Caro uomo senza infamia e senza lode, senza nome né futuro, senza un passato da ricordare, senza un presente da vivere… Caro uomo di inizio Ottocento, ti scrivo per lacerare la distanza temporale che si frappone fra la mia vita di donna del terzo millennio e la tua esile figura aggrappata a pagine stinte e altrettanto fragili. E non so se rivolgermi a un’anima o a un mucchietto di cenere, non so come immaginarmi un viso che emerge dal buio di una cella e mi viene incontro, urlando un bisbiglio di sdegnosa disperazione… Non so come rispondere a quella che mi sembra una richiesta d’aiuto mai esaurita, neppure nel momento fatidico di una morte talmente istantanea da poter essere definita dolce. Mi siedo comoda nell’angolo della nera ignoranza, e sei tu che mi illumini donandomi la potenza delle ultime parole che hai plasmato sulla terra in cui respiravi, camminavi, vivevi. Sembrerà assurdo, ma il compito più difficile spetta a me: potrei schivarlo ammettendo di non essere adatta a rivestire il ruolo di bizzarra amica di una penna morta, ma non posso frenare l’egoistica presunzione di farti rivivere, ancora per pochi fiati, attraverso la mia scrittura. Forse questa risposta non è ciò cui aspiravi nelle ultime ore della tua permanenza nel mondo, ma darà almeno l’amara consolazione di rinvigorire un lascito non meritevole di cadere nello spaventoso nulla. Devi sapere che anche io sono stata perseguitata dall’infernale pensiero della tua morte imminente, fin dalla prima riga dei tuoi scritti, quella in cui ripetevi a te stesso l’attributo che da qualche tempo aveva sostituito ogni altro tuo connotato, fino a negarti l’identità: condannato a morte… Un brivido gelido che s’insinua nelle vene e blocca cuore e stomaco, così come il peso gravoso che tu sostenevi, già scontando la condanna mentre attendevi l’esecuzione della stessa. Il corpo vulnerabile e “miserabile”, la mente imprigionata in un’idea, e la sensazione di sentire una voce che piano nell’orecchio ti ricordava senza pietà il tuo destino.
Vedo la cella attraverso gli intermittenti raggi del sole che ogni tanto tu ti soffermavi a guardare, quel sole che aveva illuminato con smodata vivacità il mattino in cui cominciasti ad essere un deambulante uomo morto; e ti chiedevi se fosse mai stato possibile pronunciare una condanna a morte diversamente che a mezzanotte, alla luce delle fiaccole, in una sala buia e nera, in una fredda notte di pioggia invernale… Riandavi con la mente a quei momenti, arrendendoti non appena iniziavi a cercare un nesso causa-effetto tra gli eventi, e rendendoti conto dell’inutilità di qualsiasi ragionamento, ma fantasticando comunque su un possibile effetto di purificante educazione per i posteri, quei fantomatici posteri cui un po’ tutti gli scrittori, improvvisati o professionisti, a un certo punto della loro esistenza arrivano a pensare. E l’avresti davvero sbattuta la testa contro il muro, punendoti per la sciocca presunzione di aver macchinato il progetto inutilmente utopico di donare ai giudici del futuro un’eredità morale. Se mi sforzo, socchiudendo gli occhi per paura di non reggere alla vista di un simile spettacolo, riesco a scorgere la disumana parata dei prigionieri ferrati e nudi sotto la pioggia in mezzo a un cortile; se mi concentro, sento la melodia lontana di quella canzonetta dolcemente funerea che pareva la risposta di Dio alle tue preghiere per un suono che ti allietasse le orecchie. Bicêtre era la tua prigione, ma un po’ tutto era prigione intorno a te: la prigione è una sorta d’essere orribile, completo, indivisibile, per metà casa, per metà uomo… Ti sentivi una preda, tu, stretta in una morsa, sorvegliata da occhi di ferro.
Provo a trasfigurarmi per valicare il muro che ci divide e sedermi accanto a te, assumendo le parvenze di una creatura a te gradita; ma cosa potrei dirti? Cosa, che non sembri convenzionale o artificioso, come le parole prive di affetto e generosità di un prete atono, piatto, esecutore di un’insipida elegia teologica? E poi sento ogni forza mancare mentre assisto, da invadente spettatrice, all’ultimo incontro con tua figlia, la tua piccola Marie, e crolla ogni mia sicurezza di donna emancipata del terzo millennio, quando mi rendo conto che non posso fare niente per soccorrere te che cominci a morire poiché Marie non ti riconosce più. Sei cambiato, ti hanno cambiato. Non sei più nessuno agli occhi di lei, e presto non sarai più nessuno agli occhi del mondo intero. Ti sono vicina, piccolo uomo, come uno scudo che ti protegge da una folla curiosa e colma d’odio, accorsa per godersi lo spettacolo dai posti migliori. Ti sono vicina, ti prendo per mano. Sono passati secoli, ma ancora ci ritroviamo impotenti di fronte all’assurdità di simili decreti. Ancora ne discutiamo, ancora c’è qualcuno che accenna a Cesare Beccaria. La nebbia ottenebrante stordì i tuoi sensi, allora, e poi ti abbandonò, per andare a posarsi su migliaia di altri uomini. È sempre lei, sempre la stessa, consolatrice suprema e invisibile agli occhi di chi ammira, godendo prima di un dolore più grande, lo spettacolo della morte.
Addio caro uomo, colpevole di un qualche delitto, nell’innocenza dell’essere al mondo.
Questa lettera-recensione è riferita a L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo, scritto nel 1829 e da me recentemente letto nell’edizione Oscar Mondadori (traduzione italiana di Franca Zanelli Quarantini). Suggestive le corrispondenze che ho riscontrato con Lo straniero di Albert Camus, di cui voglio riportare uno stralcio di quella che, a parer mio, è la pagina più bella: «E anch’io mi sentivo pronto a rivivere tutto. Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché io mi senta meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio».
L’immagine di copertina è tratta dal film Un condannato a morte è fuggito (1956) di Robert Bresson