Victor klemperer:Neapel im Frieden- Napoli in tempo di pace

Creato il 19 luglio 2010 da Chiaramarina

Napoli in tempo di pace

Quanto avevo sempre erroneamente affermato riguardo i miei primi anni di università in quel momento divenne reale: potevo davvero fare un viaggio di nozze con la mia vita. E non si tratta di una forte idealizzazione o del solito sentimento che spesso si prova all’inizio di un viaggio. Di sicuro, una siffatta beatitudine non l’ho mai provata così intensamente come l’8 gennaio quando partii da Bordeaux per Marsiglia. Lì non c’era nulla da fare e, almeno all’inizio, neanche molto da vedere. C’erano tutti i presupposti per un paragone tra il mio attuale viaggio in Italia e quello del 1905; questo paragone mi riempì di gioia e giurai a me stesso che stavolta avrei vissuto con la dovuta riconoscenza ogni attimo e che avrei assaporato ciò che ogni ora mi avrebbe donato.

È ovvio che una tale esplosione di sensazioni non sia stata continua e che pian piano si sia attenuata. Infatti ci furono piccoli o grandi avvenimenti che potevano infastidirmi, ci sono furono dei turbamenti, come la nuova espressione dialettale, a cui mi abituai pian piano e che era l’esclamazione preferita dei napoletani: “Nu guaio!”[1]. Quest’espressione significa letteralmente “È un guaio” e i napoletani la utilizzano per parlare ad esempio di tragici avvenimenti. Temevo che qualche guaio avrebbe potuto condizionarmi negativamente e che, in questo modo, avrei potuto correre il rischio di diventare insensibile a quella bellezza che si sarebbe potuta presentare quotidianamente dinanzi ai miei occhi. Solitamente mi spostavo col tram, che dal centro della città portava al porto; appena il tram raggiungeva il porto, mi appariva il Vesuvio in tutto il suo splendore. Per settimane mi adiravo con i passeggeri che non distoglievano lo sguardo dal giornale neanche un secondo, anche se poi io stesso caddi nella stessa tentazione, aprendo il giornale due o tre volte. D’altronde la vita va così,  ma posso dire con certezza che  non c’è stato mai un giorno in cui, anche se ero di malumore, la mia felicità non si rinvigorisse.

Consapevole tanto della felicità quanto del guaio, la rubrica del mio diario aumentava continuamente con le descrizioni del panorama, degli edifici e delle opere d’arte. Nonostante ciò ero sempre occupato, poiché non facevo solo un viaggio di formazione, ma dovevo svolgere un dovere che, per un lasso di tempo mi prese molto, e inoltre dovevo occuparmi del mio Montesquieu[2], perciò alcune volte non potevo prendere gli interessanti appunti e le note su ciò che vedevo e sentivo.  Sebbene sapessi di dover far mia ogni nuova esperienza, ne preparavo la descrizione per iscritto solo per sentire l’amaro in bocca di un sentimento di malessere e di inferiorità; non mi è mai sembrato di cogliere una certa corrispondenza tra ciò che descrivevo e ciò che effettivamente vedevo in un quadro. La sera dell’escursione a Paestum annotai quanto segue riguardo al Tempio di Nettuno: «Mi piacciono questi ampi portali; la loro bellezza è simile a quella del cimitero monumentale  del Père Lachaise». Mia moglie leggendo ciò, un paio di giorni dopo, mi rispose che tutto questo non corrispondeva a verità: «La grande porta del cimitero monumentale è un trapezio regolare, mentre il colpo d’occhio del Tempio di Nettuno dà questa idea perché le sue colonne si ispessiscono verso il basso». In tutti questi mesi ho avuto molto a che fare con la persona di Benedetto Croce ed anche con la sua dottrina: per questo fui sempre più incline al suo principio base sull’Estetica, secondo cui intuizione ed espressione sono la stessa cosa, tuttavia solo ciò che si esprime corrisponde a ciò che si vede. Questa affermazione non è che mi abbia mai convinto molto; ora direi che tutt’al più l’affermazione stessa sia giusta nel momento in cui si considera il punto di vista strettamente relativo all’artista ma, comunque in generale, non condivido in pieno la sua affermazione, anzi trovo che sia un po’ spinosa. Mi sforzavo sempre di più di vedere e di  descrivere. Alla fine del primo anno a Bologna  – durante il secondo l’estetica passò in seconda linea rispetto al diritto – mi cimentai con l’ultima sfida riguardante questo argomento. Cercavo di fissare l’impeto e la semplicità, oltre alle rosse tonalità dei palazzi di pietra delle strette viuzze; ed anche i vasti, imponenti tetti delle case, le decorazioni delle mura traforate, le forme romaniche e bizantine delle finestre; mi chiedevo se si trattasse di puro Rinascimento, se ci fosse anche un’influenza veneziana. Alla fine smisi di scrivere, e attanagliato dai dubbi cercai di rievocare alla memoria, ad occhi chiusi, cosa mi fosse apparso più chiaramente davanti agli occhi in mattinata a Bologna. Lì avevo visto una donna anziana, che era inginocchiata in una chiesa (già non ricordavo più in quale). In quel momento, poiché voleva pregare, sollevò il suo capo chino, sciolse le sue mani giunte e tirò fuori una tabacchiera ed annusò con naturalezza il tabacco. Poi ritornò nella posizione che precedentemente aveva appena lasciato per rimettersi a pregare.

Ora, ovunque vado, per inserire nel Curriculum[3] il mio viaggio di nozze con la vita, voglio rievocare il mio ricordo di Bologna come un avvertimento. Intendo giurare e dichiarare di tacere su palazzi, tempi, musei e chiese e di soffermarmi sulle scatole di tabacco. Per me non è affatto uno sforzo visto che possiedo già una preziosa facoltà di concentrazione.

Il fatto che l’Italia per me cominciasse con la partenza da Bordeaux corrisponde ad una soggettiva e del tutto emotiva divisione delle fasi della vita; tuttavia, in seguito, capii che anche dal punto di vista geografico questa mia supposizione non era poi così ingiustificata. In treno verso mezzogiorno seppi  improvvisamente che in quel momento mi trovavo realmente nel sud. Mi stregava l’ubiquità del grigio sfavillante tra il bianco e l’argento. Le polverose strade maestre, i vigneti impolverati, le case grigie, quasi tutte senza finestre, gli uliveti grigio argentei, tutto era di un grigio abbagliante, anche il cielo si colorava di sfumature argentate e nerastre.

Di sera arrivammo a Marsiglia e rimanemmo lì fino al tardo pomeriggio del giorno dopo. Durante la guerra mondiale si parlò molto delle sorelle latine. Mi sembrava una metafora, più errata che giusta, poiché Francia ed Italia, nel corso della loro storia, per molto tempo, sono state ostili l’una all’altra ed anche il  loro spirito intellettuale non mostra tutta questa affinità. Invece, Marsiglia e Napoli sono proprio sorelle. Non so se sono più sorelle latine, greche o africane. Non so neanche fino a che punto si possa parlare delle analogie, sussistenti tra i paesaggi visti – pensate un po’ ai panorami del giardino zoologico e a quello di Notre Dame de la garde – inoltre, non credo che esista una certa armonia tra le usanze del posto; tuttavia, entrambe sono le città più esotiche d’Europa, luoghi vivaci e zone temperate. Si,  sono sorelle per il loro brulichio. Nella Guida Joanne[4] c’era scritto che nei trasporti tramviari di Marsiglia l’espressione “pieno” non esisteva. Vedevo, intorno a mezzogiorno, dei tram in cui le persone si ammassavano a grappoli anche sui gradini, ricoprivano, come se fossero uno sciame d’api, il respingente a cui erano aggrappati ed intrecciati l’un l’altro: una vera e propria “massa di gente” in cui c’erano persone ben vestite, che, in caso di un incidente, si sarebbero potuti descrivere alla polizia come persone “appartenenti ai migliori status sociali”. Il giornale di viaggio di Montesquieu diceva che il popolo di Napoli è più popolo che altrove, lo stesso avrebbe detto di Marsiglia, se i francesi fossero stati soliti visitare le città del proprio Paese. Monsieur Poincaré  ne fece propaganda la scorsa estate, il Matin a proposito della riunione dei club turistici francesi ha definito quest’ultima importante, quasi come quella degli Stati Generali del 1789. Oltre ai tram pieni, c’era qualcos’altro che  mi ricordava le strade di Marsiglia, ovvero la larghezza della carreggiata delle strade secondarie, colma di rifiuti di verdure e di pesce, che formavano una barricata; parecchi gatti l’ annusavano  e tra i gatti vi erano donne che vi frugavano con bastoni o piccole pale per cercare qualcosa di riutilizzabile. A Napoli ho potuto osservare come quell’espressione di “più popolo che altrove” si riferisse non solo al proletariato, ma anche alle classi sociali più elevate; a Marsiglia mi mancò il tempo per fare un’osservazione simile, poiché dovemmo fare un giro in barca per la città. Il “Saghalien” delle “Messageries Maritimes” era un trabiccolo nero alquanto scomodo, in teoria un vaporetto per la Grecia e la Siria. Gran parte del paesaggio balcanico poteva scorgersi dalla coperta, davanti alla quale era stata ricostruita la vela. Le poche cabine di prima classe circondavano un misero salone dai mobili consunti con una sala da pranzo spoglia. Tuttavia, in questi luoghi freddi si serviva cibo cucinato con molta cura e quando un folto gruppo di passeggeri si allontanò, mia moglie, scusandosi, disse all’ultimo allo steward che eravamo rimasti soli e questi le rispose: «Meglio per voi signora!». Comunque le ore più belle del viaggio furono quelle della mattinata successiva. Abbiamo osservato a lungo la catena montuosa della Corsica, abbiamo costeggiato l’isola d’Elba. Per la prima volta abbiamo visto il colore madreperlato delle coste del sud. Ed ecco un’altra cosa meravigliosa: a Marsiglia portavamo il cappotto e in qualche punto c’erano delle croste ghiacciate; ora, invece, siamo seduti senza cappotto in coperta e ci godiamo una brezza lieve e mite. In seguito prima di pranzo il tempo era peggiorato, così siamo stati percossi da qualche brivido di freddo. Con ansia attendiamo l’arrivo: «Ancora un’altra notte e saremo a Napoli». Ci siamo molto rattristati quando due anni dopo abbiamo visto il “Saghalien” figurare tra le vittime della guerra sottomarina.

La mattina del 2, arrivammo così puntuali che il vaporetto aveva già ancorato in porto quando giunsi in coperta. Non provavo nessuna sensazione di entusiasmo per la “bella Napoli”, non coglievo nulla della sua bellezza, ero solo stordito da un’imprevista confusione, da veri e propri attacchi pirateschi alla mia persona e alle mie borse, da urla atroci che venivano da ogni dove. Successivamente ho imparato a vedere con humour l’arrivo ai porti del sud ed anche a sorvegliare i bagagli una volta arrivati. La prima volta, la peggiore, restai ingenuo e del tutto indifeso di fronte allo scatenarsi di un’orda di ladri di mare ; mentre un tizio mi strappa la borsa dalle mani, un altro afferra la borsa di pelle, un terzo mi prende per la manica, urlandomi qualcosa in faccia, solleva la sua mano sinistra libera, come se mi volesse picchiare: era solo un gesto di invito verso la sua barca. Dopo pochi interminabili minuti, vidi mia moglie e la situazione migliorò – in seguito mi disse che senza di lei io sarei rimasto a bordo – ero veramente mortificato, non soltanto per le scene di terrore provocate, ma soprattutto per la mia totale incapacità di affrontare la situazione.

Verso mezzogiorno mi sentì ulteriormente un pesce fuor d’acqua: bisognava prendere il bagaglio più grande dalla dogana e caricarlo su un taxi, quando uno dei pezzi peggio stipati cadde sulla carreggiata, provocando un ingorgo di persone anche loro urlanti. Una volta giunti alla mèta, nonostante la presenza del tassametro, cominciò la lotta per il prezzo da pagare. In questa circostanza mia moglie ed io non potevamo sostenere il diverbio, così ebbi bisogno dell’aiuto della nostra ostessa che è qui da circa venti anni. Nel momento in cui la donna chiuse la trattativa per il prezzo da pagare e per la mancia, fuggii subito per le grida e feci una corsa pazza verso casa. Solo più tardi riconobbi ed apprezzai la vivacità del fervido napoletano, le minacce e le maledizioni popolari che quella volta sentii pronunciare dalla signora Pastner.

Siamo stati molto fortunati ad aver trovato subito la pensione Pastner, di cui siamo stati clienti fedeli per tutti e due gli anni di permanenza. Al deposito del bagaglio a mano, un simpatico monaco, in un misto di italiano, tedesco e francese ci indicò il tram che ci avrebbe portato nella parte migliore della città; giungemmo quindi a via Partenope, l’elegante strada che costeggia il mare in cui si trovano molti grandi alberghi. La via sbocca sul Largo Vittoria, un gioiello di piazza quadrangolare con molte palme e tantissimi alberi di eucalipto, in cui ogni giorno suonava la banda militare e in cui c’era una sorta di spiaggia. Nel piccolissimo Caffettuccio[5], che divenne il nostro locale abituale, ci ristorammo e prendemmo nota degli indirizzi utili per la ricerca degli appartamenti. Solo più tardi scoprimmo che il nostro caro Caffettuccio di notte cambiava facciadando molto da fare alla squadra della buon costume. In seguito, la pensione Pastner all’angolo fra Largo Vittoria e via Partenope I, ci fece immediatamente una buona impressione, dopo aver visto tre tipi simili di case. Qui, dall’impetuosa e corpulenta signora Pastner e dal suo enigmatico Avvocato, abbiamo trascorso una vita da anfibi, strana ma interessante, mezza a casa, mezza in albergo, mezza da locatari e mezza da membri di una famiglia, mezza da viaggiatori in preda alla tempesta del viaggio, mezza da residenti del luogo; per coloro che ancora non si erano ben integrati c’era un ufficio alla Galleria Cook, in cui gli stranieri potevano richiedere tutte le informazioni possibili ed immaginabili sugli usi napoletani. La monotonia dell’alloggio a lungo termine era spezzata dal continuo cambio di stanza dal piano terra fino al terzo piano. La signora Pastner non solo ci aveva concesso un grande sconto, ma teneva i nostri bagagli durante i periodi di ferie o di festa in cui viaggiavamo – tutto questo a condizione che ogni volta avremmo dovuto lasciare la stanza a disposizione e, al ritorno, avremmo dovuto dormire nella prima stanza libera. Ma ovunque soggiornassimo, sopra o sotto, nelle belle stanze della pensione o in quelle della vecchia ma buona pensione italiana adiacente, che in alta stagione contribuiva con le sue stanze, sia con  vista panoramica sul mare sia sulle radici degli eucalipti sia sul branco di gatti dei vicoletti, si poteva comunque scorgere, sporgendo il capo, quello che considerammo come uno scenario teatrale: Capri e la sua costa vibrante.

Per essere più chiari: non fu la bella Napoli sotto il cielo blu ad essermi rimasta impressa. Non so fino a che punto nella mia immaginazione questo scenario fosse presente da solo o fosse connesso ad altre immagini. No, ciò che vedevo ed udivo, sentivo e gustavo, era la tempesta, che nel mese di febbraio si era scatenata ininterrottamente per ventuno giorni. Ci furono scrosci e rumori così forti, che fuggivamo in città per far riposare le orecchie e per liberarci dal gusto salato sulle labbra; ci fu un vento così forte che una mattina la porta del nostro corridoio sbattè contro il muro. Le onde si infrangevano sul marciapiede della strada.  Non era facile distinguere il rumore dei vetri rotti, dei tuoni, lo sbattere delle porte e cose simili da quello dell’acqua e dell’aria. Ogni giorno le lanterne venivano rimesse in ordine e tutte le sere queste venivano distrutte o staccate. Era tutto così opprimente che si sudava persino dopo aver fatto dieci passi con l’impermeabile all’aperto, mentre nelle stanze si sentiva freddo e le stufe di petrolio vagavano di stanza in stanza, da un angolo all’altro. Queste piccole stufette sono il mio secondo ricordo sensoriale di Napoli. Da nessuna parte, nelle costruzioni in pietra ci si riscaldava diversamente e tali stufe erano accese fino a marzo inoltrato. Per coprire l’odore del petrolio, venivano messi dei rami di eucalipto. Ma i rami profumavano, mentre il petrolio puzzava, non c’era tra i due né una commistione né un annullamento, era come se una narice fosse affascinata e l’altra indignata; mi abituai a questa contemporaneità e non l’ho mai dimenticata, anzi, credo di percepirla ancora adesso mentre scrivo. Le braciere aperte, ardenti, appartenenti alla popolazione meno abbiente, nelle botteghe, nelle casupole, offrirono un pittoresco spettacolo dello scenario napoletano, ma per me l’inverno napoletano sono le stufette di petrolio ambulanti.

Il nostro rapporto con la signora Pastner e il suo personale divenne ben presto molto particolare. Non solo eravamo ospiti di lunga data, ma io ero anche considerato una persona di tutto rispetto, visto che lavoravo per lo Stato e che ero un professore. Di sicuro ogni insegnante doveva presentarsi  come tale, non solo quando teneva una lezione ma anche mentre si faceva lucidare le scarpe. Di professori ce ne erano in abbondanza, ma essere un professore universitario, tuttavia, era tutta un’altra cosa e perciò ci si poteva imporre su tutti gli altri ospiti della pensione. Di solito, all’interno della sala da pranzo, ci sedevamo intorno a uno di quei piccoli tavolini vicino alle finestre e mai alla tavola lunga; la signora Pasner e Pedro facevano sedere con noi quelle persone che, in qualche modo, avevano la stanza più costosa o che avevano intenzione di trattenersi più a lungo.

Come la nostra ostessa durante la prima estate ad Oranienburg[6], la signora Pastner era stata, molti anni fa, una ballerina e, come la signora von Alten, era dotata, in fondo, di una genuina bontà. Tuttavia, la loro somiglianza finisce qui. Un po’ grassa e disordinata, la signora Pastner mancava del minimo contegno; magari le capitava di bisticciare con le domestiche, i garzoni e i negozianti, parlando il suo originario dialetto austriaco o meglio ancora quello napoletano acquisito da più tempo e nonostante ciò, comunque non riusciva ad esercitare in pieno la sua autorità. La sua pensione, in alta stagione,  era strapiena ma le sue finanze non riuscivano mai a trovare pace; prima si lagnava con me, poi mi chiedeva un anticipo, perché quel fornaio o quel macellaio terribile insisteva illecitamente per un pagamento imminente. Era così nervosa che sfociava nell’isterismo e dopo litigi vari, ebbe disturbi con la bile che la costrinsero a trascorrere due giorni a letto, in cui divenne sempre più gialla, anche se ogni tanto riaffiorava il suo malumore. Comunque sia, anche senza aiuti costanti, avrebbe mantenuto la direzione della pensione ancora per molto tempo.

Non so se e quanto questi aiuti provenissero dal vecchio, magro e gentile Avvocato. Non so come si chiamava (so solo “Avvocato”), non so se era sposato alla Pastner, o se comunque li legasse un affetto particolare oppure una semplice amicizia, non so quale posizione ricoprisse all’interno della pensione. Di sicuro, abitava nella pensione, non mangiava alla tavola comune, sedeva a destra e si rendeva sempre utile. Inizialmente, non avendo il passaporto, trovavo molte difficoltà a ricevere un vaglia dalla posta. Al consolato tedesco mi dissero: «Con noi le costerebbe 20 lire, provi tramite l’università»; all’università, invece, mi dissero: «dobbiamo aspettare fino a quando il suo decreto non arrivi da Roma». È andata avanti così per tre giorni, alla fine mi rivolsi alla signora Pastner. Mi disse solo «L’Avvocato ha un amico che lavora alle poste», così un’ora dopo avevo la busta fra le mie mani. Tutte le mattine a colazione l’ Avvocato entrava un momento per venire da me e chiedermi se avevo già bevuto il latte o se mi era piaciuto. Mi diceva sempre “il suo latte”, benché mi vedesse sempre bere caffé; mi sembrava che tutto questo facesse simbolicamente parte della sua indole. Non si separava mai dal suo cane da caccia, molto bello, solo un po’ grassoccio. Tutti i giorni era in pena per lui, perché rarissimamente andava a caccia di polli; non pronunciava mai il nome di Alì senza aggiungere elogi, per esempio diceva che era buono e che non abbaiava mai. Era un Epitheton ornans,  ovvero una parte del nome del cane stesso, come Aurora dai petali di rose o l’imperatore Carlo “dalla folta barba”; così, sin dal 1914, nella mia mente si aggiunse questo “Alì, così buono, così quieto, non abbaia mai”.

Se le funzioni dell’avvocato non mi erano molto chiare, l’adempimento dei doveri era da attribuire all’unico lavoratore uomo della pensione, ovvero il giovane ed abile Pedro. Era un cameriere spagnolo, di formazione internazionale, portato per le lingue. Il suo italiano, il suo francese e il suo inglese erano di buon livello, meno buono il tedesco, anche se comprensibile. Aveva lavorato per un anno a Berlino. Di mattina serviva in camicia, mentre a pranzo e alla sera in frack. Il suo viso scuro era sempre gentilmente sorridente. Se c’erano dei litigi fra la padrona e il personale femminile si sentiva nel mezzo la sua voce conciliante e calmante; se la signora Pastner lo redarguiva, egli riusciva a farci pace con la sua dolcezza e gentilezza. Non appena si approfondì la nostra conoscenza reciproca  ci raccontò una scena molto realistica in cui Pedro sembrava un’infermiera: «L’ho messa a letto; ora siamo tranquilli per due giorni e poi è di nuovo tranquilla lei». Naturalmente la sua concezione del mondo e la sua conoscenza linguistica erano limitate a ciò che si atteneva alla sua professione. Una mattina una signora portoghese ci stava parlando di un nuovo romanzo francese, ma non le veniva in mente il nome dell’autore. Una sera eravamo in gruppo e  sedemmo intorno alla grande tavola. Pedro giunse al nostro tavolo e disse: «Da parte della marchesa portoghese: il nome dell’auto è Barrès»[7]”. È stato per un po’ molto divertente conoscere i vari ospiti che nel tempo cambiavano; sedevamo con loro per tre, quattro giorni, oppure per una settimana. Con gli ospiti si parlava generalmente di Napoli e di ciò che la caratterizzava.

C’era anche un capitano prussiano in pensione. Per due giorni si lamentò continuamente dell’assenza di disciplina e delle rovine della città, il terzo giorno era felice di poter contare su una discreta società, visto che attendeva l’arrivo di un incrociatore tedesco, al quarto definì i Goeben “le uniche cose pulite a Napoli”, mentre al quinto si congedò perché Pedro si era permesso di servirgli il caffè senza indossare la giacca.

Più in là, dopo il ritorno dalla gita in Sicilia, la nostra commensale fu una ragazza di Bruenn, figlia di un ricco fabbricante. Dimostrava una trentina d’anni e sottolineava ogni giorno, con una punta imbarazzante di orgoglio e di eroismo, la sua emancipazione e il fatto che lei, senza nessun accompagnatore, indifesa, avesse osato intraprendere un viaggio così lungo in Europa. Era l’esatto contrario dello sdegnato capitano, visto che trovava tutto romantico e affascinante. Per lei era romantico il “cielo italiano, così intensamente blu” – blu intenso fa parte della definizione di cielo così come “così buono, così quieto”ecc per Alì, perché blu da solo non rendeva l’idea, anche se a me questo blu intenso del cielo ricorda tanto quello del Danubio – per lei era romantico il modo in cui le ragazzine si sedessero una dietro l’altra  formando una catena per spidocchiarsi. Per lei era affascinante il modo in cui i gruppi di ragazzini le chiedessero l’elemosina sul lungomare amalfitano; il loro un soldo, un soldo![8] suona come il cinguettio degli uccellini”, si doveva dipingerli, a suo avviso, nel modo in cui si azzuffavano nella polvere per prendere i soldi che venivano gettati loro dalle auto di passaggio.

Dopo l’entusiasta ragazza venne una coppia sposata, che seguiva passo passo la guida Baedeker[9] e che contava i giorni del proprio itinerario di viaggio. Ci sembravano molto vecchi, sebbene fossero al massimo dei cinquantenni. Erano stanchissimi, Napoli era la loro ultima tappa, tappa di un viaggio desiderato, ma spossante, durato un anno e mezzo. Le loro esperienze erano catalogate per continenti, ma non riuscivano più a fare neanche questo. «Hai visto come i neri al porto africano portavano sulle loro spalle le nostre grandi valigie?» disse lei, ma lui la corresse «Guarda che era in Sudamerica». Lei non lo contraddisse. «Può essere – c’era una gran confusione».

In seguito vennero due americane, una vedova benestante con la giovane figlia. Erano in viaggio in Europa e lo dimostrarono con le loro conoscenze. Entrambe parlavano un discreto tedesco, la figlia possedeva un abbonamento di viaggio della Berlitzschool e seguiva le lezioni italiane presso le varie città. «oggi ho imparato a dire <la penna, la mano, il calamaio>» – «Sa già coniugare?» «Sì: Io ho, Tu hai…?» A Roma hanno sentito parlare della Russia in modo “molto interessante” ed erano intenzionate a visitarla: « È lontana da qui? Basta Pietroburgo o bisogna anche visitare Mosca?».

La mia concezione del mondo americano fu destinata ad una rivisitazione quando venne una coppia di studenti di Boston, rispettivamente di origine tedesca e inglese, entrambi di nobili sentimenti, come si è soliti immaginare gli adolescenti tedeschi dell’era classica. L’americano di origine tedesca era imparentato col pittore Konnerth, anche se si dedicava alla scultura e ci raccontava dei suoi disegni che ritraevano ruderi, l’altro aveva in programma la pubblicazione di un libretto di liriche; tutti e due studiavano archeologia. Andarono poi ad abitare in una stanza tranquilla al Vomero, in cui il poeta non sarebbe stato disturbato dalle folcloristiche grida tipiche dei napoletani.Venne poi una coppia francese di mezza età di Nancy, gente un po’ reazionaria – «Ah!gli operai e gli ebrei….ah!l’istruzione del popolo e gli sconci romanzi a puntate dei giornali»- erano così borghesi, che noi non riuscivamo a spiegarci il motivo del loro viaggio all’estero.

Ai francesi diedero il cambio i tedeschi che dalla Pastner  erano molto numerosi. All’inizio vi fu un uomo molto sulle sue insieme alla moglie molto più giovane che si definiva la sua assistente. Venivano dall’Africa, lui era un primario che amava molto il suo primo amore, la botanica. Rideva e raccontava dello stupore e dello sdegno dei doganieri che avevano trovato erbari su erbari nella sua valigia e che sfogliando al loro interno non trovarono altro che muschi. Credo che in Africa abbia notato solo i muschi, come anche credo che tutto ciò che riguardava il mondo, sua moglie compresa, fosse riconducibile ai suoi muschi. A suo dire, voleva “contribuire alla costituzione della pietra miliare” delle ricerche su queste piante nell’ambito della botanica. Quella che metaforicamente venne definita una pietra mi cadde profondamente nell’anima. “Pietra miliare” era, a inizio secolo, uno dei titoli favoriti, nel campo filologico, degli studi minuziosi, tipo quelli riguardanti la storia di una vocale nel dialetto picardo o quelli sulla frequenza di una certa rima in una poesia dell’antico nuovo tedesco. Prima disprezzavo e schernivo le persone “Pietre miliari”, mentre ora riconoscevo il valore e l’importanza della loro attività e mi sentivo obbligato a condividerne il lavoro che tanto avevo detestato.

Dopo il vecchio botanico, che assomigliava anche un po’ alle sue piante, il nostro nuovo vicino di tavolo fu un imponente tedesco, insegnante della Prussia occidentale, a cui invidiavo le spalle larghe e la forte gaiezza. Ma già al secondo pasto, la gioviale allegria fece posto ad uno sguardo fisso molto fosco; in seguito, entrambi gli stati d’animo dell’uomo si davano più volte il cambio. Non so come mi cadde l’occhio su qualcosa, a cui avevo già assistito, guardando la sua imponente moglie. Poi ho capito: era così che Toni Spielhagen era solito guardare suo padre. Poi vidi sua moglie da sola: suo marito era a letto per un’emicrania ed, in modo del tutto inaspettato, aveva aperto il suo cuore. L’anno prima l’uomo era stato in un sanatorio per una malattia nervosa, da cui poi si era ripreso, e cercava in questo viaggio di recuperare la freschezza di un tempo e dubitava sempre sulla sua salute. Doveva lavorare ancora tre anni per raggiungere una pensione più alta per permettere a suo figlio di studiare fuori.

Dopo di loro i successivi compagni di tavolo erano un rabbino e la sua paffuta moglie, entrambi gentili anche se un po’ tristi. Da poco si erano trasferiti a Berlino, poiché loro figlio aveva trovato un buon posto di lavoro molto promettente come commerciante e sentiva una forte e lacerante nostalgia della cucina dei suoi genitori. Per ringraziarli del loro sacrificio, il ragazzo aveva regalato loro un viaggio in Italia; ora, dopo tutte quelle gite culturali e naturali erano affamati, visto che nella maggior parte dei luoghi visitati non avevano trovato nessuna cucina locale. Dovevano stare in viaggio per cinque settimane, ma in 14 giorni erano già passati da Venezia e Napoli e ora volevano tornarsene a casa: «Non dovrebbe esserci nulla in Sicilia, Moritz lo capirà». Riuscirono a liberarci dall’afflizione il giovane professore di zoologia di Sidney con la sua altrettanto giovane moglie e il loro vivace figlio sedicenne, grazie alla loro freschezza e allegria. L’uomo aveva dovuto lavorare a Londra e aveva portato con sé la famiglia e, prima di andare a casa, voleva visitare il famoso istituto dei fondali marini di Napoli. Masticavamo l’inglese  quando parlavamo con gli australiani e ci dispiacque quando due giorni dopo il loro posto venne preso da un insegnante di lingue olandese. Questi si era reso indipendente grazie al successo di un dizionario  da lui curato e, come il primario coi suoi muschi viveva per una lingua universale, la sua, poiché voleva migliorare l’esperanto. Ma il confronto col ricercatore dei muschi non sussisteva, poiché questi era un discreto lavoratore, mentre il sostenitore dell’esperanto era un apostolo. Non rinunciò mai a volermi convincere, considerava le mie obiezioni sulla lingua universale con affettuoso riguardo, come quando si ha a che fare con le difficoltà di comprensione dei bambini. Durante il suo viaggio di ritorno da Milano mi spedì una cartolina con la frase “L’ascesa dell’umanità è da affidarsi solo agli ottimisti”.

Poco a poco diventai insensibile a questo continuo flusso di persone. Ero troppo impegnato per conto mio. Inoltre ero diventato anche un po’ scettico riguardo al valore di queste osservazioni. Il più delle volte queste rimanevano superficiali e si riducevano ad un’analisi psicologica. Che so, una volta ci imbarazzammo quando, dopo quasi mezzo anno di esercizio, pensavamo sicuramente che un uomo visto a Scanno fosse francese in base al fatto che mangiava in maniera rumorosa; era un fotografo di Stettino, che stava facendo degli scatti per delle cartoline.

Ma proprio nel momento in cui il mio interesse verso i miei commensali si stava assopendo, ecco che l’ultimo ospite della lunga serie di questi anni di pace, portò una particolare letizia. Ricordo ancora il suo nome. Durante un’escursione ai Camaldoli ci raccontò di come nell’estate del ’70 ottenne il Notabitur[10]ed entrò a far parte subito del consiglio di Sedan coi francesi: «Come vi chiamate?», gli chiese il maresciallo: «Unglaube[11], signor maresciallo» – «Allora cVedete che Napoleone e statò cattuVatò»[12]. Il consigliere Unglaube non era di sicuro di peso nel governo e nell’amministrazione, non era neanche un luminare, neanche sua moglie e la sua non più giovane figlia che viaggiava insieme a loro. Sicuramente tutti e tre, lui nella fattispecie, avevano un senso dell’umorismo e uno spirito alla berlinese. Faceva molto caldo, i cingoli che mettevo tutti i giorni all’attaccatura dei calzini attorno le gambe non erano più di aiuto, neanche il Partenope I era più invulnerabile. La stagione degli stranieri stava finendo; la nostra pensione era vuota e sempre meno accogliente. Pedro si era licenziato perché aveva trovato un impiego su un transatlantico; chi lo succedette fu un uomo goffo dagli occhi ammiccanti, con la giacca sempre macchiata e che odorava per tutti quei disperati tentativi di pulirla; il mangiare era sempre più di dubbia qualità e quantità, il nervosismo della signora Pastner era sempre più agghiacciante. Ma oltre a questi inconvenienti, avevo un altro motivo per cui contare i giorni che mi separavano dal mio ritorno a casa, il mio Montesquieu. C’era ancora il consigliere Unglaube, che col suo spirito berlinese rallegrava le ore dei pasti. Ribattezzò l’italiana del terzo piano, che ci ospitò per un po’, “fungo velenoso”, mentre il cameriere “il pipistrello” o “asino a benzina”. Se si serviva carne dura, allora era “l’angelo strangolatore”, se la scodella veniva servita una seconda volta, anche se era quasi vuota, il commento era «Ha osato un altro attacco».

Ben presto la vita di Napoli entrò nella nostra casa e si svolse senza mezzi termini, almeno per coloro che non erano lì come turisti o come assidui seguaci della Baedeker, ma che volevano essere accolti nella città gradualmente e naturalmente. La scala di marmo dell’edificio dava sul cortile. Ai cesti, che, soprattutto a Napoli, se legati a una corda, facevano comunicare i vari piani con la strada, dovevo la mia conoscenza delle verdure, della frutta, del dialetto e della gestualità. Sollevare la testa o gli occhi, tendere in avanti le labbra significava rifiuto, mentre il dorso della mano passato sotto il mento alzato era un gesto che voleva dire “niente”. Muovere la mano qua e la con solo l’indice e il pollice alzati corrispondeva all’espressione “Non c’ho una lira”. Di mattina, sul parapetto della riva, all’angolo, vidi i mercanti di pesce. Non erano così variopinti nel vestire, come li raffiguravano di solito le cartoline, ma, anzi, erano cenciosi e rudi nelle loro smancerie. Prendevano un pesce ancora vivo dal loro cesto e lo mangiavano così, crudo, non squamato, dopo avergli strappato la testa con un morso per poi sputarla; si sdraiavano a pancia in giù per bere la sudicia acqua che usciva dal buco d’apertura degli idranti dei giardini pubblici di Largo Vittoria. La nostra cara figlia del fabbricante avrebbe trovato tutto ciò “così romantico”. Per quanto riguarda le mie sensazioni, questo era ciò che contraddiceva l’immagine dell’Italia come grande potenza culturale, questo era quello che si vedeva dalle nostre finestre.

Già al nostro arrivo, di sotto, c’era un basamento vuoto e non si sapeva per che cosa fosse. Dopo un paio di settimane vi venne montata sopra una colonna risalente all’Impero Romano, che venne coperta. Poi vi fu un’inaugurazione, come si è visto centinaia di volte nei film. Parate, polizia, un massiccio pubblico affluente, alti ufficiali e impiegati statali con tanto di pennacchi, automobili per le strade – da una scese un uomo, accolto a festa, con una larga sciarpa verde – musica, comandi, discorsi. Il conte d’Aosta tolse il velo dal monumento ai caduti della guerra di Tripoli. Pensavo tra me e me: «Il bere e mangiare dei mercanti di pesce, gli scrivani del Teatro San Carlo con la loro clientela analfabeta, le abitazioni cavernicole in cui la gente dormiva assieme al suo bestiame: tutto questo non vi si addice proprio!» Se si vuole esercitare la propria potenza culturale in Africa, bisognerebbe prima rinvigorire nel proprio popolo il senso di appartenenza all’Europa, Europe oblige.

Non vorrei dare molto peso alle mie riflessioni politiche durante questo primo anno di soggiorno a Napoli. Esse emersero però ripetutamente, con le marce, col passaggio leggiadro dei bersaglieri, la comparsa delle Kreuzer grigie e dei Torpedo neri e soprattutto il passaggio di Manacorda. Queste riflessioni non mi prendevano più di tanto e neanche le preoccupazioni. C’erano così tante belle cose da vedere che anche quando a queste si mischiava qualcosa di brutto, era un brutto pittoresco e quando era in gioco qualcosa che buono non era, si trattava di una sgradevolezza animale e ci si poteva esimere da giudizi etici così come si fa per gli animali e per i bambini. Chi avrebbe pensato alla rozzezza dei mercanti di pesce quando la sera le luci delle fiaccole illuminavano il mare e di giorno le barche si avvicinavano alla riva? Col tempo mi venne in mente un dubbio che non ho mai potuto sciogliere e che si rinnova in me in contraddizione con la nostra bohemienne entusiasta. Com’è possibile che un popolo così musicale e melodico urli e faccia esclamazioni in modo così spaventoso? I francesi, in confronto agli italiani, passano per non melodici; ma le urla dei mercanti parigini sono così risonanti e melodiose rispetto a quelle grigie e indefinite degli strilloni napoletani! Dal primo giorno percorremmo la città, il porto, i sobborghi. Abbiamo messo intenzionalmente da parte la Baedeker, volevamo sentirci a casa. Non abbiamo mai fatto la gita obbligata la Cook al Vesuvio, ma molte passeggiate nel paesaggio di questo ultimo e con quella che la stessa Baedeker definisce una popolazione ladruncola, la popolazione vesuviana, abbiamo invece stretto dei rapporti molto cordiali. Come la gente vide che eravamo stranieri per metà, perché comunque parlavamo un po’ la loro lingua, non ci considerarono più come oggetti da sfruttare. Una mezza dozzina di guide e commercianti sedettero intorno a noi, durante una sosta – con quale grandezza prendevano le nostre sigarette e ce le facevano accendere! – facevano gli onori di casa e scacciavano con molto vigore i bambini mendicanti. Quella confusione di persone e quegli attacchi serpeggianti molto vivaci nelle stradine del centro, le capre davanti alle vetrine delle strade principali, i cortei funebri, la scalinata verso il Vomero che attraversava i quartieri poveri, in un misto di casupole, mura, giardini, ville pompose, nuove costruzioni, finite e non, i muli, gli asini, i colorati carri a due ruote, il bucato svolazzante, il castello medievale sul mare, quello sulla città: tutto questo per me era un’unità fluttuante, che percepivo con occhi, naso e orecchie. E poi il “Renzo e Lucia” al Vomero e i “Promessi Sposi” a Posillipo! Da questi due giardini lo sguardo si rivolgeva sulla costa, sulla baia e sulle sue isole di modo che il “Renzo e Lucia” era la metà tranquilla mentre i “Promessi Sposi” era quella romanticamente agitata del quadro. Siamo stati a molti caffé ed abbiamo sempre scoperto nuove meraviglie – anche il bianco penitenziario di Nisida sembrava un luogo di attrazione – e qui devo attenermi strettamente al mio giuramento.

Ora vorrei narrare di ciò che mi riguarda personalmente e di ciò che mi ricondusse al nuovo con gioia, di ciò che era essenziale, il mio rapporto con l’università. Era un rapporto poco chiaro, e, inizialmente, fece riferimento alla persona del Professor Manacorda e, dal momento che lo conobbi, questa poca chiarezza durò ancora per molte settimane. Di solito, c’è una certa distanza tra il professore, un dignitario, e un lettore, che per lo più è un giovane principiante; solo la collegialità indiscutibile del professore può colmare tale distanza. Tale distanza però non c’è mai stata tra me e Manacorda. Era solo due anni più grande di me e, tramite Vossler, seppe che stavo attendendo la mia abilitazione e che mi stavo cimentando anche nella l’attività di scrittore; lui stesso era un novizio della carriera universitaria. Aveva cominciato come bibliotecario a Catania, ebbe un impiego poi nel suo Nord Italia, a Pisa, e venne chiamato come professore straordinario presso la cattedra di germanistica, istituzione fondata di recente, dell’ Università di Napoli. Fu Benedetto Croce ad aver ottenuto l’istituzione di questa cattedra e l’impiego di Manacorda; Croce al momento era già Senatore del Regno e, successivamente, dopo la guerra mondiale e il regime fascista, ottenne il Ministero dell’ Istruzione. Manacorda ed io ci frequentammo sin dal primo giorno e il nostro rapporto affettivo non è mai stato incrinato da attriti fino al nostro patetico addio nel maggio del 1915. Mi rimprovero per quel “quasi”, così limitativo; infatti, da parte sua, Manacorda si legò molto a noi, soprattutto durante i primi mesi, quando sua moglie ancora non c’era e quando lui viveva in una pietosa stanza della vicina pensione Hipp, con un toccante bisogno di alleggerire la sua anima. Mi sono sforzato di ricambiare questo calore affettivo, ma c’erano sempre dei “ma” che attenuavano questo sentimento e quando ne superavo uno, ne veniva fuori subito un altro. Le sue osservazioni sulla vita le percepivo così come il suo modo di vestire. Una traccia del suo modo accurato di vestire, mio Dio, per questo era proprio italiano, erano gli stivali di vernice e a questo poi ci si è abituati. Ma non sono mai riuscito a farlo per i guanti Glacé di Manacorda. Poteva magari venire da noi in tutta fretta, farci le sue confessioni più intime, senza toglierseli per tutta la sera, neanche durante le sue lezioni se li sfilava dalle dita. Era una persona smilza, malata, con un atteggiamento teso e i movimenti goffi; il suo viso era magro, il suo naso spigoloso, gli occhi incolori, per lo più stanchi e delusi, la sua voce fioca ma acuta nei momenti di agitazione. Quando andavo a fargli visita nella sua stanza disordinata, l’occhio mi cadeva sulla borsa dell’acqua calda che stava sul letto disfatto. Ma molto più spesso, quasi sette giorni su sette, veniva da noi dopo pranzo e ben presto il nostro angolino vicino la sala da pranzo venne rispettato dal resto degli ospiti.

Sin dall’inizio mi parlò dell’etimologia del suo cognome. Forse era “colui che ha una mano corta”, forse “colui che ha il cuore in mano”. Il suo zio spirituale, che era morto tre anni prima, ovvero il vescovo Emiliano, aveva nello stemma un cuore innalzato verso l’alto dalla mano con su scritto: Cor meum in manu Dei. Forse era così, anche Guido Manacorda sarebbe stato più felice se avesse scelto la carriera spirituale. Il tratto fondamentale della sua personalità era l’entusiasmo e il desiderio di un Credo. A volte lui stesso lo ammetteva con una sincerità e una dolcezza infantili. Diceva, spontaneamente, come se stesse parlando del tempo che faceva, «credo al mio demonio. Per molto mi  sono tormentato e poi mi si è rivelato come sopravvivenza dello spirito. Lo so, prima o poi mi rivelerà nuovamente, in che modo questa sopravvivenza avverrà». Una volta ci siamo fermati a mangiare in un locale con giardino che affacciava sul mare e che era sulla strada per Pozzuoli; i musicanti cantavano accompagnandosi con la solita chitarra. Lui chiedeva loro: «Una canzone di Tosti e di Di Giacomo!» poi si rivolgeva a noi.«Queste canzoni mi commuovono fino alle lacrime, sono così belle». Ci confessò di alcuni tentativi poetici di gioventù, in particolare di un libretto di opere.

Poi riacquistò la sua fredda aria da intellettuale, beffandosi delle superstizioni. Alla parete del nostro salone c’erano un paio di grosse corna. «Queste sono contro gli

Jettatori»[13], ci spiegò: «Molti dei miei colleghi portano con sé queste corna in miniatura, alla catena dell’orologio, e le tendono, di nascosto, verso persone sospette e quando non hanno nessun corno appresso, si ricorre al dito indice». Lui stesso trova tutto questo insensato, ma anche lui ha vissuto delle esperienze curiose con gli Jettatori. A Catania, uno Jettatore gli avrebbe predetto la morte del suo cane, che di lì a poco difatti morì. La stessa cosa accadde al suo barboncino Pagliaccio, a cui per stregoneria gli venne augurata una malattia, superata però grazie alle cure devote della signora Manacorda. Un’altra volta, erano presenti anche Liuzi e Fajella, ed avevamo il salone tutto per noi, discutevamo riguardo le spinte provenienti dal tavolo e venne fatto un tentativo, che io stesso presi per uno scherzo. Diedi una mano incrociando le dita allo spigolo inferiore, ed il tavolo cominciò a saltellare. Mia moglie mi lanciò uno sguardo d’allerta, ma nonostante ciò urtai il tavolo col ginocchio. «Uno spirito ci comunica la sua presenza», ci disse un agitato Fajella, «fa un colpo interno». Manacorda però aveva notato il mio imbroglio, sollevò le mani dal tavolo e disse, più afflitto che arrabbiato «Ci sono degli increduli tra di noi. Meglio divertirci in un altro modo». Mi aveva fatto piacere vederlo meravigliato, infatti il giorno dopo tornò sull’accaduto: lui stesso era andato molto lontano coi suoi pensieri, ma Fajella e Liuzi avevano preso la cosa seriamente “e credevano fosse qualcosa di molto bello”. Un po’ di tempo dopo, il discorso ritornò, ma in quella occasione, di sera, tra noi e lui, sugli spiriti e sulle spinte del tavolo. Ci raccontò di una superstizione grossolana del popolo siciliano. A Catania, nel primo periodo di impiego, aveva avuto a che fare con l’ostilità di alcuni inquilini; appendevano ai balconi confinanti baccelli di paprica e aglio, per invocargli contro gli spiriti maligni. Nel raccontarcelo sorrideva, ma aggiunse, un po’ pensieroso: «Poi però mi sono ammalato veramente». Mia moglie gli chiese se lui avesse mai provato ad opporre resistenza e lui rispose: «Certo!» Abbiamo consultato il nostro tavolo che ci ha consigliato l’uso di una scopa per opporre resistenza. Come mettemmo la scopa fuori al balcone, i vicini ebbero paura. Ben presto se la passarono talmente male che mi pentii quasi di essere ricorso alla scopa. «Rise di nuovo», ma era un ridere agitato e non tanto genuino. Ci raccontò di casi quasi simili, tra cui quello in cui la consultazione del tavolo prevedette il giorno e l’ora del terremoto di Messina. Comunque precisava sempre: «Non ci credo a queste cose!», sempre con quella risata non impacciata e gelida.

Questa attrazione negata verso le superstizioni mi disturbava, perciò vidi chiaramente che questa era in relazione con una certa sensibilità, con una certa eccedenza di sentimenti. C’era qualcosa per cui provavamo compassione per Manacorda. Fino a marzo inoltrato si lamentava per la solitudine e il senso di miseria che provava nella sua stanza della desolata pensione. Aveva nostalgia di sua moglie. «Ha degli occhi così neri e grandi» (nel mentre faceva un cerchio col pollice e l’indice), «è così buona con Pagliaccio e con tutte le creature, ci siamo relazionati così bene. Ma lei aveva bisogno di un po’ di mesi in solitudine, in cui potesse ritirarsi in pace con se stessa. Solo se trovo un appartamento lei verrebbe qui; intanto sta in una villa a Pisa». Alla fine affittò un appartamento nel moderno quartiere del Vomero ed arrivarono anche i mobili, poi comparve anche la signora Manacorda con il caro Pagliaccio; trovò che la stanza fosse irrimediabilmente stretta e insistette per una furtiva disdetta. Siamo stati un paio di volte dai Manacorda e loro ci hanno anche fatto visita insieme, ma quando venivano da noi singolarmente, e ciò succedeva assai frequentemente, si sentivano più liberi. C’era un qualcosa di freddo nella donna, persino il nero Pagliaccio si muoveva più liberamente quando lei non era presente.

Quando facemmo visita ai Manacorda per la prima volta nella loro pensione delle bambole, egli ci condusse fiero alla finestra del suo studio. Credevo che ci volesse rendere partecipi della meravigliosa panoramica sulla baia. Ma ci indicò con l’indice solamente un punto vicino al Castello dell’Ovo: «Vedete quella grande nave da guerra? È la più nuova che abbiamo, è la “Giulio Cesare”. Tutta costruita in un cantiere navale italiano e frutto di lavoro italiano. Al deposito ci sono due Dreadnought e due più potenti Panzer». Questo era un tratto irritante dell’entusiasmo di Manacorda, non il suo passionale patriottismo, ma la passione per la nuova Italia militare e imperialista che lo induceva ad ignorare e a negare molte cose che avrebbe dovuto, invece, tenere in considerazione. Ci sono gli analfabeti, i quartieri poveri, c’era anche una particolare miseria nei quartieri moderni, di cui venni a conoscenza proprio da lui. Nonostante ciò, vennero fissati per questi appartamenti dei prezzi altissimi, anche legalmente, ed i proprietari delle case richiedevano dei prezzi ancora più alti, da usura; i proprietari stessi costringevano i locatari a sottoscrivere un vero e proprio contratto per un’ulteriore somma di denaro. «Perché mai allora si accetta questo?» – «Perché altrimenti non avrebbero nessun appartamento a loro disposizione». «Ma allora perché nessuno si difende?». – «Perché nessuno gli dà ragione, poiché tutti, gli ufficiali, gli alti funzionari, anche i magistrati firmano per queste somme aggiuntive». Manacorda doveva già sapere da tempo, ciò che a me si configurò man mano, ovvero che questi bisogni, miserie e inconvenienti non riguardavano solo Napoli, che quest’ultima era europea in confronto alla Sicilia e che si potevano rintracciare delle reminiscenze di Napoli fino alle sponde dello stivale. Lui non volle pensarci; c’era da essere entusiasti per “i nostri nuovi reggimenti”, per “le nostre nuove navi”, “per la nostra cultura in Africa”. «Se solo conosceste le anime dei nostri ufficiali! Uno dei miei cugini è caduto nella guerra di Tripoli come luogotenente dei Bersaglieri. Ci ha lasciato molte meravigliose lettere; le ho fatte pubblicare in un libro alla memoria».

Ma come già detto, nel primo anno  non sentivo molto il peso della politica. Ciò, che invece mi colpì maggiormente era il rapporto di Manacorda con l’università e, in particolare, naturalmente, col mio lettorato. Non voglio giudicare discutibile il suo rendimento intellettuale. Era una persona diligente e riflessiva. Fece pubblicare una rivista, Studi di Filologia Moderna, curò, nell’egida di Croce la pubblicazione di una serie di classici tedeschi tradotti da Laterza. Il suo corso su Richard Wagner – l’ho ascoltato più volte, potrei rileggerne l’introduzione programmatica – era molto accurato. Ma Wagner fu anche il suo unico tema per tutto il 1914 e il 1915. Ciò mi sembrava fosse non solo la conseguenza di un certo entusiasmo, ma anche di una sicura comodità. Con Manacorda mi sarebbe sempre venuta in mente quella comodità del devoto entusiasmo.

Già dal nostro primo incontro manifestò il suo entusiasmo per la nostra situazione personale. (Del resto, nonostante gli chiesi di parlarmi in italiano, lui mi parlava in tedesco anche quando eravamo soli. Gli piaceva rimanere nella prassi linguistica, diceva. – «Ma non mi esercito così, devo ancora prendere la cattedra». – «Ho piena fiducia in lei». Mi spiegava che proprio in quel periodo noi stessi stavamo aprendo un nuovo capitolo della storia dell’università. «Sono il primo professore, Lei è il primo lettore di tedesco in questa università, non ci precede nessuna tradizione, non dobbiamo fare nulla di prescritto, siamo liberi di costruire ciò che vogliamo». Continuò così per un po’, ma volli sapere da lui cosa pensava della mia attività, poiché mi aveva promesso per lettera, di introdurmi nelle particolarità dell’università italiana, anche se, in fondo, lui era un novizio almeno quanto me. Misi allora in pratica ciò che mi aveva consigliato Vossler e ciò che avevo appreso dalle mie esperienze come studente universitario. Dopo un po’ di esitazione venne stabilito che al corso base avrei portato i fondamenti della morfologia tedesca in lingua italiana, per quanto fosse stato possibile, mentre al corso avanzato avrei fatto dei piccoli discorsi, stavolta in lingua tedesca, riguardanti la civiltà tedesca, oltre a far tradurre Viaggio a Praga di Mörike e i Pensieri di Leopardi. Manacorda mi aveva già detto che avrei cominciato il 15; avevo quindi capito che questa sarebbe stata la data del mio inizio. «No», mi spiegò lui, «Può continuare tranquillamente ad ambientarsi fino a quando non arriva il decreto da Roma»- «Ma io pensavo che Lei già lo avesse tra le mani!» – «Era da intendersi metaforicamente, si tratta solamente di una formalità”» – «Di solito ci mettono tanto a Roma per queste cose?» – «Una volta presentata la domanda, si procede immediatamente». – «Ma come?! Ancora non è stata presentata?» – «Devo ancora fare la proposta al Consiglio di Facoltà, poi il Rettore la invierà a Roma. Comunque si tratta solamente di una formalità, può cominciare già dal 1° febbraio».

Tuttavia il Consiglio di Facoltà venne spostato di una settimana. Manacorda mi tranquillizzava sempre con la solita frase “pura formalità”, nel frattempo mi ero procurato una grammatica del tedesco in italiano, avevo preparato delle lezioni, un paio di conversazioni e mostrai tutto a Manacorda, che ne rimase entusiasta. La settimana successiva ebbe luogo la riunione e alla sera Manacorda venne da noi tutto contento. « È stato scelto come Lettore e persino già come commissario d’esame per il tedesco, la domanda verrà mandata domani stesso a Roma». Ma non è andato tutto così liscio. Il vecchio D’Ovidio, il grande animale della facoltà (“il pezzo grosso” come diceva Manacorda) aveva già da raccomandare un altro candidato per il lettorato e lo avrebbe fatto passare per un pelo. Reprimendo il mio dovuto spavento, domandai se avrei iniziato il 1° febbraio – «Volevamo parlarne prima con Torraca e Jungano». Torraca, storico letterario e decano, gentile ma indifferente nei miei confronti con la sua barba grigia, che non toglieva mai la sua virginia dalla bocca, né per parlare né per presiedere, non aveva nulla da obbiettare all’accoglienza immediata degli esercizi, ma li considerò comunque insoliti. Il Dottor Jungano, il grosso direttore della segreteria, trovava che le nostre richieste fossero un po’ strane; perciò il decreto sarebbe dovuto arrivare “prima delle vacanze di Carnevale”, perciò avrei cominciato con le mie letture proprio “prima delle vacanze di Carnevale”, in quanto il Rettore non aveva stabilito che questo. Al Rettore mandammo i nostri biglietti per essere ricevuti nel suo ufficio, ma lui lasciò detto che per quel giorno non avrebbe potuto riceverci.

Fu in questa occasione che vidi per la prima volta l’università, le sue aule, la direzione, la biblioteca. Riempiva tutto un caseggiato in salita, imponente, che aveva delle parti molto moderne e restaurate. Per me rimase comunque un labirinto in cui mi limitavo a stare solo nelle aule e nella biblioteca. Subito dopo, alla sera, passai da Manacorda alla Pensione Hipp; dovevo scegliere un paio di libri di recensioni sugli “Studi Moderni”. Lì incontrai un giovane professore di geografia, da poco chiamato dal nord Italia, entrambi avevano da ridire sull’università locale, affermando che quella del nord fosse migliore e più disciplinata. Erano particolarmente severi col Rettore che aveva accettato il suo incarico solo per mantenere il posto, senza avere problemi col Ministero.

Nel frattempo venne Fajella a comunicarci qualcosa di cui lui stesso rimase stupito. Questo giovane uomo, dagli occhi neri, magro, ben messo, sembrava un Don Giovanni e, proprio per i suoi abiti eleganti, venne soprannominato scherzosamente da  Manacorda, “arbite elegantiarum della pensione”. Comunque sia, era uno studente diligente della Facoltà di Medicina, che si mostrò molto disponibile nei nostri confronti. Come  Manacorda era un seguace dell’Italia imperialistica, manifestava ogni volta la sua indignazione verso “i nostri socialisti”. Per me era una fortuna che non parlasse una parola di tedesco. In seguito me lo ritrovai come allievo del mio corso base, tra l’altro molto bravo. Una volta commisi la crudeltà di tradurre in tedesco turacciolo[14], invece che con “Korken [15]” con “Propfen[16], una parola terribile per le labbra italiane. Alla sera ci riunimmo per un tè nel salone della pensione Pastner. Nel bel mezzo del discorso, Fajella si ammutolì e rimase per un po’ tra sé e sé. Poi, all’improvviso, un po’ contro la sua cortesia verso mia moglie, mi chiamò: «Professore, adesso, adesso!» Una pausa, un bel respiro, poi: «pe…Per…Peropefen[17] Poi disse che i giuristi avevano dato la loro consueta fischiata[18]. Doveva dirci che cosa aveva in mente. Allora, i Giuristi erano i più distinti e i più influenti studenti dell’università. Con il loro concerto di fischi volevano anticipare l’inizio delle vacanze di Carnevale. «Ma ci riescono?» – «Certo. Fanno così tutti gli anni. Ne esce fuori sempre una settimana in più. Il Rettore non lascerà mai provocare disordini, magari con le finestre rotte, magari con lo sciopero». Questo è possibile solo a Napoli, mi confermarono entrambi i nuovi arrivati, un po’ indignati ma anche un po’ divertiti. «E cosa ne sarà del mio inizio prima delle vacanze di Carnevale?» domandai. «Niente, Professore», mi rispose un convinto Fajella «Anche se il suo decreto arriva per tempo, gli studenti prenderebbero ciò a male ed il Rettore non vuole che accada questo. Fino al 1° marzo siete sicuramente libero». – «Se lo Stato mi retribuirà solo dal 1° marzo» dissi ridendo: «il Rettore dovrà rimborsarmi le spese dell’albergo per sei settimane».  Manacorda credeva che dicessi sul serio. «Per carità, non ci pensi nemmeno! Il Rettore può permettersi l’avvocato più costoso al mondo vincendo qualsiasi processo contro di noi. La responsabilità per il suo arrivo in tempo grava su di me!»

Era veramente turbato. Mi accompagnò a casa, non appena il suo collega lo congedò, cioè, abbiamo fatto su e giù il cammino tra la mia e la sua pensione. Si lamentava di non aver senso pratico e questo gli aveva sempre giocato un brutto tiro. All’inizio della sua carriera gli era stato promesso un impiego presso la biblioteca della sua città. Allora era fidanzato e il matrimonio dipendeva proprio dal suo impiego. Lo fecero attendere un anno per poi mandarlo a Catania. (A sentir lui era come se lo avessero mandato nell’Africa centrale). Successivamente ebbe delusioni simili e anche ora…dovetti consolarlo e rassicurarlo con la mia placida pazienza.

Arrivò il decreto. Ero a tutti gli effetti impiegato e retribuito dal 1° febbraio in poi, ma fino all’inizio di marzo rimasi un Lector a non legendo. Tuttavia, Manacorda si preoccupò di farmi avere un certo rapporto con gli italiani, perciò un buon esercizio linguistico, presentandomi, oltre a Fajella, gli studenti Logatto, elegante e maturo, e Fornelli, dalla frenesia bambinesca.

Logatto era un giurista con una particolare inclinazione alla filosofia del diritto; aveva studiato per molto tempo a Monaco ed era un grande ammiratore della Germania. In seguito, durante il primo anno e durante l’anno di guerra mi aveva reso dei tragicomici servigi. Più volte, alla sera, era stato con noi all’ora del tè.

Tutt’altra cosa Fornelli. A volte ci sembrava talmente invadente da dare ai nervi, ma la sua disponibilità era sempre disarmante, così come l’ingenuità del suo egoismo e del suo materialismo. Lo si poteva definire come un figlio della natura (visto il suo orgoglio di essere abruzzese), se non fosse stato allo stesso tempo un po’ pedante. Era figlio di un professore di Pedagogia ed era prossimo al suo esame di Stato come insegnante delle scuole medie. Il tedesco era la sua materia forte, aveva trascorso due semestri a Jena, e parlava abbastanza bene; non faceva mai mistero che con me avrebbe dato l’ultimo tocco e che avrebbe conquistato la mia benevolenza e quella del suo futuro esaminatore. Per questo si comportò in maniera giudiziosa, volendomi dare delle lezioni allo stesso modo in cui gliene davo io. Perciò tra noi si parlò vicendevolmente tedesco e italiano, mi riempiva di domande ma non lesinava neanche spiegazioni. Abbiamo fatto delle lunghe passeggiate a Fuorigrotta e alla Solfatara, al convento dei Camaldoli e nel cammino si parlava di tutto: folklore, storia, geografia, botanica, geologia. Non si interessava tanto alla politica e per quanto riguarda la letteratura lo faceva solo nella maniera in cui gli fosse stato strettamente necessario per gli esami. Considerava Schiller, con cui aveva tribolato molto a Jena, un nemico personale. La sua terza parola era “pratico”: vita pratica, lingua pratica. Aveva preso terribilmente sul serio l’intento di imparare l’autentica lingua parlata. Le sue prime conoscenze del tedesco di tipo extra venivano da un muratore tedesco che lavorava in Abruzzo. Inoltre a Jena aveva fatto amicizia con diversi lavoratori della Zeiss. L’ho capito da un po’ di cose. Stavamo camminando su e giù per Largo Vittoria, accompagnati da un po’ di musica, mia moglie stava in mezzo a noi due. Fornelli parlò forte e chiaro per farsi sentire. «Il Rettore» disse: «è uno stronzo». «Ma Fornelli! Lei lo sa cosa significa, vero?» – «Certo professore: un uomo antipatico. Era così che i miei amici alla Zeiss definivano un ingegnere che non sapeva fare nulla». Gli spiegai il significato base e l’ammissibilità di quell’espressione. Tacque per un momento, forse un po’ imbarazzato; poi mi chiese: «Allora potrei dire ad un allievo: “Ti prendo a calci nel culo?”» Di sera si fece vedere raramente da noi; aveva paura di innamorarsi della letteratura.

Si toccò l’estetica soprattutto quando venne la signorina Diaz della biblioteca universitaria ed i giovani coniugi Liuzi. Liuzi era un compositore e insegnava al conservatorio statale. Vi furono molte discussioni a carattere linguistico. Liuzi recitava con molta musicalità poesie di D’Annunzio; si lamentava del Commendatore che faceva parte dell’amministrazione dell’istituto e Manacorda mi diede una spiegazione a riguardo. Il Commendatore è un inevitabile titolo detenuto dagli alti funzionari statali, mentre quelli più in basso venivano chiamati Cavalieri e tutti i Commendatori e i Cavalieri erano borghesi; o si parlava di Wagner, Strauss o Debussy o  Manacorda proponeva dei drammi di Maeterlinck tradurre in musica. Ma continuando a discutere, andava sempre a finire  che si parlava di Croce. Sembrava come se non ci fosse nessun tema intellettuale per gli italiani che prescindesse da Croce. La signorina Diaz ne era una seguace entusiasta, mentre Liuzi si mostrava cortesemente neutrale e  Manacorda non si dava pena di celare una certa rabbia. Egli non voleva affatto sminuirne il merito filosofico, ma era sempre più stupito per la sua mancanza di religiosità e per la sua freddezza d’animo.

Quell’uomo mi incuriosiva veramente. Vossler mi scrisse che aveva detto di me a Croce che ero il suo migliore amico e che ero la persona a cui lui più doveva; inoltre a Croce era capitata una disgrazia perciò avrei fatto meglio ad aspettare un po’ prima di rendergli visita.  Manacorda mi propose di andare insieme a lui da Croce, il quale da poche settimane aveva perso un’amica di vecchia data. La vita della defunta è stata piuttosto indegna e Croce non ne ha mai fatto sapere nulla.  Manacorda voleva fare questa visita; sapevo che lo attendeva uno sgradito diverbio professionale: Manacorda non era affatto soddisfatto di un traduttore della collana tedesca della Laterza, che era sotto la protezione di Croce.

Per il momento mi fece conoscere due piccole figure intellettuali di Napoli. Nelle sale pompose della Biblioteca Statale conobbi Di Giacomo, il noto poeta patriottico, il compositore della stracantata Marechiaro. Abbiamo conversato per un quarto d’ora, un po’ superficialmente sulla città e sul tempo che faceva, ma ricordo la figura di quest’uomo. Era rotondetto e bonario, il suo viso da luna piena mostrava degli occhi grigi sotto una scriminatura grigia, le sue mani erano grosse ed avevano delle grandi gemme. Mi disse poi Manacorda che era stata una sorpresa per lui riuscire ad incontrare Di Giacomo visto che il suo posto in biblioteca era modesto sì, ma sicuro, perciò si faceva vedere in ufficio pochissime volte.

Più importante, anche se pure più imbarazzante, fu la mia visita serale a D’Ovidio, proprio lui, che stava mettendo a rischio il mio impiego come lettore. Francesco D’Ovidio, un romanista ben noto nella cerchia internazionale, aveva allora 64 anni, ma nelle vesti e nell’atteggiamento recitava il ruolo di un anziano patriarca, che di anni ne aveva almeno 84. (“Era riuscito a ricoprire questo ruolo già a 50 anni”, mi disse Vossler un paio di mesi dopo).

In un angolo della sua stanza, che si trovava all’interno di un palazzo del centro, sedevano due donne un po’ in là con gli anni insieme a degli uomini addirittura più anziani. Un po’ più lontano c’era una scrivania, sopra la quale c’era una lampada a petrolio con tanto di paralume. Il chiaroscuro che ne usciva mostrava la figura innalzata di D’Ovidio. Il suo viso era composto da una barba giallo-bianca e da un paio di imponenti occhiali blu. In testa portava un berretto di seta nero, indossava una pesante, lunga vestaglia marrone, ai piedi aveva degli stivali di feltro marroni a quadri. Con voce alta parlava insistentemente con i suoi ospiti. Arrivammo alla sua cattedra per i saluti e da quel momento avremmo visto come sarebbe andata avanti la serata. Non siamo stati presentati, D’Ovidio ci coinvolse in quanto uomini dotti in un discorso altrettanto dotto. Come romanista ebbi la precedenza su Manacorda. Ma non solo come allievo di Vossler. D’Ovidio mi chiese subito del mio percorso di studi ma non prestò molta attenzione al racconto della seconda fase di questo. Per lui ero solo uno dei fortunati che aveva studiato da Tobler, morto nel 1919. «O il povero Tobler, il povero Tobler! Era così buono!» – «Sì», confermavo, mentendo un po’, «era così buono coi suoi studenti». Per tutto il tempo D’Ovidio non parlò che di Tobler. (Quando gli andai a far visita molto tempo dopo, gli abiti e le decorazioni e lo spettacolo stesso erano tutt’altra cosa rispetto a quella sera.)

Ciò che meno perdonavo a D’Ovidio non era tanto l’ostentazione del suo essere erudito, ma il suo tacito rifiuto di Vossler. Proprio in quei giorni, infatti, la mia ammirazione per lo studioso Vossler aveva raggiunto il suo culmine; tempo fa non ero ancora nei suoi pensieri e più in là, come già detto, avevo avuto qualche dubbio. Invece mi inviò pochi giorni prima il suo libro sulla lingua e sulla cultura francese, che conoscevo solo in parte, tramite le sue lezioni; poiché la vita da turista non mi soddisfaceva – il riferimento alla serie dei giorni buoni ricorre spesso negli appunti di febbraio – e poiché ancora non avevo trovato pace per dedicarmi al mio Montesquieu, elaborai una relazione su Vossler per la rivista plurilingue di Manacorda. E ogni volta ringrazio il destino per avermi concesso la fortuna di avere avuto quest’uomo come insegnante.

La settimana del martedì grasso l’abbiamo trascorsa a Roma. Siamo partiti insieme a Manacorda, lo abbiamo visto più volte lì ma la maggior parte del tempo siamo rimasti per conto nostro. Nel 1905 non vedemmo nulla di Roma; in quel momento, invece, vidi molto, ma ancora con occhi abbastanza distaccati. Una delle parole che i nazionalsocialisti sfruttavano spregiudicatamente è “esperienza”[19]. Nella falsità dei loro sentimenti bollavano tutto ciò che si vedeva o faceva quotidianamente come esperienza: non si accendeva più un sigaro, non si saliva più sul tram ma si viveva il sigaro e si viveva il tram. Ho vissuto Napoli nel vero e proprio senso della parola Napoli al Suor Orsola al lussureggiante periodo di maggio. Più in là, nello splendido giugno, feci la mia esperienza anche a Roma. Ma in quei giorni di Carnevale irruppi nella città con quell’interesse tipico di chi compie un viaggio di formazione e mi rallegrai del fatto che come soggiorno a lungo termine avessi scelto proprio Napoli. Napoli era genuinamente italiana, Roma, invece, rimaneva più europea e internazionale. A volte credevo di aver commesso un’eresia. «Gli affreschi sono sempre un guaio» – «Tant’è che non riesco a riconoscere la differenza tra Castel Sant’Angelo e l’ente del gas». – «Anche se qualcuno vorrà picchiarmi, come mi disse la signora Oestreich di Oranienburg, dico che Piazza San Pietro mi annoia per la sua incolta distanza e non mi è piaciuta neanche la metà di quanto mi piace il Tempelhofer Feld, e la cupola di San Pietro non mi pareva più bella di altre cupole migliori che avevo già visto». Sono certo che l’ammirazione per la Cupola di San Pietro sia generalmente indotta e libresca. Oggi la Danese da Luccarini ha detto, con voce vibrante e con un battito di ciglia: «La cupola di San Pietro, no! La cupola di San Pietro! Da quando l’ho vista, le altre cupole mi sembrano…» e col movimento delle mani riproduce il distaccamento di una rotondità, per poi riprodurre un suono di disgusto, simile a quello dei conati.

In ciò consiste parte della mia ostinazione; ma per quanto riguarda ancora San Pietro, basilica e piazza, quel sentimento di freddezza non mi ha mai abbandonato. L’antica Roma mi disse qualcosa di più; ma anche qui la mia inclinazione non è accresciuta per la temperatura dei musei.

La pensione Luccarini era in via Gregoriana – le siamo rimasti fedeli anche più in là, tra le altre cose per il suo giardino pensile che offriva una panoramica suggestiva e una tartaruga graziosa – aveva un pittoresco pubblico. In questa prima volta ero l’unica creatura maschile a sedere alla tavola comune e, in effetti, non abbiamo mai visto più di tre uomini lì. Una ventina di signore, dai capelli grigi o bianchi, di sicuro non sotto i sessanta, dall’atteggiamento teso, vestite un po’ da soldato – colletto rialzato, cravatta, pinze luccicanti – si intrattenevano in maniera risonante; la lingua inglese era dominante, mentre mancava un po’ di francese e di italiano. Non posso dire con certezza fino a che punto le signore si attenessero strettamente alla politica, perché noi più giovani avevamo poca nota, e ciò che colsi dai loro discorsi riguardava comunque Roma, a volte anche in toni sacri.

Abbiamo sentito così intensamente il Carnevale, che mi vennero strappati via tantissimi bottoni. Il Carnevale si scatenò nel tragitto Piazza Venezia – corso Umberto – Piazza Colonna. La gente e le macchine si aggrovigliavano in un allegro e immenso rumore. Vedemmo poche maschere, ma di buon gusto – a Monaco erano più numerose e fantasiose, ma sfilavano davanti a poche persone, qui invece c’era di tutto: uomini, donne, ragazzi, proletari, gente elegante, soldati, tutti insieme in quella confusione appassionante. C’erano delle lotte amichevoli coi coriandoli tra passeggeri e passanti, e sempre i coriandoli volavano dalle e verso le finestre, penzolavano dagli sporgenti e dalle inferriate. Vennero accesi dei fuochi innocui. Per terra lo strato di confetti era alto un piede. A cinque passi dal corso tutto era già più calmo, e si poteva respirare.

Con Manacorda siamo andati ad una matinée del Parsifal al Teatro Costanzi. I canti e l’orchestra erano meravigliosi, anche gli scenografi erano proprio degli artisti. Nella precisione delle decorazioni c’era un merito della Germania settentrionale: al Palazzo Gral traballavano delle colonne piuttosto minacciosamente, i piccioni si libravano e il cigno era, per il collo e per il becco, un essere deforme. Manacorda non sedeva con noi in platea, ma in una loggia con la principessa Pignatelli, che lui stesso ci presentò durante la pausa del tè e che l’anno successivo mi offrì tutta la sua benevolenza. Manacorda aveva sempre da ridire su Napoli, ma tuttavia la definiva la città più aristocratica d’Italia; comunque, già sapevamo qualcosa sulla Principessa Pignatelli, benefattrice di quest’ultimo, e tra le più ricche donne intellettuali della nobiltà locale. Era rimasta vedova e aveva già vissuto una serie di tragedie familiari, era una mecenate, a cui stava a cuore l’ascesa culturale della città di Napoli, aveva patrocinato la scuola superiore femminile Suor Orsola ed a turno era anche dama di corte della Regina. Siamo stati accolti dalla sua estrema gentilezza ed affabilità. Mi chiese, un po’ ingenuamente, quanto tempo fosse necessario ai miei studenti per imparare il tedesco. Risposi, con un certo aplombe da teorico: «Un anno e mezzo». Non so come sarebbe suonata la mia risposta se la domanda mi fosse stata posta 14 giorni dopo, poiché mi aspettava una sgradevole esperienza.

Proprio dopo essere tornato a Napoli, il 2 Marzo, tenni la mia prima lezione e avrei dovuto esserne felice. C’erano circa 70 studenti, le ragazze erano in minoranza, le toghe dei seminaristi piuttosto numerose e tutti ascoltavano attenti. C’erano sì degli andirivieni, dei cigolii e degli sbattimenti di porte, ma alla fine poteva essere una mia impressione iniziale. Lessi un piccolo discorso già preparato, dissi due parole sul programma, poi qualcosa sulla scrittura gotica, sull’alfabeto gotico, che dissi agli studenti di memorizzare velocemente, poiché a lezione dovevamo sì cominciare dall’ ABC, ma non dovevamo perseverare a lungo l’ABC stesso. Tutto questo durò una mezz’ora scarsa (per essere precisi, a differenza del quarto d’ora accademico tedesco, il collega cominciò all’ora spaccata ma concluse un quarto d’ora prima). Il resto del tempo lo impiegai per le informazioni bibliografiche, che scrissi alla lavagna. Il manoscritto, la grammatica e i testi di Leopardi e di Mörike – per il corso avanzato – stavano sulla mia cattedra, accanto alla mia matita e al mio orologio da taschino. C’era anche il pezzo di gesso con cui avevo scritto alla lavagna poco prima. Appena giravo le spalle ai miei ascoltatori, per scrivere alla lavagna, si facevano più forti i vari bisbiglii, ma forse anche questa poteva essere una mia prima impressione iniziale ed, inoltre, una lusinghiera espressione dell’interesse generale. Del resto, mi aveva ascoltato anche Manacorda che, come conclusi la lezione, mi fece un cenno col capo ridendo e uscì fuori. Anch’io ero abbastanza contento per questa prima lezione. Ma in quel momento emersero grida, la cattedra venne presa d’assalto, un centinaio di mani afferravano le mie cose, tutte: la grammatica, il Leopardi, il Mörike, il manoscritto, la matita, il gesso, l’orologio, era sparito tutto. Ero lì, inerme, come sul “Saghalien”, non capivo una parola fra quelle voci, non sapevo più cosa stava accadendo. Poi vidi la placida figura di Logatto che si dirigeva verso di me. «Santo cielo, Logatto, ma che succede? Mi stanno saccheggiando» – «Riavrà tutto indietro, Professore» – «Ma perché?» – « È solo il nostro interesse nei suoi confronti, alla sua materia, vogliono toccare tutto con mano, sono come dei bambini vivaci; questo è il temperamento del sud, sono meridionali». E, in effetti, tutto tornò indietro, anche l’orologio. Dopodichè chiesi a Manacorda come ero andato con l’italiano durante la mia prima lezione. «Bene», mi disse, «un po’ bene, un po’ dantesco, ma poiché parla a studenti universitari, non può che essere ben compreso».

Andai a cuor leggero alla lezione successiva, ma provai un po’ di delusione. Quante volte, più in là, pensai alla mia frase pregna di orgoglio: «Non siamo protettori dell’ABC» e a quella di Logatto «Sono meridionali». Non c’era stato nessuno che avesse ripetuto e lavorato sulle lezioni fatte, perciò dovevo sempre cominciare daccapo. Non c’era mai silenzio. Se facevo ripetere una frase ad uno studente, in venti si mettevano a bisbigliare; se davo loro le spalle per scrivere alla lavagna, i bisbiglii diventavano rumori. Chiedevo silenzio, ma durava solo cinque minuti. Se dicevo: «Ma questo è indegno», durava per il resto dell’ora, dopodichè una mezza dozzina di ragazzi venivano gentilmente da me a dirmi: «Non deve essere così arrabbiato con noi – siamo meridionali». Ma i giorni successivi c’era di nuovo così tanto chiasso, che non potevo impormi con la voce che, infatti, divenne sempre più roca. «Fuori c’è bel tempo» gridavo: «chi vuole divertirsi, vada a farsi una passeggiata». Tornava nuovamente il silenzio. Quando gli raccontai tutto alla sera, Manacorda si spaventò. «Se implora una fischiata[20] il Rettore prenderà le parti dei poveri studenti e noi due ne saremo le vittime». Infatti mi raccontò delle storie agghiaccianti su professori che hanno fatto la fischiata e che sono stati mandati via. Eravamo seduti nel salone della nostra pensione, c’erano anche Fajella e Logatto, che erano d’accordo con Manacorda. Ma spiegai che dovevo comunque far qualcosa. «Disdica la sua lezione due o tre volte all’ultimo momento», mi consigliò Manacorda «Magari a causa di una violenta emicrania, per la morte di una zia, vedrà che il numero di studenti diminuirà». Ciò mi ripugnò, ma Logatto trovò una soluzione più auspicabile. «Proceda velocemente, non abbia riguardo di chi rimane indietro, anche così gli studenti del suo corso diminuiranno». Inoltre si offrì (e lo fece sul serio poi) di scrivere il necessario alla lavagna, così potevo volgere sempre lo sguardo verso i miei cari uccelli rapaci.

Con questi due provvedimenti, in effetti, il numero di studenti scese a 30 e venne raggiunta una certa calma. («da nessuna parte c’è questo silenzio», mi assicurava Fajella). Tuttavia dopo un po’ di lezioni vennero cinque signorine, le più silenziose e diligenti fra i miei studenti, che mi chiesero di ripetere tutto il lavoro delle ore precedenti in maniera esaustiva, di modo che potessero poi studiarlo. Ecco un altro esempio di infantilismo dei miei studenti. Al corso base facevo lezione alle quattro del pomeriggio. Mi venne chiesto più volte di spostare l’ora del lettorato, perché occupava le ore più belle del pomeriggio. A metà semestre il cambiamento degli orari era estremamente complicato; c’erano altri docenti e la segreteria doveva intervenire con ordine. Dopo un po’ di trattative, su consiglio di Manacorda, feci una richiesta al decano firmata dagli studenti. Quindi un giovane prete venne a portarmi un foglietto con su scritto: «un gruppo di studenti» – «Chi appartiene a questo gruppo?» Nessuna risposta. (Il commento serale di Fajella: « È una bugia! Tutti i preti sono bugiardi»). La lezione successiva misi tutto ai voti: «Chi è per lo spostamento?» Un po’ di brusio, poi di nuovo silenzio, nessuna mano alzata. «Chi è per rimanere così?» ed ecco una sfilza di mani alzate.

Già nei giorni del tempestoso inizio dei corsi, ricevetti da una rivista per corrispondenza berlinese una richiesta che presentava un infausto errore di battitura: avevano saputo del mio nuovo impiego e mi chiesero un articolo sull’università, le usanze degli studenti e la loro “capacità di fare chiasso” e a margine era scritta la correzione, ovvero “capacità di apprendimento”. Se non avessi ricevuto la richiesta dalla diplomazia, sarebbe stata più appropriata la prima.

Dopo circa un mese nel corso base le cose cominciarono ad attenersi ad una certa normalità. Ma dovetti ancora limitarmi a inculcare per molto tempo le nozioni base. Il corso avanzato era invece più piacevole e non mi diede delusioni. Qui cominciai con un discorso in tedesco sugli studenti tedeschi. Dopo le mie prime frasi, metà dei presenti abbandonò la lezione, mentre l’altra metà ascoltò particolarmente attenta. Dissi loro che non dovevano giudicare i commilitoni tedeschi dai loro baschi colorati e dai loro visi spaccati, parlai inoltre dei movimenti democratici della gioventù e spiegai che la maggior parte degli studenti attuali erano apolitici e si dedicavano al proprio lavoro intellettuale da soli. Definii questo come l’unico atteggiamento ragionevole e naturale. Manacorda, che assistette a questo mio debutto, fu di nuovo felice; mi contestò solamente “l’unico atteggiamento ragionevole”: lo studente italiano, a suo avviso, doveva sostenere gli ideali nazionali. Quando volli fargli ripetere, durante la lezione successiva del corso avanzato, il contenuto della mia lezione, ne emerse che solo Logatto e Fornelli lo avevano ben capito. Scesi dall’alto della cattedra, mi sedetti davanti al primo banco, feci tradurre un paio di frasi dal testo di Mörike e da quello di Leopardi e feci qua e là delle domande di grammatica, di civiltà e di letteratura. In questo modo, le letture superiori procedevano piacevolmente e credo che i miei studenti avessero fatto tanti progressi quanti ne avevo fatti anche io stesso; ma ciò che mi aspettavo da loro non lo consideravano affatto. Durante il primo mese li vedevo come un sollievo dall’estenuante e deprimente corso base. Mi prendeva così tanto che, a marzo, oltre a questo, avevo un altro tema nel mio diario: l’enigmatico – perché umanamente per me è rimasto tale – Benedetto Croce.

Devo fare un passo indietro. Ancora prima della partenza per le vacanze di Carnevale andai a fargli visita insieme a Manacorda. Ripenso a quella sera non molto volentieri: non ero felice né di Croce, né di Manacorda e né di me stesso. Croce viveva a Trinità Maggiore, in un imponente palazzo; vidi delle scale e un corridoio in cui c’erano delle sculture che sembravano appartenere ad un museo. Ci aprì una ragazza che scomparve subito dopo. Ci togliemmo il cappotto, attraversammo tutto il corridoio pieno di quadri ed entrammo in una sala senza tappeti, rivestita da fredde mattonelle; una sala che la lampada a gas sopra il tavolo angolare non riusciva ad illuminare in tutti i suoi spazi. Al tavolo sedevano due uomini anziani e un altro più giovane; c’era un quarto uomo che aveva l’aspetto di un attore che, col capo chino, camminava su e giù con passo rimbombante. Nessuno si curava dell’altro. Al nostro: «Buonasera» ci rispose un mormorio, che si tramutò subito in silenzio. Ci mettiamo al tavolo, seduti a parte rispetto agli altri. Manacorda mi sussurrò che non conosceva nessuno fra i presenti. Dopo un bel po’, apparve, da una porta interna, un uomo, massiccio, calvo, in vestaglia. Manacorda si alzò in piedi: «Buonasera Croce» e, indicandomi, «Questo è il mio lettore». Una cortese stretta di mano, poi si scusò perché doveva assentarsi “ancora per un momento”. Di nuovo silenzio. L’uomo dalla camminata da pantera tirò fuori un quaderno e scrisse in piedi. Croce ritornò e ci presentò agli altri: i due uomini anziani al tavolo erano insegnanti di liceo, il giovane un ingegnere, quello col quaderno uno scrittore. Tutti e quattro parlarono poco. Croce si sedette dinanzi a noi. Se non avessi saputo che aveva 48 anni, gliene avrei dati dieci di più; non solo era grasso, ma anche un po’ molliccio, le sue guance penzolavano e la sua pancia, quando era seduto, formava dei rotoletti. E se non avessi saputo che era un filosofo creativo l’avrei scambiato per un ragioniere di Monaco; i suoi occhi grigi sono inespressivi, la sua bocca e il suo naso sembrano tutto fuorché ordinari. Una donna in là con gli anni portò a ciascuno un caffé e tutti tirammo fuori la nostra scatola di sigarette, tranne il padrone di casa. Egli batté le grosse mani per chiamare la governante, che arrivò poi portandogli una sola sigaretta passandogliela dalle sue spalle (come Albert Meyerhof secondo il ragazzo immaginario). Lo stesso successe più volte: l’isolamento dei visitatori e del gruppo di visitatori, la mancanza di un intrattenimento collettivo, il fumo, il caffé, la vestaglia. Tutto questo l’ho sempre riscontrato a casa di Croce, in guerra e in pace.

Quella sera la conversazione da Croce verteva un po’ su di me, poi solo alla fine su Manacorda. Ho fatto un po’ di fatica a seguirne il filo, perché Croce parlava continuamente, veloce, con la sua voce bassa e i tipici suoni sibilanti del napoletano. Mi abituai poi alla sua parlata, soprattutto il secondo anno, quando ebbi l’occasione di parlargli più in confidenza; non riuscii mai a decifrare la sua scrittura e più volte spedivo i suoi scritti a Dresda per farmeli decifrare da Vossler. Naturalmente mi si chiesero informazioni sul mio scritto per l’abilitazione e sul mio rapporto con Vossler. Ricevetti una sorta di sentenza su Montesquieu, che se oggi ci ripenso la trovo più inquietante di allora. Secondo Croce non viveva più tra noi, il suo “momento storico” era passato – e poi si parlò di Manacorda. Croce disse che la traduzione del Wilhelm Meister, che Manacorda criticava, non era invece niente male. Manacorda rispose un po’ offeso, Croce aveva preso le parti del suo uomo, mandando delle frecciate a Manacorda stesso. Non coglievo questi affronti in maniera totale e riprestavo attenzione a ciò che si diceva al tavolo solo quando udivo qualche risata del gruppo. Quando Croce volgeva lo sguardo verso di me durante simili episodi, gli sorridevo per celare il fatto di non aver capito nulla. Mi sembrava che non fosse particolarmente caritatevole verso i più deboli. La dolcezza non faceva affatto parte del suo carattere. Lo vidi poi prendere e sfogliare un volumetto da una rivista. Si trattava di racconti. Ne strappò una pagina che aveva delle parole scritte a mano e la lasciò sbadatamente cadere sul tavolo, mentre rimise il libro in tasca. Chi gli sedeva accanto prese il foglio e lo lesse, ridendo, ad alta voce: «Al mio vero maestro». Erano le nove; alle undici si avviarono tutti verso casa, mi sembrava come se fosse un ordine prestabilito. Verso casa, Manacorda tornò a lamentarsi sulla freddezza di Croce; poi disse, con tono aspro: «Anche Lei ha sorriso al suo scherzo sleale». Negai dicendo di aver solo ascoltato. Ma era solo una mezza bugia.

«Shpero rivederla»[21] mi disse Croce nel salutarmi; perciò decisi di fargli visita da solo. Ma quando ci andai i primi di marzo, mi disse il portiere che il senatore era in viaggio. Nel mentre però sghignazzava anche nel momento in cui gli chiesi quando il senatore sarebbe tonato a casa. Quando però mi feci titubante alla sua risposta: «non lo so», seguì un discorso in dialetto in cui riuscii a cogliere più volte la parola “shposato”. L’indomani Manacorda mi raccontò, un po’ scandalizzato, la grande novità della città. Croce, ancora abbattuto, si trovava in viaggio di nozze con sua moglie,una professoressa figlia del sindaco di Torino. «Ma non ha cuore!» ripeteva ancora più sentitamente  Manacorda parlando di Croce. Mi arrivò poi una lettera di Vossler, che scandalizzato non era, magari un po’ derisorio; voleva venire a Napoli ma non aveva intenzione di “cadere nel barattolo di miele della giovane coppia”. Nella lettera c’era anche qualcosa che avrebbe accresciuto la mia familiarità con la filosofia crociana. La Laterza voleva pubblicare in tedesco il suo catalogo del Giubileo per la mostra libraria a Lipsia e cercava proprio un traduttore per l’introduzione; tramite Vossler mi venne assegnato questo incarico e come onorario avrei ricevuto una cassa di libri da Bari, che erano tutti su Croce. Il lavoro non procedette senza difficoltà: non volevo prendere un’eccessiva iniziativa ma quando mi attenevo troppo al testo, finivo per essere ampolloso. Dopo un po’ di tempo tornammo da Croce, noi, ovvero Manacorda ed io; stavamo talmente tanto insieme che il fatto di far visita a qualcuno tutt’e due era dato ormai per scontato. Gli ospiti, questa volta, erano una dozzina, di nuovo tutti uomini, ma accanto al padrone di casa c’era la nuova signora. Ho sempre notato come la fisiognomica di una persona non corrispondesse necessariamente alla sua personalità, così come Croce non sembrava un uomo dotato di spirito intellettuale, così sua moglie poteva essere l’angelo del bene; indubbiamente aveva un viso cattivo, i suoi occhi neri e le sue narici erano un po’ da cattiva. Come entrammo, la donna stava conducendo un vivace dibattito con due oppositori: il discorso, estremamente dotto, ricco di citazioni, senza fine, riguardava Polibio. Tutti gli altri ascoltavano solennemente, neanche Croce parlava. Ma alle dieci accadde qualcosa di nuovo: Croce venne in abito da passeggio. Era una splendida giornata primaverile, i giorni delle stufette a petrolio erano ormai passati. “Una passeggiata coi giovani” mi spiegò sottovoce Manacorda. Tutti ci preparammo alla passeggiata e anche il cammino sembrava un qualcosa di consueto per tutti: si camminava a gruppi alternanti da due o tre persone, divisi all’inizio da persone o macchine che vi si intrufolavano. Si andò da via Toledo, passando per San Ferdinando fino alla strada Santa Lucia; poi il lungomare fino a Largo Vittoria. Alle 11 spaccate e proprio di fronte alla pensione Pastner ci congedammo. Per tutto il tempo la signora era circondata dai suoi due oppositori e io stesso riuscii per un po’ a stare di fianco a Croce. Mi sorprese il modo in cui conversava, così semplicemente e gentilmente naturale. Non c’era niente di quel filosofo che incideva sui suoi giovani, niente di quella fredda acredine, che notai in lui tempo addietro. Mi parlò calorosamente della sua amicizia con Vossler, del suo talento artistico, dei suoi lavori sulla filosofia del linguaggio. Poi il discorso andò sulla creatività linguistica del figlio di Vossler, che ha appreso sia dal padre tedesco che dalla madre italiana (la figlia di Domenico Gnoli, poeta e letterato) “Ich habe gemangiato”[22] “Io ho gegessato”. Poi ci raggruppammo e vidi Eugenio Mele, un erudito dello spagnolo, che conobbi fugacemente da Manacorda. Era come se mi leggesse nel pensiero. «Non si lasci influenzare da Manacorda» mi disse «A lui manca un po’ di comprensione verso Croce. Croce è una bella persona, cordiale così come è intellettuale» – «Abbiamo cercato di capire il motivo del suo improvviso matrimonio» gli risposi e lui cominciò a dirmi qualcosa del “primo”. Suonava diversamente da come me ne parlò Manacorda, come una variante della “Resurrezione” di Tolstoi. «Non poteva sposare la prima sszaignora perché l’aveva conosciuta per la strada. Era una perduta – una cocotte[23]. Lui comunque la istruì, divenne la sua compagna e una vera signora; si è mostrata molto amichevole nei miei confronti e anche verso quelli di Vossler. Il suo rapporto con Croce è durato una ventina d’anni e la sua morte gli straziò il cuore» – «Ma non riesco a capire l’imminenza di queste seconde nozze» – «All’inizio neanch’io; ma poi lui stesso mi spiegò. Il suo amore è sempre per la defunta, solo che non voleva vivere in tristezza e in solitudine, perciò ha sposato la prima persona con cui ha legato e che gli ricordasse la prima donna». Come perdemmo di vista Croce e gli altri, Manacorda si rivolse a me dicendomi che non riusciva a dormire né a lavorare per l’agitazione. Di nuovo ci facemmo via Partenope su e giù e di nuovo si lamentava del fatto che Croce fosse una persona senza cuore. «Ma che ha oggi con lui?» lo interruppi: «avete di nuovo discusso del Wilhelm Meister?» – «No, parlavamo di un artista che due anni fa uccise sua moglie per gelosia. L’uomo è stato in prigione e ora lavora di nuovo, si è reinserito nella società, ben predisposto di nuovo verso le donne. Come se non fosse successo nulla.  Io dissi: «Non riesco proprio a capire. Aborro tutto questo». E Croce mi ha risposto: «Lei manca di buonsenso. Chiunque può ricominciare la sua vita daccapo”». -

Così venne la Pasqua, che allontanò la scarsità del corso base e, momentaneamente, anche il discorso su Croce. Alla pensione venne un giovane sacerdote, in vesti bianche e colorate e che camminava col suo aspersorio penzolante benedicendo, con le sue preghiere, tutte le stanze. Facemmo quattro passi[24], i più belli della mia vita. Raramente ci siamo mossi in treno e mai in quelle macchine in cui avevamo sempre visto ai posti d’onore gente appisolata. Tutto ciò ebbe delle curiose conseguenze. I vetturini non riuscivano a concepire il fatto che un inglese[25] potesse andare a piedi e ci seguirono sollecitandoci molto ad andare con loro. Per tre paesini uno ci rimase dietro. Uno volle addirittura colpirmi nel mio onore: «Ma siete così povero?» Mi parlò di una macchina che sollevava polvere nel passare, tra l’altro l’unica che vedemmo passare nonostante ci fossero delle indicazioni stradali. Tentò di farmi preoccupare sulla salute di mia moglie: «Vedete che polvere! Pensate alla salute della povera signora».

Cominciammo col visitare Cava dei Tirreni; distava solo a 50 chilometri da Napoli, ma era come se fosse in un altro paese: sembrava quasi di stare tra le montagne tedesche. Qui feci amicizia con un po’ di lucertole; nella prima mezz’ora ne abbiamo contate dodici, una più graziosa dell’altra. «Se nella prossima mezz’ora ce n’è un’altra dozzina, finirò in tempo il mio Montesquieu». Ne contammo 18, fra quelle visibili, oltre a innumerevoli codine che frusciavano ovunque.

Da Cava, dove soggiornammo per quattro giorni, ci rimettemmo in viaggio per Paestum. All’inizio c’erano molti stranieri al tempio, ma a mezzogiorno si allontanarono tutti per andare in osteria ed abbiamo avuto un’ora di piena solitudine.

Faceva fresco a Paestum, c’era una brezza marina che muoveva l’erba del prato ed i fiori, come se fossero un secondo mare. L’indomani sulla lunga strada per Amalfi conoscemmo il gran caldo del sud. A mezzogiorno in punto giungemmo sulla cima di Capo d’Orso, l’aria vibrava come nei forni da catrame con cui da noi si riparano le strade; la grigia roccia brillava e splendeva, così come il mare, lontano, in basso, nelle insenature tra rocce  e fiordalisi; l’afa silenziosa portava sonnolenza.

Arrivammo per tempo a Sorrento, per assistere alla processione del Venerdì Santo. Eravamo sulla terrazza dell’albergo che era occupata da stranieri e sotto rumoreggiava un gruppo di ragazzini. Questi si spingevano l’un l’altro, provavano ad arrampicarsi sul muro del giardino e gridavano sempre più forte:«Un soldo, un soldo!». Poco per volta cominciarono a cadere verso di loro delle monete di rame e nel momento in cui  il gruzzolo si era arricchito, ecco che comparve la processione. Ciò che più mi colpì furono gli uomini incappucciati, vestiti di nero, che portavano su piatti d’argento i simboli della Passione e della Crocifissione: la frusta, il martello, i chiodi, le tenaglie. A pochi passi da noi la processione fece una sosta in una chiesetta. Quello che portava le tenaglie rimase fuori e si appoggiò stanco al muro. Sollevò un po’ il saio e si tolse il velo dal viso: era il sosia del bel Fajella. Tirò fuori una scatola di sigarette e fece brillare la sigaretta presa con una boccata. Sembrava che si stesse rilassando così e che stesse pensando ad una qualche bella melodia; sorrideva e tintinnava piano, con la mano libera, sul piatto oscillante dalla stessa. Gettò via il mozzicone, si rimise la visiera e riprese il suo posto nel corteo con dignità. L’ultimo giorno dell’escursione siamo saliti sul Deserto, un colle che si erge su Sorrento, la cui cima arrotondata gli ha fatto dare questo nome. Lì c’era un istituto per bambini abbandonati. Il golfo, che siamo abituati a vedere nel suo lato romantico e classico, si mostrava tutto ai nostri occhi: Capri, Ischia e Procida erano immerse nel mare blu. Vedemmo il Vesuvio, la baia, Pozzuoli, tutte cose a noi già familiari, e verso l’interno del paese si ergevano delle montagne innevate: ecco l’Abruzzo, di cui Fornelli ci parlava sempre con entusiasmo. Del resto io esprimevo il mio entusiasmo senza lirismo. «L’anno prossimo» dissi: «Avremo il nostro libretto». Questo libretto dell’impiegato statale italiano, che avrei dovuto prendere il secondo anno di servizio, significava per me e per mia moglie, nonché per i miei figli e la bambinaia, una significativa riduzione del prezzo sui treni del paese.

Uno dei ricordi materiali di questi giorni di escursione mi rimase impresso ancora per molto tempo. A causa del caldo, infatti, mi ero fatto togliere i baffi, per avere un maggiore senso di pulizia sul viso e mantenni poi quell’aspetto senza barba, anche se in Germania questo look non era molto consueto. Quando Georg mi vide così per la prima volta, era scioccato; prima provò a prendermi in giro, dicendomi che Dio aveva creato la barba per nascondere la lunghezza del naso e quando vide che non funzionava mi disse seriamente: «Colpisce molto, non è da borghesi, direi che sembri un attore». All’arrivo a Napoli, mi sentii felice, venne già fatta la richiesta per il libretto. Persino le letture si svolgevano in pace e nel corso base ci affiatammo parecchio. La sciagura si abbatté di nuovo su Manacorda. L’imponente Jungano mi fece chiamare e mi disse, in modo paterno: «Rammenti a Manacorda che il Suo certificato può essere presentato fino alla fine del mese; questa è l’ultima scadenza». – «Ma il mio incarico dura per due anni scolastici e non posso rimanere di più qui». – « È un errore. Il suo impiego qui durerà fino alla chiusura ufficiale dell’anno scolastico, ovvero fino al 16 ottobre 1914. Deve essere nominato all’università per un altro anno su richiesta del governo». Manacorda rise quando mi rivolsi a lui per questa faccenda. Era caratterizzato da una certa civetteria. Era tutto “puramente formale”, “professionale”. Ma era comunque sbigottito. E se D’Ovidio trattenesse il suo vecchio candidato? Forse la Facoltà questa volta sosterrebbe il mio collega più anziano di alto rango. Mi sentivo terribilmente a disagio. Non solo volevo stare un altro anno fuori per l’italiano, ma anche a Monaco e a Berlino sapevano con certezza che il mio lettorato sarebbe durato per oltre due anni e un ritiro prima del tempo non avrebbe certo giovato alla mia immagine.

La cosa però finì bene. «La richiesta per il Suo nuovo certificato è già stata spedita a Roma» mi comunicò Manacorda tre giorni dopo. «Ma D’Ovidio si è opposto?» – « È ignaro di tutto questo, lo abbiamo ingannato». Il geografo era colui che avrebbe steso il verbale, l’ho conosciuto da poco e poi con Jungano sono amico da anni. Proposi la domanda all’inizio della riunione, quando D’Ovidio ancora mancava. Nessuno era interessato, perciò, tempo pochi secondi e la faccenda si era già sistemata. Dopodichè, alla lettura del verbale, parlai un po’ con D’Ovidio; non aveva notato nulla per quanto la cosa era stata fatta velocemente. Del resto si è occupato invece Jungano.

Certo, non è che fosse tanto lusinghevole per me, né per l’università. Finora non c’era stato nulla che mi avesse fatto provare un certo rispetto per la vita accademica napoletana. Ma non volevo dare un giudizio che generalizzasse il tutto. Un’altra prospettiva me la diedero gli esami che cominciarono alla fine di aprile e a cui ho preso parte come membro della commissione. Ero così curioso ma Manacorda non poté o non volle dirmi nulla a riguardo per orientarmi un po’ poiché, a suo avviso, l’andamento degli esami dipendeva da una serie di elementi materiali poco interessanti (il che non è che fosse del tutto sbagliato).

Si iniziò con la riunione della commissione. Torraca, decano presidente della commissione, tolse la virginia dalla bocca sia nel leggere le disposizioni sia nel discutere ogni singolo punto. Dei presenti, oltre a lui, conoscevo Manacorda e D’Ovidio, che scambiò il suo cappello da strada col berretto. Poiché si trattava di un esame di Stato per l’insegnamento nelle scuole medie, venivano consultati anche dei professori delle stesse, come l’elegante barbuto francese, la magra ma forte inglese, un uomo da Probst che insegnava da tempo all’istituto dei cadetti e che tempo addietro era un ufficiale austriaco. I candidati erano circa 120, tra cui molte donne; dovevano cimentarsi con la loro lingua di studio, più di un centinaio col francese, nove con l’inglese e solo tre col tedesco. Si poteva raggiungere una facoltà limitata o piena. In entrambe i casi, i lavori scritti consistevano in dettati e temi in lingua, oltre ad una traduzione nella lingua studiata; per il grado inferiore vennero scelti dei temi più facili. Per i temi e per le traduzioni vennero concesse sei ore.

Mentre il decano stava dando le ultime istruzioni, entrò nella saletta un uomo grassoccio e occhialuto, fece un cenno a Jungano per farlo alzare dal tavolo e chiacchierò con lui a voce alta e un po’ fastidiosa vicino alla finestra. «Il Rettore Cucchia», mi sussurrò Manacorda; andai piano piano dall’altra parte e questi chiamò il mio nome: «Klem…Klempelle? Come si trova a Napoli?». Un’amichevole stretta di mano e prima che potessi rispondere si rivolse di nuovo al segretario. Era un filologo; non tanto come Rettore quanto come professore in una disciplina analoga e avrebbe comunque potuto interessarsi al lettorato tedesco. « È l’anima della sciatteria locale» mi disse Manacorda, quando tornò al tavolo. «Fornelli» dissi: «la esprime ancora meglio».

Quando toccò ai temi di tedesco, Manacorda nascose la sua partecipazione dietro la sua gentilezza cedendo il passo “ai due signori tedeschi”. Probst propose dei temi morali altisonanti :“Il valore della conoscenza di se stessi” – “Perché dietro al diletto empirico c’è quello spirituale?”. A Fornelli diedi un tema sul drammaturgo Lessing mentre a quelli di livello inferiore una descrizione piuttosto facile. Manacorda fu d’accordo e le proposte vennero accettate.

Nei giorni successivi, a prescindere dalle ore di dettato, non c’era cosa che avessi fatto che non  rientrasse nelle competenze di un bidello. Ma non è che me ne vergognai, poiché gli altri membri della commissione, anche il vecchio D’Ovidio, fecero lo stesso. A due a due controllavamo chi scriveva. Sedevamo sulla cattedra o giravamo intorno al gruppo, facevamo un cenno di assenso col capo quando un candidato o una candidata si dirigeva verso la porta rivolgendoci uno sguardo eloquente, davamo un’occhiata severa, oppure rimproveravamo coloro che sentivamo suggerire o che guardavano il foglio del vicino; quando ci consegnavano i fogli scrivevamo dietro i nomi e l’ora di consegna. Si conversava a bassa voce l’uno con l’altro, si leggeva il giornale o si scrivevano lettere. Ero abbinato all’inglese, poi col francese e infine con D’Ovidio. Per tutta l’ora che stava di guardia, l’inglese se ne stava rigido affianco alla cattedra. Il bel francese barbuto mi parlava incessantemente davanti alla finestra. Da 23 anni insegnava in Italia, da 20 era membro di questo genere di commissione; in continuazione si lamentava, un po’ indignato, un po’ beffardo, degli allievi, universitari e non, e il suo ritornello ricorrente era: «Da noi, in Francia, è diverso, si è più esigenti e proficui». D’Ovidio si era accorto che non riconoscevo il suo titolo di patriarca. Quando la dodicesima candidata chiese di uscire, disse alzando lo sguardo dal libro: «La latrina è la decima musa degli studenti». Per passare il tempo davo uno sguardo ai compiti già consegnati.

I temi in italiano erano quelli che mi interessavano di più, perché ebbi modo di farmi un’idea del livello di cultura generale degli studenti. Dovetti concordare col collega francese: la richiesta era esigua e il rendimento ancora di più. Sono stato commissario d’esame, durante gli ultimi anni del mio incarico a Dresda, per l’Abitur[26] e ho avuto modo di leggere dei temi: i compiti di questi esami per l’insegnamento, nelle nostre scuole medie, sarebbero stati di livello base e per raggiungere quello avanzato, avrebbero dovuto essere più accurati. I candidati del livello inferiore avrebbero dovuto esprimersi sul motivo per cui la perdita di tempo disturbi i più istruiti. Mi annotai parola per parola dei pezzi del tema di una ragazza. L’inizio era “Time is money”…”Lo so professore, che questo inizio può sembrare banale, ma a modo mio non posso negare di seguire la mia natura e parlare a proverbi – il lupo lascia la pelle e non il vizio[27]…mi riterrà sfacciata? Oh, vedrà come all’esame avrò il volto pallido, le labbra smunte e il mio tremore…ma il tema, il Suo tempo, Professore…già ci penso, certo, ci penso…” Andava avanti così per due facciate di foglio; alla terza e ultima diceva che tutti i grandi uomini hanno lesinato il loro tempo, tutti “da Platone a Nietzsche, da Ippocrate a Ehrlich”. E così finiva la dissertazione. Ovviamente la maliziosa scrittrice non passò l’esame ma senza dubbio era del parere di aver fatto qualcosa di adeguato e di buono. E magari coloro che avevano parlato in toni più seri, non erano per contenuto  di livello superiore.

I candidati del grado superiore scrissero sull’uso e sull’arte del tradurre. In questo caso mi interessai molto al lavoro di Fornelli; era il migliore che avevo letto, alla maturità era passato con un “sufficiente”. Non vorrei parlare di questioni tecniche, ma ciò che vidi dai lavori in lingua non mi diede impressioni diverse rispetto a quelli in italiano.

La causa di questo livello basso era degli studenti? Per un momento credetti che i professori sarebbero stati più miti nei loro giudizi; come si discusse sugli esiti dei lavori scritti, la commissione non fece passare, con una certa brutalità, secondo un semplice sistema di valutazione, cento dei centoventi candidati all’esame orale. Ma all’orale per i sopravvissuti a quella strage la situazione si alleggerì. Come si poteva considerare lo zelo e l’esemplarità dei professori che invece ammettevano la maturità di così pochi studenti? Quando un qualsiasi emerito professore moriva, anche se era da 30 anni in pensione, come si usa da noi, non solo c’è una circolare del senato a comunicarne la morte, ma l’intera università esprime il suo cordoglio durante la sua sepoltura. Già per mio breve periodo di attività sono capitato più volte in un simile rapporto professore-studente. Al massimo un docente poteva preoccuparsi che in caso di altri decessi le “sue 50 ore” sarebbero state in pericolo.

Quest’espressione: “le mie 50 ore” l’ho sentita quasi tutti i giorni e la trovavo piuttosto impegnativa. Negli incarichi di ufficio del professore universitario erano previste almeno 50 letture nell’anno. Nessuno si preoccupava dell’ ”almeno” e tutti miravano a superarle. Il migliore in questo era il romanista Savy-Lopez. Poiché il suo caso mi venne narrato da due suoi avversari, Manacorda e Mele, lo presi ancora più per vero. Savy-Lopez, i cui lavori erano stimati anche in Germania e che ebbi modo di conoscere, anche se fugacemente, non era solo uno studioso, ma anche un uomo di mondo. Viveva separato da sua moglie, appartenente all’alta aristocrazia ed aveva una relazione amorosa quasi ufficiale con una duchessa di Napoli. Era professore all’università di Catania. Il primo giorno dell’anno scolastico cominciò le sue letture e continuò giorno per giorno fino al completamento delle 50 e già a Natale andò ad abitare, fino alla fine dell’anno, a Napoli.

No, non era un giudizio avventato, insufficientemente motivato e tipico dell’arroganza prussiana ritenere la vita accademica italiana piuttosto problematica. C’è da dire che Manacorda ad ogni occasione sfavorevole ripeteva sempre che cose di questo tipo potevano accadere solamente a Napoli, nella peggiore università d’Italia. Tuttavia questa peggiore università naturalmente era, del resto, anche la più frequentata e le norme che disciplinavano gli studi e gli esami valevano allo stesso modo naturalmente in tutto il paese. “Può essere” scrissi nel mio diario, in un confronto poco rispettoso “che tra l’Università di Napoli e le altre scuole superiori esista la stessa, ma non maggiore, differenza di quella verificabile in questa città, tra tranvieri e professori, che(entrambi) non prendono i loro doveri professionali in maniera esagerata”. Coi tranvieri le cose stavano proprio così. Probabilmente erano solo degli uomini cattivi e mal pagati. Sin dall’inizio del nostro soggiorno abbiamo sentito la gente lamentarsi della loro poca affidabilità e della loro propensione allo sciopero e come tornammo dalle vacanze di Pasqua noi stessi ci imbattemmo in uno sciopero dei tranvieri che si è prolungato, tra l’altro, per tutto il tempo del mio primo anno scolastico, in maniera piuttosto fastidiosa. Alla fine l’affronto alle scuole superiori italiane lo aveva provocato proprio Manacorda, poiché lui stesso, che insiste sulla sua essenza di italiano del nord, aveva per me ottenuto scarsi risultati. La sua funzione nella commissione, infatti, non concerneva solamente i candidati per la lingua tedesca, ma anche quelli del francese, dei quali lavori si preoccupò poco, venendo così ad un alterco con Torraca.

Per un pelo la vittima di questa tensione non fu il bravo Fornelli, l’unico nostro ragazzo che si presentava agli orali, poiché gli altri due non erano passati. Fornelli aveva mantenuto il suo solito zelo. Se avesse ottenuto 140 punti (il massimo era 150), aveva buona probabilità di ottenere una borsa di viaggio per la Germania. Durante l’esame egli rispose piuttosto bene a molte domande, come prova fece un piccolo discorso in un tedesco senza errori, anche se magari un po’ elementare. Manacorda ed io volevamo dargli gli attesi 140 punti, ma il signore di Probst disse che il candidato parlava un tedesco elementare e perciò voleva dargli una valutazione minore. La decisione spettò alla presidenza – «Deve sostenere Fornelli» dissi a Manacorda – «Non apro più bocca» mi rispose, «Torraca mi ha troppo irritato!» E in effetti tacque. Così dovetti lottare io per i punti di Fornelli. Li conquistai e fui fiero della mia arringa fatta in un italiano piuttosto progredito.

C’era un’attenuante alla scarsa partecipazione di Manacorda a questi esami. In quei giorni, infatti, era molto preso e un po’ irritato per Fiorita, una nuova impresa culturale della sua amica Principessa, probabilmente da lui proposta e diretta. Era un’opera snob e ingenua che scherniva il pensiero di Croce. Nell’introduzione artistica (La principessa invita) erano raffigurati dei fiori in una cornucopia e sotto c’era scritto che quella era la prima copia concessa dell’originale pompeiano che si trovava al Museo Nazionale. In un’altra pagina Manacorda annunciava una conferenza tenuta da diversi oratori sui molteplici stimoli ed insegnamenti degli intellettuali colti. Alla Fiorita potevano prendere parola solo coloro che “avevano una propria visione da rivelare” – era una proposta così audace che Manacorda stesso fu tra i primi a parlare.

La benedizione, all’inizio protratta, della cornucopia sulla cima del Vomero cominciò subito dopo maggio. Luogo dell’esposizione era il Suor Orsola, un vecchio convento, ora scuola superiore femminile patrocinata dalla Principessa. Anche se consideravo ogni punto del Vomero come il migliore, certamente questo qui era proprio il migliore in assoluto. L’anno successivo tenni lezione qui quasi tutti i giorni e questo fasto fiabesco mi toccava sempre di più. Tramite un ascensore si accedeva ad una galleria di vetro da cui si scorgeva immediatamente il panorama di Napoli; dopo la galleria si arrivava ad un giardino e ci si ritrovava di nuovo in un’altra favola. C’era un giardino in pietra, circondato da mura spesse, con sentieri spianati, molti pilastri ed archi, ma era anche il giardino più variopinto, più verdeggiante e vasto, fortemente impregnato di fragranze di fiori d’arancio. Da qui poi si accedeva alla sala conferenze al piano terra; era lunga e stretta, alle sue pareti rosse scuro erano appesi dei tappeti e dei dipinti; sembrava uno stile da chiesa, oltre ad essere molto rigoroso. C’era posto per circa 300 persone e questo, talvolta, poteva essere fatale. La Principessa, che accoglieva lei stessa gli ospiti d’onore, accolse anche noi: «mi ricordo bene…abbiamo preso insieme un tè», voleva vedere la sala piena e, se mancava il pubblico, ecco che accorrevano le studentesse della scuola superiore. Di solito, le giovani ragazze costituivano una divertente maggioranza. «Salvemini» notai «ha gettato le perle ai maiali».

Oltre a commenti ironici, la Fiorita presentava comunque vere e proprie conferenze. La più seria che ho sentito era quella di Salvemini, “Mazzini”. Mi intrattenni per un paio di minuti col suo autore sul tema che mi interessò dalla “Giovane Germania” in poi. Di Salvemini ebbi l’impressione di un calmo, equilibrato studioso e all’inizio lo avevo scambiato per un professore di liceo e non per un politico italiano. Prima era professore di storia all’Università di Pisa. Fece pubblicare un giornale di stampo socialista, L’Unità, e poi si candidò per il Parlamento. Tornando a casa, seppi da Manacorda la storia drammatica di quest’uomo. Nel 1908 lavorava a Messina. Nel terremoto, che in pochi minuti annientò la città e che uccise la metà dei 160.000 abitanti, perse tutta la sua famiglia; la moglie e quattro dei suoi figli furono trovati sotto le macerie della loro casa, mentre il quinto figlio fu cercato per lungo tempo invano. «Dopodichè dormiva tutto il giorno e solo in un secondo momento si dedicò alla politica, probabilmente per colmare il vuoto», mi disse Manacorda e poi passò alle sue esperienze.

Subito dopo la catastrofe di Catania venne incaricato di recuperare i tesori bibliotecari. Gli vennero affiancati Jungano e 30 soldati. «Trovavamo sempre più cadaveri, feriti e moribondi. Ho visto che cos’è la morte, per molto tempo non riuscii a liberarmi dell’odore dei cadaveri, lo sento ancora adesso, in questo momento». Era piuttosto pallido e la veemenza del suo sentimento aveva in qualche modo accresciuto la mia vacillante simpatia nei suoi confronti. Ma alla fine di questo momento di memoria, ritornò il solito nazionalista: «Il terremoto ci è costato un miliardo e vi abbiamo perso 200.000 persone, ma noi abbiamo tenuto duro!».

Come compito per la Fiorita, tenne un ciclo su Maurice Barrès e parlava in una commistione tra Estetica e romantico Chauvinismo peculiarità propria dei lavori di questo autore francese.

Molto più leggero di Salvemini e Manacorda fu il geologo dell’Università di Parma, Paolo Vinassa de Regny – i maiali vennero a sue spese. Allora D’Annunzio era un Atout e così Vinassa chiamò la sua conversazione con un termine tipico del poeta: “L’Amarissimo Adriatico”. Si limitò a due frasi anti-austriache e presentò al piano della mostra, come un buffo uomo a fiera, proiezioni suggestive dell’Albania, del Montenegro ecc. Tuttavia, alla sera, lo conobbi sotto il suo aspetto peculiare. Manacorda lo invitò al nostro salone per un tè, di cui ormai potevamo disporre privatamente. (“Privatamente” per quanto riguarda la gente, poiché col caldo incalzante, quando si faceva tardi, venivano degli scarafaggi di imponente grandezza e numero). Il biondo e magro Vinassa, i cui folti baffi sulla grossa bocca e sul mento avanzante gli davano un non so che di aggressivo, ci raccontava appassionato di come tredici anni fa vagasse in cerca di qualcosa a Tripoli come mercante di uova. «Ero il primo emissario del nostro governo ed il mio pagamento e la mia sorveglianza erano affidati al Banco d’Italia. Dopo di me ci sono stati molti economisti e ufficiali, ma il primo che ha preparato il cammino per le nostre legioni sono stato io». Solo un’altra volta ho visto Manacorda così raggiante come quella sera. Poco dopo, il giorno delle riunioni studentesche, provai, da parte mia, un certo senso di indignazione. Le riviste riportavano cronache di una rivolta a Trieste e come mi apprestai a cominciare alle 11 la lezione del corso avanzato, vidi l’università ricoperta di foglietti rossi e da tanti manifesti. C’erano inviti a fare dimostrazioni di protesta contro l’Austria da parte di molti studenti e professori, oltre ad un fitto brulichio nella tromba delle scale e nei passaggi confinanti. I tenui berretti da studenti senza visiera, che qui contraddistinguono la Facoltà (non un’associazione in senso tedesco) sono in maggioranza anche se vidi molti visi fanciulleschi senza berretto. Sotto, vicino la portineria, vidi un podio. Notai le teste di due uomini di una certa età, una bandiera di seta e qualche simbolo di stampo romano. Vedo gesticolare e sento parole frammentarie, incomprensibili, che si immergevano sempre più in un immenso rumore di voci, fischi ed urla. Mi faccio largo fino alla sala dei miei colleghi; solo Fornelli si trovava lì. «Deve immediatamente sparire» mi disse preoccupato: «Possono verificarsi degli incidenti. Conosco un’uscita tranquilla». E mi ci condusse.

C’era tutt’altra riunione studentesca rispetto a quelle parigine dello scorso inverno. La riunione si teneva nell’università stessa, durante le ore di lavoro, il che rendeva le lezioni impossibili. Era stata convocata dai professori e dagli studenti insieme; era diretta verso gli alleati del Paese. Questa volta pensai: «Questo può succedere solo in una città indisciplinata come Napoli – siamo meridionali!». Ma poi lessi sul Roma, il grande giornale locale, che le stesse riunioni di protesta si stavano tenendo anche nelle altre università d’ Italia. Solo a Roma il vile Rettore, schiavo del governo,  proibì le manifestazioni. L’uomo non si vergognò di chiudere l’università. Poi il Roma riportò, e questo non può che destare stupore, di come molti liceali e studenti di scuole tecniche abbiano «abbandonato le lezioni in preda all’agitazione patriottica». Manacorda, come già detto, era attratto da queste agitazioni patriottiche giovanili e non riuscì a comprendere la mia indignazione. «Lei parla di disciplina scolastica, ma qui si tratta di qualcosa di grosso, del massimo. Si parla dei nostri rapporti amichevoli con la Germania, ma la Germania e l’Austria sono due cose diverse. L’Austria è la nostra nemica di sempre, è il nostro aggressore e agisce con tirannia sulle nostre province non libere».

Mi sono sempre rimproverato per il fatto di aver sottovalutato un pollo cieco come lo Chauvinismo francese, di non essermi preoccupato neanche di quello italiano, di essermi irritato per queste riunioni che hanno rivelato così acutamente lo stato pietoso della scuola italiana; ma comunque avevo meno motivi per vergognarmene. Durante la riunione c’era anche lo sciopero dei tranvieri, nelle strade di Napoli c’erano molti miseri proletari, come nei quartieri poveri di Parigi, nei giornali non mancavano sintomi di malcontento sociale. Anzi, c’erano delle rivendicazioni rivoluzionarie: come potevo prendere sul serio lo spettacolo bellico di immaturi liceali e l’imponente fanatismo di Manacorda? L’Italia era pronta per una guerra su scala europea? E poteva essere sicura di vincere solo perché ha represso la povera Turchia da Tripoli? Sono solo assurdità a cui non dedico neanche una riflessione.

Del resto, e questo mitiga un po’ tutte le considerazioni politiche, in quella settimana cominciai a custodire, sempre più gelosamente, le mie riflessioni. Durante la Pasqua trascorsa a Cava presi le lucertole come un segnale per il mio Montesquieu; non doveva essere affatto qualcosa che poteva trarmi in inganno. Agli inizi della mia vita a Napoli mi sono fatto trascinare da tutto ciò che era nuovo; poi la mia coscienza venne destata, ma era più uno sfogliare gli appunti francesi piuttosto che metterli in atto. Ma dovevo, a qualunque costo, prendere l’abilitazione a Monaco ad ottobre. Tra la posta che abbiamo trovato dopo il nostro ritorno da Sorrento c’era anche quella fotografia del matrimonio del mio fratello minore, cui ho fatto cenno una volta, e che ancora oggi vedo davanti a me con lo stesso sguardo tormentato di allora. Questa immagine mi tormentava due volte. Il modo in cui Berthold lì, che si stringeva sugli scalini della chiesa con al braccio sua moglie, figlia di un generale, lui che mi era amaramente estraneo, la concretizzazione di ciò che mi separava dai miei fratelli. Avrei voluto così tanto liberarmi dalla dipendenza che avevo da loro, e per questo, dopo molti fallimenti, l’unica strada era il professorato. Ma c’era ancora qualcosa che mi tormentava: questa battaglia per la cattedra universitaria mi rendeva colpevole dello stesso arrivismo che mi si opponeva nella foto? C’era solo una possibilità di giustificarmi, ovvero il documento di lavoro del mio nuovo incarico. Le lucertole avevano ben detto. Un’altra cosa mi spronò e forse in maniera più veemente: un’affettuosa e collegiale lettera di Georg. Mi scrisse che era diventato un Geheimrat (consigliere segreto), ma aggiungeva malinconico che questo era dovuto all’età, una sorta di riparazione. Aveva lasciato la direzione dell’istituto per il cancro, perché non aveva raggiunto il tanto desiderato successo; ora si avvicinava ai cinquant’anni e all’ospedale. Il professorato e l’attività privata lo sovraccaricavano, perciò doveva risparmiare le sue forze. «Forse affiderò tutto ai miei quattro figli». Ci ripensai la mattina, poiché lessi su un giornale delle scoperte in materia di cancro, pensai: «Tra Georg e la nuova generazione ci sono io, le lucertole avevano predetto bene».

Da Pasqua mi rimisi a lavorare sul Montesquieu, tuttavia non riuscivo a lavorare bene a causa dei troppi motivi di deconcentrazione. Nella nostra stanza della pensione, il tavolo rotondo era sempre pieno di vestiti, cioccolata, lettere, strumenti per il fumo, aspirine, cartine geografiche, acqua di colonia, frutta. Inoltre i fogli degli appunti dovevano essere tutti sparsi e bisognava fare spazio per il lavoro stesso e per le minacciose bottigliette di inchiostro. Nulla stimolava l’animo. Inoltre, il caldo si faceva sempre più pesante. Mi prese una certa, intima, stanchezza di Napoli, una inconsueta nostalgia di Monaco. Lì c’era una grande stanza in cui potevo muovermi senza urtare il palo del letto; c’era una scrivania più grande, sulla quale potevo spargere la mia roba, e non solo quella; non c’era nessuna tentazione, nessuna Partenope, nessuna Toledo, nessun Vomero.

All’università la situazione diventava ogni giorno più tranquilla. Già molti professori avevano sbrigato le loro cinquanta ore, già gli studenti cominciavano ad assentarsi da tutte le aule(e non soltanto dalla mia). Manacorda disse: «Il 1 giugno potrebbero terminare le lezioni, non più tardi del 20 ci saranno gli esami – gli studenti dovevano dimostrare la loro preparazione su ogni corso a cui si erano iscritti, sostenere gli esami in modo tale da ottenere il riconoscimento della loro partecipazione ai corsi – dopo di che Lei è libero».

A noi avrebbe fatto piacere trascorrere questo periodo di tempo in un posto fresco in Abruzzo. Ma questo sembrava non potersi realizzare. Da ciò compresi l’inaffidabilità di Manacorda per quanto riguarda il sistema universitario, e mi rivolsi a Jungano, il quale stava dando proprio la stessa informazione ad alcune persone lì presenti. «Posso concludere il 1 giugno? A quel punto avrò raggiunto le 59 lezioni, qualora nessun professore muoia, e già adesso non ho più studenti che frequentano il mio corso». – «No», disse Jungano in modo alquanto serio e chiaro, «Tutto ciò è contro la legge. La convinzione per la quale bastano cinquanta lezioni è arbitraria e inammissibile. Lei ha l’obbligo, naturalmente ad eccezione della festività della Pentecoste, di insegnare fino al 15 giugno. Qualora non sia presente nessuno studente, lei deve mettere per iscritto l’argomento della sua lezione e presentarlo alla segreteria». Tornai a casa deluso, dovevo ridere della mia stessa rabbia e annotai: «Sono condannato a stare 3 settimane a Napoli». Ero ancora arrabbiato e affaticato dal gran caldo. Anche l’effetto della polvere insetticida, marca Razzia, diminuiva sempre più. In questi giorni si manteneva lo scetticismo sul consiglio segreto di Berlino.

Il 29 maggio (lezione davanti a due studenti) incontrai Jungano per caso. «Lei insegna ancora? Fervore prussiano!» – «Ma lei mi disse che…» – «QQQQQuella era naturalmente una informazione coram publico». «Manacorda non l’ha informata? Naturalmente lei può terminare adesso come tutti gli altri». Così partimmo per Scanno, mentre le nostre enormi valigie vennero spedite a Monaco.

Scanno, un piccolissimo paesino in Abruzzo a 100 metri di altezza, che mia moglie aveva individuato sulla piantina e che non era considerata come una meta turistica. Una parte del viaggio la percorremmo su un treno regionale. Il sedile del coupés era lucido di unto, e per terra luccicava un lago di vomito. Ma nel pulitissimo ristorante della stazione a Cajanello servivano come unico piatto i più squisiti maccheroni. Per la prima volta mangiammo solo cibo locale e imparammo il modo in cui avvolgere la pasta con un rapido giro intorno alla forchetta. Un cliente si lamentò del formaggio grattugiato, era pecorino, non parmigiano. Il cameriere protestò con gran dispiacere, lo aveva grattugiato lui stesso. «È parmigiano, l’ho grattato io! »[28]. L’ultimo chilometro lo percorremmo in un piccolo furgone per la posta, tra residenti e viaggiatori.

Durante i quattordici giorni seguenti non ci capitò di vedere nessuno straniero. Dal primo all’ultimo non ci capitò di vedere nessun panorama tedesco sulle cartoline, panorami che noi con vergogna ritenevamo francesi.

Serbai come ricordo uno strano quadro paesaggistico geometrico, che giocava con le forme della realtà, stilizzandole. Il terreno a valle, per metà un lago e per l’altra metà prato, terreno coltivato e zona boscosa, formava un’ellisse che aveva per asse trasversale il dorso di una collina. Monti alti, brulli e inospitali circondavano l’ovale da tutte le parti. Lì, dove noi sapevamo, pur non riuscendo a vedere, che ci fosse la stretta uscita dalla valle, si ergevano due cime appuntite del tutto uguali, tanto che ci sembravano due orecchie di gatto, e noi al sorgere della luna piena per una questione di simmetria vedevamo dalla parte di un orecchio una seconda luna. Luna piena e stormi incredibilmente grandi di lucciole intorno al cespuglio del cimitero, solitudine e desolazione delle strade di montagna, cani con grossi collari di legno per proteggersi dai lupi, e nel Baedeker l’informazione: “a quote più elevate a volte si possono scorgere degli orsi!” Noi non ci siamo mai imbattuti negli orsi né nei lupi, nonostante abbiamo percorso a piedi anche a notte inoltrata i più alti confini dell’ellisse; ma ogniqualvolta ci allontanavamo dalla cittadina avevamo l’impressione di allontanarci dall’intera vita del presente. E quando tornavamo nel paese, che rispetto alla sconfinata solitudine ed all’impervia natura si presentava piuttosto come una città vera e propria, allora ci sembrava che ciò che avevamo appena visto non corrispondesse alla realtà.

Scanno si trovava sull’argine più alto dell’ellisse. Sul punto più alto, proprio sopra il paese, c’era una cappella, dalla quale noi ogni giorno ammiravamo il paesaggio circostante, fino al punto più basso, all’entrata del paesetto dalla valle, dove c’era il nostro hotel, una casetta di pietra non intonacata ma solida e pulita. Lo stesso padrone dell’hotel l’aveva costruita. Lui si era arricchito oltre oceano lavorando come muratore, e oltre all’autista delle poste, che arrivava ogni giorno, e al giornale, non arrivava mai neanche un turista; egli era l’unico ad aver visto l’Europa. Per quanto riguarda gli altri abitanti sembrava come se essi non fossero mai usciti dal confine dell’ellisse. Il costume rurale riempiva le strade. C’era una festa religiosa, ed i colpi di mortaretto ci svegliarono alle tre di mattina; più tardi in giornata vennero portati in processione bovini con corna dorate e adornate di fiori e agnelli accuratamente lavati. Lungo questa processione, nella piazza della chiesa e dentro la chiesa stessa pullulavano i costumi rurali, soprattutto femminili. Ma in sostanza era solo questo brulichio e lo splendore domenicale dei vestiti e delle cuffie ciò che in questo giorno cambiava il quadro della città, poiché il costume folcloristico rimaneva per lo più tale tutti i giorni, un po’ meno presso gli uomini che presso le donne. Tra la gente a piedi si vedevano cavalieri maschi e femmine su asini e muli, con carichi da entrambi i lati della sella. I cavalli erano tanto rari quanto i passanti vestiti da cittadini. Gruppi di donne e ragazze si muovevano intorno alla fontana e le singole figure portavano sempre delle brocche di rame ritte sulla testa, procedendo con passo solenne ma leggero, orgogliose ma con una naturalezza non manierata. Non avevo mai pensato che ciò potesse esistere ancora all’interno della realtà europea. Ed ancora un’altra cosa ci sconvolse: i bambini giocavano ovunque, fissavano anche i rari stranieri con curiosità; ma nessuno mendicava, la frase pietosa: «Un soldo, un soldo!» qui sembrava sconosciuta.

Un uomo in vestito cittadino ci mise in mano un volantino pubblicitario: esso annunciava l’apertura di una bottega di prodotti di ogni genere di necessità. Il comunicato sembrava un patetico annuncio e si rivolgeva alla gentile e forte popolazione di Scanno[29]. Noi ci ridemmo un po’ su, ma solo un poco, perché qui una più nobile e forte razza umana conduceva la sua particolare esistenza in maniera trasognata. Noi ci sentivamo infinitamente bene, io tornai addirittura a scrivere; sarei rimasto volentieri a Scanno fino al compimento del mio tomo. E per un momento avrei quasi potuto credere alla realizzazione di questo desiderio. Il postino apparve, come sempre senza stranieri, ma questa volta anche senza giornale e parlando concitatamente. Il treno non era arrivato. Sciopero dei ferrovieri a Napoli e in tutta Italia, annuncio dello sciopero generale. Non rientrava neanche l’autista personale. Il padrone dell’albergo aveva sentito da notizie telefoniche e telegrafiche di battaglie molto diffuse e sanguinose. In realtà a noi avrebbe fatto piacere restare bloccati in una rete abruzzese mentre tutt’intorno imperversa una furiosa rivoluzione proletaria! Noi non eravamo neanche minimamente preoccupati, tutt’al più lo eravamo della nostra merce. Solo Dio sa dove potesse essere. Non credevamo alla gravità del problema; ritenevamo che né il governo né gli scioperanti avessero abbastanza energia tale da comportarsi in modo estremo. E se veramente la situazione fosse precipitata, noi avremmo sicuramente potuto fare affidamento sulla gentile e forte popolazione di Scanno; essi non avrebbero permesso che fosse fatto del male agli stranieri che non c’entravano niente. Noi come al solito facevamo le nostre passeggiate attraverso la solitudine del territorio e la pace del paese.

Molto presto il luogo ritornò quasi normale. Le informazioni fornite dal postino e dal giornale si rivelarono fondate. Lo sciopero generale era concluso, il sangue era stato versato solo in isolati scontri; invece della rivoluzione si parlava solo di una follia rivoluzionaria in via di diminuzione. Io pensavo, con una lieve soddisfazione cinica, che ciò avrebbe potuto essere un ottimo insegnamento per i grandi e i piccoli Manacorda. Essi avrebbero potuto pensare all’ordine in casa propria, prima di redimere gli irredentisti e conquistare l’Africa.

Noi restammo a Scanno fino all’ultimo giorno possibile. In seguito facemmo una buona camminata di almeno ventidue chilometri fino alla stazione di Anversa e partimmo da lì prendendo il treno rapido per Roma. Durante la lunga camminata le cime dei monti ci erano sembrate un po’ monotone, nonostante la loro impetuosità. Io ero in viaggio da diverse ore, e più che guardare il paesaggio, ero assorto nel rimuginare su una semplice targa commemorativa. Essa stava sulla piazza del paese ed era rivolta ai caduti di Tripoli. L’iscrizione cominciava così: «Sulle orme dei legionari Romani[30]». Era una frase fatta che il maestro della scuola elementare del paese o un qualche impiegato comunale aveva applicato e che la popolazione abruzzese aveva lasciato senza riflettere, per quanto essa sapesse leggere? O era l’espressione di un sentimento popolare, ed anche Manacorda e gli studenti dimostranti rappresentavano malgrado ogni caos e follia rivoluzionaria[31] la vera Italia? E si avvertiva l’atmosfera vera, dominante e presaga del futuro? Non è forse vero che ogni segno è in relazione con uno di un’altra natura? non è ogni segno a doppio senso o polisenso?

A Roma fummo sistemati nel quartiere delle suffragette. A Napoli gli appelli per lo sciopero generale erano ancora attaccati a molti muri. Per il resto era rimasto tutto uguale, così come l’avevamo lasciato. Gli esami erano terminati in un batter d’occhio, poiché solo due studenti avevano trovato il coraggio di iscriversi ai miei due corsi. Anche l’addio da Manacorda e Torraca, la signora Pastner e l’Avvocato non mi trattenne, poiché il mio ritorno in novembre era fuor di dubbio. E quindi io volevo tornare a Monaco e al mio lavoro il più in fretta possibile. Ma naturalmente avevo anche il dovere di studiare alcune tappe.

A causa del gran caldo stavolta stavo a Roma solo per un puro e semplice obbligo di studio. Da parecchi luoghi di interesse ci trascinammo stanchi morti verso Faraglia, dove c’era il miglior gelato e il miglior caffè.

Manacorda ci aveva scritto una lettera di raccomandazione a due onorevoli, e così trovammo accesso ad una seduta parlamentare. La sala e la tribuna assomigliavano nella disposizione alla Camera parigina, ma erano molto più sobrie e pressoché spoglie. Anche il posto a sedere era peggiore di quello di Parigi: io non so se era a causa del gran caldo e della prossimità delle ferie o per reazione all’agitazione dello sciopero generale – ad ogni modo la camera era quasi completamente vuota. Io contai ventuno deputati. Il presidente canuto aveva congiunto le mani sulla pancia e sembrava dormisse. Le parole dell’oratore risuonavano incomprensibili nello spazio vuoto. Quando concluse, si asciugò il sudore dalla fronte, due vicini gli strinsero la mano in silenzio mentre il presidente continuava a sonnecchiare.

Prima che egli si svegliasse, noi eravamo già tornati al nostro tetto, che questa volta ci sembrava ancora più bello di quanto fosse durante la nostra prima permanenza. Le rondini, che non c’erano a Napoli, volavano in stormi sopra di noi, la vecchissima tartaruga mangiava foglie di insalata con insospettata sveltezza. C’era anche una piccola stalla nella quale i polli schiamazzavano e sul comignolo di una casa vicina lavorava un muratore col camice bianchissimo, che cantava le lunghe cadenze di una poesia sentimentale. Io compresi: «L’amooore” e “al terzo piano”»[32] – mentre batteva la cazzuola contro i mattoni.

Tuttavia sebbene il campanile di una chiesa gesuita con un vaso stranamente più bello sotto la croce dorata si ergeva vicinissimo, sebbene noi riuscissimo a sentire lo scampanellio delle campane e parecchi altri campanili e cupole della città, nonostante  il rumore del traffico, ciò non costituiva per noi un valido motivo per restare più a lungo a Roma. Quindi, proprio a causa del gran caldo, domenica andammo a fare una gita.

Tutto cominciò al museo delle terme, i cui tesori erano esposti in parte all’aperto, nel cortile e nel giardino sotto viti, glicini e rose, che crescevano sul foro e riempivano incredibilmente, almeno per me incredibilmente, il Palatino. Un immenso mare di luce bianca avvolgeva tutto il museo, anche tutta la malinconia dell’atmosfera dei ruderi, che avevo provato a Paestum, portava con sé il fascino di molti secoli. Era una città che viveva nel presente, forse il passato era rimasto tutto intatto, o forse già si aggiustavano i buchi che un domani si sarebbero potuti formare su questi muri e volte indistruttibili, in ogni attimo gli abitanti potevano tornare indietro, solamente girando l’angolo. Da questa domenica di giugno compresi che Roma è veramente Roma e Roma eterna.

Ancora una volta il gran caldo del sole aveva compiuto un prodigio. Serbammo la tappa di Firenze per una visita esauriente nell’anno successivo, passammo in rassegna Bologna nelle prime ore del mattino, per restare freschi e avere più tempo per visitare Venezia – intanto avevamo i brividi di fresco, e il termometro segnava ventotto gradi all’ombra. Ma Venezia ci deluse in maniera imbarazzante. Non posso farci niente: la facciata del duomo di San Marco ha per me una somiglianza disperata con la facciata della grossa Orchestrion e il baraccone da fiera della festa del Vogelwiese. Probabilmente non è colpa di Venezia stessa, se mi ha fatto l’effetto di una fiera. È così consumata, ha l’aspetto unto degli oggetti troppo toccati. Ed è così non-italiana, un parco dei divertimenti piccolo borghese tedesco. Non si sentiva una parola italiana, bensì soprattutto il tedesco in tutti i dialetti. Io ero molto stupito di trovare in una piazza l’annuncio italiano per una assemblea di lavoratori. Fino all’ultimo momento il sole ne faceva risaltare l’aspetto viscido e il chiacchierio dei viaggiatori mi lasciò ammutolito. Verso mezzogiorno ci dirigemmo alla stazione in gondola, prima lungo una via fluviale, poi lungo il canale. L’acqua, i ponti, i palazzi: tutto era circondato da un silenzio di morte. Questa era Venezia, non piena di vita nuova come le antichità del Palatino, bensì addormentata in un sonno da favola sotto il coperchio di vetro della bara dell’aria tremolante.

Quindi, verso il pomeriggio, ci dirigemmo in treno verso il confine. Padova, Verona, Desenzano: lungo tutto questo tragitto il gran caldo era solo una pena insopportabile. Qualcosa mi gocciolò sulla testa e mi scese sulla fronte. Io volevo scacciarlo, e la gente nel coupé rise: la tavoletta di cioccolato nella rete sopra di me si era sciolta, e io mi ero macchiato come un bambino. Fu una liberazione, proseguire sul vecchio piroscafo a ruote “Benaco”[33] sul lago di Garda verso Riva in Austria. Solo ora ci accorgevamo della nostra stanchezza e della nostra fame. Finalmente alle dieci ci sedemmo come ultimi ospiti nel giardino dell’Hotel “Verso il Sole”. Era il 28 giugno. Il cameriere corse verso di noi e gridò: «La coppia erede al trono è stata assassinata a Sarajevo!». Io dissi dispiaciuto: «Oh!» e aggiunsi con un sorriso di scusa: «Ma noi abbiamo una fame terribile». Poi chiesi a mia moglie: «Tu riesci a comprendere l’agitazione di quell’uomo? È forse un grande patriota? Ci sono sempre stati degli omicidi politici, e per ciò che ne so, l’arciduca ucciso non è stato mai particolarmente benvoluto». – «È possibile», rispose mia moglie, «Che il cameriere faccia affidamento sulla guerra». – «Guerra? Al massimo una spedizione punitiva dell’Austria. Ma non credo, loro sono troppo deboli». L’arrivo del cibo ci riempì di gioia, e in seguito parlammo ancora un po’ di Venezia. E prima di addormentarmi pensai che mi rimanevano da scrivere ancora sette dei nove capitoli del mio primo tomo che avrei cominciato a scrivere dopodomani a Monaco. Non volevo preoccuparmi di nient’altro.


[1] In italiano nel testo

[2] L’opera a cui l’autore stava lavorando in quel periodo

[3] L’autore si riferisce all’opera da cui è tratto questo capitolo

[4] Nota guida turistica del 900

[5] In italiano nel testo

[6] Un  quartiere ebraico di Berlino

[7] Sul testo la frase di Pedro viene riportata in francese; l’autore vuole sottolineare l’equivoco provocato dalla poca conoscenza del ragazzo in fatto di linguaggio culturale, che gli ha fatto scambiare la parola, e forse anche la pronuncia, AUTEUR per AUTO-ndt.

[8] In italiano nel testo.

[9] Tradotte dal tedesco e pubblicate in Italia dalla De Agostini sono guide con una lunga storia alle spalle, che arriva fino ai giorni nostri.

[10] Diploma di emergenza concesso anzitempo agli studenti che intendevano arruolarsi-ndt

[11] In tedesco vuol dire incredulità

[12] L’autore aveva riprodotto il tedesco parlato tipicamente da un francese; ho tentato di riprodurre l’effetto con l’italiano

[13] In italiano nel testo

[14] In italiano nel testo

[15] Questo è il termine così come riportato dall’autore.

[16] Questo è il termine così come riportato dall’autore.

[17] Questo è il termine così come riportato dall’autore.

[18]Questo è il termine così come riportato dall’autore.

[19] Per un approfondimento tematico si consiglia la lettura del testo di Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Firenze, La Giuntina, 2008.

[20] Questo è il termine italiano così come riportato dall’autore

[21] Questo è il termine così come riportato dall’autore.

[22] Da notare l’inconsueta morfologia di questi participi che sono degli strambi calchi.

[23] Così riporta in italiano l’autore.

[24] Questa espressione italiana è quella, che a mio avviso, esprime  meglio al termine tedesco Wanderung-ndt.

[25] L’appellativo: l’inglese potrebbe riferirsi all’autore stesso, perché magari tale era sembrato ai vetturini stessi-ndt.

[26] Corrisponde alla licenza liceale italiana.

[27] Questo è il termine così come  riportato dall’autore.

[28] In italiano nel testo.

[29] In italiano nel testo.

[30] In italiano nel testo.

[31] In italiano nel testo.

[32] In italiano nel testo.

[33] In italiano nel testo.

La traduzione inedita di questo capitolo di Curriculum Vitae è anche su quest’altro blog di mia proprietà.

Neapel im Frieden, klemperer, croce, vossler, Suor Orsola Benincasa


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