Nelle intenzioni iniziali doveva essere solo una miniserie e invece siamo già alla quarta stagione: le prime tre trasmesse in Italia da Rai4; la seconda, la terza e, dal 2 marzo la quarta, da Timvision. Viene naturale interrogarsi sul successo di una trama basata sull’epica, che da molti è stata paragonata a Il trono di spade. La differenza principale è che Vikings punta su una ricostruzione storica accurata, anziché su effetti speciali o elementi fantasy. Eppure proprio quest’attenzione minuziosa alla storia, ha creato il terreno per contestazioni.
Ma partiamo dal soggetto, perché già in questa scelta si celano le prime confusioni in merito alla valenza storiografica della serie. Vikings narra le gesta di Ragnar Loðbrók, un re leggendario che costruì navi per effettuare scorribande in Inghilterra, anche se sulla sua figura non c’è certezza e nell’epica norrena ci sono diverse storie che si contendono l’autenticità. Era un re danese, come attesta qualcuno? Ebbe tre mogli, o solo due come racconta Vikings?
Nella serie non troveremo la risposta alle leggende che si contraddicono perché il senso di Vikings non è gettare luce sulla vera storia di Re Ragnar. Piuttosto, come ha ben detto Clive Standen, che interpreta Rollo, il fratello di Ragnar, “abbiamo tolto l’elmo cornuto ai vichinghi”, quell’oggetto che a partire da L’anello del Nibelungo dell’era wagneriana, ha decretato lo stereotipo del vichingo selvaggio e crudele. In questa serie troviamo, invece, uomini reali, abituati a vivere in condizioni climatiche difficili, in una società alquanto democratica, in cui la donna ha la possibilità di combattere, possedere, diventare un capo e divorziare, cosa non da poco per l’VIII secolo D.C.
Non si può non essere colpiti da Lagertha, la moglie di Ragnar, che è mamma e guerriera. E’ femminile e bella, pur essendo una combattente spietata e abilissima.
L’attenzione ai costumi e allo stile di vita, ci porta fuori dai rocamboleschi scenari de Il trono di spade. Certo, i vichinghi sono anche guerrieri, fanno razzie in Inghilterra e saccheggiano a man bassa, ma la descrizione di questi pagani fatta dai cristiani a loro contemporanei e giunta fino a noi con le alterazioni apportate dal romanticismo, era carica di pregiudizi e ne ha perciò svilito usi e costumi.
Il primo valore che attribuiamo a questa serie è, pertanto, la demistificazione del vichingo coltivato nell’immaginario europeo, anche se, avendo giocato la carta della ricostruzione storica accurata, non sono mancate le critiche, come la contestazione che gli scandinavi non sapessero all’epoca che l’Inghilterra era a Ovest, fatto che pare appurato sin dal I secolo D.C., o l’accusa di avere utilizzato un’assemblea per decidere se giustiziare un uomo, modalità punitiva estranea alla mentalità vichinga, la quale contemplava, come unica pena, la messa al bando, il cosiddetto skoggangr, ovvero la condanna a vivere tra le foreste. Sono inoltre piovute critiche sul tempio di Uppsala, rappresentato come una chiesa medievale in legno, perché queste costruzioni vennero erette solo in seguito dall’architettura cristiana. Né a qualche occhio attento è sfuggita la gaffe della crocifissione, richiesta da un vescovo del Wessex, visto che l’imperatore Costantino aveva messo fuori legge questa pena sin dal IV secolo D.C.
A queste e altre accuse Michael Hirst risponde: “Ho dovuto prendermi delle libertà con Vikings perché nessuno sa per certo cosa accadde nei secoli bui”. In sintesi, il messaggio dello sceneggiatore sembrerebbe: ho ricostruito nel modo migliore possibile la realtà vichinga, compatibilmente con un programma televisivo che necessita di uno svolgimento narrativo. Hirst ritiene inoltre che ci sia una certa pigrizia tra gli spettatori amanti del genere, quasi si aspettassero da una cronaca sui vichinghi solo un sacco di effetti speciali, sesso e brutalità … e il riferimento polemico a Il trono di spade è palese.
Veniamo comunque all’incipit che ripropone un fatto documentato, risalente al 793 D.C., ovvero l’attacco a Lindsfarne, l’isola santa sulla costa nordorientale dell’Inghilterra, come si intravede dal trailer della 1a stagione. Durante questa incursione Ragnar Loðbrók, interpretato da Travis Fimmel, prende come schiavo Athelstan (George Blagden), un monaco che ben presto diventerà suo confidente, a dimostrazione che l’esplorazione di nuovi mondi si coniuga con la sete di conoscenza. Entrambi confrontano le rispettive religioni e la loro amicizia supera ogni divergenza dovuta all’essere cresciuti in mondi diversi. Il rapporto con Athelstan è, forse, il subplot più problematico e toccante di tutta la serie. Il religioso inglese, visto di cattivo occhio dai compagni di Ragnar, in quanto cristiano e straniero, assiste allo sgretolarsi delle sue certezze teologiche al contatto con gli dei antropomorfi delle credenze vichinghe, mentre Ragnar non riesce a non subire la fascinazione di quella fede cristiana praticata dal prete, tanto evanescente quanto remota, quasi esotica ai suoi occhi.
Tanto per confermare l’attenzione ai dettagli, da ultimo segnalo un elemento curioso che accomuna il comportamento di Edoardo VIII ne I Tudors e di re Ragnar in Vikings: entrambi, talvolta, rispondono a una sfida con un’alzata di labbro, che li fa assomigliare a un gatto che soffia, a rimarcare una cinesica antica, diversa dalla nostra. Se ci sia o meno lo zampino di Hirst in queste mosse ferine, non è dato saperlo.