Viaggio senza navigatore – METRO C

Da Dedalus642 @ivanomugnaini

Niente sconti, nessuna scorciatoia, quella di Metro C di Alessandro De Santis. Una poesia lasciata decantare a lungo, con la consapevolezza che niente cambia. Nessuno ottimismo gattopardiano o da astuto camaleonte concede, ci concede e si concede De Santis. Questo suo libro è stato scritto in vari anni di accumulazione e limatura, osservazione e cancellazione, taglio delle immagini che entrano dentro a forza, sfondando le porte degli occhi. Non resta che aprirli ancora di più, trasformando le lenti in cannocchiali. Il filtro, la discriminante, resta la parola. Per mettere a fuoco, nel senso letterale del termine, la realtà. Farla stillare goccia a goccia, e poi arderla di coraggio, l’acqua, la benzina, il sangue, i liquidi mai puri, mai sterilmente limpidi, sempre sporchi di verità scomode. Perché lo sguardo sulle mani dei diversi, degli esclusi, dei randagi, urla e cola sangue scuro.
Sono i sensi a dare sostanza a questa poesia. L’olfatto, gli odori, i suoni animaleschi, lo sguardo accecato e mai fintamente cullato “tra polvere e zanzare”. Si ferma dal lato più esposto della strada, De Santis, lì dove l’ombra lacera e non carezza e dove perfino la pioggia “picchia forte pesa, fa male/ bussa con nocche robuste/ alla porta di chi si dovrebbe vergognare”.
Versi brevi, pennellate secche, perché niente di ciò che è annotato possa scivolare via con rapida inconsistenza. Tutto deve raggrumarsi, aggrappandosi alla tela, alla polvere e a quella luce densa di pulviscolo in cui accadono le cose vere, quelle tenacemente e ineluttabilmente intrise di umana imperfezione. Perché nelle stanze autentiche lontane da artefatti riflettori, “grugnisce l’emozione” e “anche le (…) sillabe puzzano”, là dove la verità sono “mesi che non si lava/ anni che non mangia dentro a un piatto”. Nei versi di questo libro “la lingua lastricata di stazioni di carne”, emerge, grida, sussurra con vigore penetrante. Una via crucis laica, come ha rilevato Lorenzo Mari in uno dei commenti ai testi tratti da Metro C pubblicato in Nazione Indiana. Gli stessi che ripropongo anch’io, qui di seguito. Il libro è arricchito dalla nota di Aurelio Picca, essa stessa poesia in forma di prosa, un’interazione profonda, uno spunto per riflettere e creare sullo stesso tema, gli stessi colori, le stesse istantanee viste con l’affinità dell’occhio, del tempo, della memoria del presente e del passato e di quel tempo indefinito che è lo spazio delle idee. Pubblico volentieri anche la nota di Aurelio Picca. Un invito ulteriore alla lettura di questo libro scomodo per necessità, non per sfoggio o per abile scelta. Scomodo per la volontà controcorrente di mostrare che dietro le pubblicità, al di là dei manifesti e delle strade asfaltate punteggiate da comodi distributori ci sono altre realtà, ci sono luoghi, e case, e occhi, e istanti in cui il gioco finisce prima di cominciare, “appena cala il sole” e “le donne vanno a casa/ in ritirata,/ attente a attraversare sulle strisce”. Il gioco degli sconfitti, eternamente perduto, senza nessuna speranza di rivalsa o di un nuovo inizio. Un solo palcoscenico, una sola scena, girata male, da chissà quale regista. Con la sola certezza che “si passa per la porta/ nel chiuso, uno alla volta/ ciascuno col suo groppo/ ciascuno il suo rancore/ (…) con la polo/ macchiata di sudore”. Un tour panoramico lento, senza pausa per lo shopping, senza barzellette, senza sfilata davanti alle vetrine dei negozi rutilanti e improbabili, questo libro di Alessandro De Santis. Un giro a piedi, con i sensi aperti, spalancati, nelle strade e nei quartieri in cui, in genere, passiamo solo in macchina, a tutta velocità, quelle volte in cui il navigatore non funziona e ci perdiamo. IM

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testi tratti da
METRO C

di Alessandro De Santis

Borghesiana
Ore 20,50. Nella folla. Spaurito. Pericoloso
Cammina senza sosta, Claudio
sempre la stessa musica
a cui hanno tolto l’audio
Grugnisce l’emozione, Claudio
anche le sue sillabe puzzano
mesi che non si lava
anni che non mangia dentro a un piatto
Suo padre ha scelto sua sorella
e sua sorella il padre
Sua madre invece non ha scelto proprio nulla
La pioggia su Claudio quando
picchia forte, pesa, fa male
bussa con nocche robuste
alla porta di chi si dovrebbe vergognare.

***

Giardinetti
Ore 16,30. Al sole tra polvere e zanzare
Su una panchina
nel parco a pochi passi
c’è la signora Ida
seduta, ferma immobile
Lenta come un pavone
muove l’unghia pittata ad indicare
com’è che vuole il taglio
allegra la romena
le apparecchia intorno al collo
le guance un po’ arrossate
La gita fuori porta è cominciata
la tavola imbandita, anche stirata
Si gioca a fare i ricchi, pomeriggio
ché appena cala il sole
il gioco finisce
le donne vanno a casa
in ritirata,
attente a attraversare sulle strisce.

***

Alessandrino
Ore 23,48. Sbeffeggiare Jonkind lo sciocco.
Profumi sofferti
La lingua lastricata di stazioni di carne
muta e da brodo
salate le lacrime, avvolte nello spago
spesso, vinto nel nodo
nell’abbaglio del fitto
che assale una rinvenuta
frontiera di punte di spillo e mosche.

***

Tomba di Nerone
Ore 08,20. Saliscendi. Velleità pensionabili
Al monte dei pegni
la fila esce dal muro
la conta non ha primi
ma ultimi a decine
Si passa per la porta
nel chiuso, uno alla volta
ciascuno col suo groppo
ciascuno il suo rancore
e Walter con la polo
macchiata di sudore.

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NOTA

Non so più cosa sia la poesia. Sarà che da ragazzo
l’ho cercata come una preghiera o una punizione che
mi facesse male. Oppure mi rendesse invisibile, non
per sparire ma per ripararmi da un mondo di anime
morte eppure provviste di forma, liquidi, pensieri.
Non volevo essere il migliore, non avevo ambizioni, se
non quella di scrivere il mio nome senza il tremore del-
la mano: in realtà la maggiore delle ambizioni. Però
quando la poesia c’è, nel senso che contiene quel poco
di vita che si fa poesia, non vorrei ma ci inciampo so-
pra perché in petto mi monta un frastuono di battaglia:
un urlo muto epperò di ossa frantumate e di sangue
scolato come piscio agli angoli dei muri.
Alessandro (De Santis, metto il cognome tra due
fette di pane perché un poeta, sì, tiene alla memoria,
ma di più ha urgenza del nome suo per costruire la
propria, irripetibile leggenda – assumendosi il rischio
della sconfitta) si prende amorevole cura di incendiare
le polaroid.
Le poesie da lui messe a mangiare dentro scatolette
di conserva, come se le parole fossero cadaverini paso-
liniani, pure spuntati da trincee ungarettiane, rassomi-
gliano molto a delle polaroid non pop, bensì sporche
di fango e ringhiere arrugginite che un tempo, tra i
Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, dividevano in
borgate (le famose Borgate!) la periferia di Roma che
sbatteva a Sud sotto le capocce dei Colli Albani chia-
mati anche Castelli Romani. Polaroid di conserva e fi-
lo spinato che, comunque, fanno i conti con un tempo
precipitato in un’eternità dove si aspettano e abbrac-
ciano sereni flagellati e flagellanti.
Alessandro conta i minuti e le ore per fare i suoi
scatti in mezzo a codesto territorio geologico, umano
e circense. Lo fa calmo. Senza ingerire psicofarmaci.
Scatta e strappa le polaroid che gli giungono in mano
con lentezza rituale, giacché indossa l’abito del sacer-
dote e la coroncina di fiori appassiti della vestale. La
mole di fango umano, urbano; lo schiattamento delle
culture; le scorregge dei nuovi dannati che non usano
più dentiere bensì impianti e perni di acciaio conficca-
ti nell’osso: sono ritratti con la calma di un poeta che
conta i secondi che ci separano dal nulla. Lo fa con la
grazia di un antico arrotino chino sulla mola, o con lo
zinale di un pizzicagnolo appena striato dalla bava ro-
sa di una pancetta di maiale fresco.
Alessandro scatta e strappa; strappa affinché la poe-
sia cali l’asso quando il sipario è giù. Ecco allora la fir-
ma del Poeta. Grazie ragazzo. Grazie per il “ventoso
vicolo di un tempo”.
Aurelio Picca



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