma traditore, da un’ombra scura che in forma di corvo lo accompagnava svolazzando fuori dal finestrino battendo il becco contro il vetro lurido.

Non tollerò questo ennesimo affronto. Non distinguendo più tra il nero corvino dei capelli di sua moglie e il rossiccio impastato di striature bianche della sconosciuta, né ricordando più l’aspetto dell’una e dell’altra, protese il braccio sinistro e facendo una torsione del corpo la strinse alla gola fino a farle uscire gli occhi fuori dalle orbite.

Le sputò sul viso e si dannò nel tentativo di aprire le portiere del treno in corsa. All’arrivo del controllore e della polizia di bordo non seppe pronunciare una sola parola ma solo emise grugniti di rabbia e uno strano riso disperato. Non oppose resistenza, si fece stringere le manette ai polsi. Finì in carcere. Si sentiva un vincitore, aveva ormai sconfitto per sempre l’ombra che gli toglieva l’aria, la bestia rivale nera e oscura come la notte che di tanto in tanto gli faceva visita. Eppure mai come in quel momento il cielo attraverso la grata del lucernario gli sembrò piccolo e lontano. Il viaggio da sé era stato troppo breve oppure aveva sbagliato la meta. O forse il modo.


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