Vien da chiedersi se abbia un senso scrivere. Se abbia un senso rimanere prigionieri di questa maledizione alcaloidale dell'anima. Se abbia un senso sottoporre le proprie parole sconosciute al giudizio di un pubblico che in realtà esiste soltanto nell'insondabile delirio di una solitudine, vittima più che altro di un errore di parallasse, di un giudizio errato a proposito di una moltitudine che non esiste se non nel sogno. Un tempo la parola scritta aspettava con ansia malriposta l'attenzione delle defunte terze pagine, anche quelle, nella patetica mancanza d'altro, di un deserto bollettino parrocchiale. Oggi, coevi di una timeline infinita e disattenta, disperatamente ci porgiamo all'attenzione di un follow, di un retweet, di una menzione, di un like. Elemosiniamo, sì, elemosiniamo il centesimo di una frettolosa attenzione digitale come un tempo elemosinavamo il centesimo si una frettolosa recensione cartacea. E l'una e l'altra, scopriamo con testarda e testimoniale ripetitività prigioniera di corsi e ricorsi che mai muteranno, si specchiano nella nuova realtà, che è poi antichissima, quella che crea uno scrittore non per ciò che ha scritto, ma per ciò di cui tutti, trascinati dalle nuove e rassicuranti riserve digitali, parlano.
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