Invece le cause profonde della crisi riguardano il lungo periodo, e sono diverse da quelle della crisi degli anni Trenta. Sia i keynesiani che i liberisti trascurano la differenza fra le due crisi. Per questo sono prigionieri della stessa contrapposizione di allora. I liberisti credono che un aumento della concorrenza basti a stimolare gli investimenti e l’occupazione. Ma senza domanda sufficiente non ci sono investimenti. I keynesiani sanno che è necessario aumentare la domanda, ma trascurano il fatto che proprio l’aumento della domanda improduttiva ha generato la crisi attuale.
Dopo la guerra la formula del deficit spending si coniugò – con grande successo – con le istanze sociali di una più equa ripartizione della ricchezza. Così, la sua applicazione fu estesa al lungo periodo. Il Welfare consentì la vera uscita dalla crisi che era iniziata negli anni Trenta. Esso aumentò la domanda attraverso l’aumento dei consumi dei ceti popolari; mentre la scolarizzazione, le case popolari, la sanità per tutti accrebbero enormemente la produttività del lavoro.
Tuttavia, alla fine degli anni Settanta, dopo un quarto di secolo di crescita quasi ininterrotta, la domanda tradizionale iniziò a saturarsi. Questa è la causa profonda della nostra crisi. I liberisti affermarono subito che essa era dovuta al deficit spending. Dagli anni Ottanta in poi essi ripetono che basta tagliare le spese del Welfare per riattivare la concorrenza e risolvere la crisi. E con questa logica – ha ragione Krugman – hanno già rovinato Irlanda e Grecia, e stanno per rovinare Spagna e Italia.
È vero che anche l’attuale saturazione dei mercati si presenta come scarsità della domanda, come negli anni Trenta. Ma allora la domanda era scarsa perché il potere d’acquisto dei lavoratori era insufficiente. Il deficit spending servì ad accrescerlo. Negli anni Ottanta invece la domanda è calata perché i bisogni tradizionali erano ormai soddisfatti. Si è creato quindi un eccesso negli investimenti dei beni tradizionali (non una carenza, come negli anni Trenta).
In questa nuova situazione, il potere d’acquisto che non si dirigeva più ai consumi tradizionali, doveva essere dirottato verso il consumo di nuovi beni, che potessero soddisfare nuovi bisogni. Erano necessari investimenti in nuovi settori. Ma questa via era difficile. Richiedeva una grande spinta innovativa; proprio quando tutti – imprese, sindacati, pubblica amministrazione, politici – si erano abituati alle erogazioni dello stato a sostegno della domanda, e difendevano questi sussidi. Toccava quindi allo stato programmare e cofinanziare l’apertura di nuovi settori (che possono rilanciare davvero la concorrenza). Ma ciò fa orrore ai liberisti, i quali non distinguono tra interventi pubblici a sostegno della domanda e interventi per investimenti produttivi. Essi continuano a chiedere, semplicisticamente, “meno stato”.
Tutto ciò portò a scegliere un’altra via: si continuò a produrre i soliti beni, forzando la domanda in mille modi (dalla pubblicità, sempre più martellante, alla moda, sempre più incalzante; dalla rottamazione forzata all’uso di materiali più deteriorabili). Ma ovviamente ciò non risolve la situazione. Perciò i capitali in eccesso cercano all’estero un impiego produttivo; oppure vanno verso la speculazione e le rendite improduttive. Il risultato è la disoccupazione dilagante e il debito pubblico incontrollabile.
[1] Pubblicato nel 2012 da Norton & Co., New York-London (c’è anche una traduz. italiana da Garzanti).
[2] V. cap. 2.
[3] V. cap. 13.
[4] A p. 2.