Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” VI

Creato il 04 maggio 2015 da Marvigar4

XIII

FUGA DEL RE

I governi son simili agli uomini: tutte le passioni sono utili al saggio e forman la rovina dello stolto. Il timore che la corte di Napoli ebbe de’ francesi, invece d’ispirarle una prudente cautela, fu cagione di rovinosa viltá. A forza di temerli, li rese piú terribili di quello che erano.

Una persona di corte mi diceva, pochi giorni prima di dichiararsi la guerra, esser prudente consiglio non far sapere al soldato che egli andava a battersi contro i francesi e, con tale idea, l’essersi imaginato quel gergo equivoco col quale fu scritto il proclama e col quale si ottenne di tener celato fino al momento dell’attacco il vero oggetto della spedizione. – Ebbene! – dissero i soldati quando lo seppero – ci si era detto che noi non avevamo guerra coi francesi! – Questa non è stata una delle ultime cagioni per cui in Napoli hanno mostrato piú coraggio le leve in massa che le truppe regolari, ed il coraggio, invece di scemar colle disfatte, è andato crescendo. E sarebbe cresciuto anche dippiú, se il generale non fosse stato Mack. Vi è della differenza tra l’avvezzare un popolo a disprezzare il nemico ed il fargli credere che non ne abbia: il primo produce il coraggio, il secondo la spensieratezza, cui nel pericolo succede lo sbalordimento. Cesare i suoi soldati, spaventati talora dalla fama delle forze nemiche, non confortava col diminuirla, ma coll’accrescerla.

Una volta che si temeva vicino l’arrivo di Iuba, ragunati a concione i soldati: – Sappiate – loro disse – che tra pochi giorni sará qui il re con dieci legioni, trentamila cavalli, centomila armati alla leggiera e trecento elefanti. Cessate quindi di piú vaneggiare per saper quali sieno le sue forze. – Cesare accrebbe il pericolo reale, che, sebben grande, ha però un limite, per toglier quello della fantasia, che non ha limite alcuno. Cosí voglion esser governati tutt’i popoli.

Lo stesso timore, che la corte ebbe ne’ primi rovesci, le ispirò il consiglio di una leva in massa. Si pubblicò un proclama, col quale s’invitarono i popoli ad armarsi e difendere contro gl’invasori i loro beni, le loro famiglie, la religione de’ padri loro: fu la prima volta che fu udito rammentare ai nostri popoli ch’essi erano sanniti, campani, lucani e greci. Fu commesso ai preti di risvegliare tali sentimenti in nome di Dio. Queste operazioni non mancano mai di produrre grandi effetti. Il fermento maggiore fu in Napoli, dove un popolaccio immenso, senza verun mestiere e verun’educazione, non vive che a spese de’ disordini del governo e de’ pregiudizi della religione.

Ma questo istesso fermento, che doveva e che potea conservare il Regno, divenne, per colpa di Acton e per timore della corte, la cagione principale della sua rovina. Il popolo corse in folla al palazzo reale ad offerirsi per la difesa del Regno. Un re, che avesse avuto mente e cuore, non aveva a far altro che montare a cavallo e profittare del momento di entusiasmo: egli sarebbe andato a sicura vittoria. Acton lo ritenne. Il popolo voleva vederlo. Egli non si volle mostrare, ed in sua vece fece uscire il generale Pignatelli ed il conte dell’Acerra. Tra le tante parole che in tale occasione ciascuno può immaginare essersi dette, uno del popolo disse: i mali del Regno esser nati tutti dagli esteri che erano venuti a far da ministri; prima godersi profonda pace e generale abbondanza, da quindeci anni in qua tutto esser cangiato; gli esteri esser tutti traditori: quindi, o per un sentimento di patriottismo, di cui il popolo napolitano non è privo, o per ispirito di adulazione verso due cavalieri popolari, soggiunse: – Perché il re non fa primo ministro il general Pignatelli e ministro di guerra il conte dell’Acerra? – Queste parole, raccolte da’ satelliti di Acton e riferite a lui, mossero il di lui animo sospettoso ad accelerare la partenza. Da che mai dipende la salute di un regno!

Fu facile trarre a questo partito la regina. A trarvi anche il re, si fece crescere l’insurrezione del popolo. Gli agenti di Acton lo spinsero la mattina seguente ad arrestare Alessandro Ferreri, corriere di gabinetto, il quale portava un plico a Nelson: moltissimi hanno ragioni di credere che costui fosse una vittima giá da lungo tempo designata, perché conscio del segreto delle lettere di Vienna alterate in occasione della guerra. Io non oso affermar nulla. Sia caso, sia effetto della politica del ministro o della vendetta di qualche suo inimico privato, fu arrestato sul molo nel punto in cui s’imbarcava per passare sul legno di Nelson, fu ucciso, ed il cadavere sanguinoso fu strascinato fin sotto il palazzo reale e mostrato al re in mezzo alle grida di «Morano i traditori!», «Viva la santa fede!», «Viva il re!». Il re era alla finestra; vide l’imponente forza del popolo e, diffidando di poterla reggere, incominciò a temerla. Allora la partenza fu risoluta.

Furono imbarcati sui legni inglesi e portoghesi i mobili piú preziosi de’ palazzi di Caserta e di Napoli e le raritá piú pregevoli de’ musei di Portici e Capodimonte, le gioie della corona e venti milioni e forse piú di moneta e metalli preziosi non ancora coniati, spoglio di una nazione che rimaneva nella miseria. La corte di Napoli avea tanti tesori inutili, ed intanto avea ruinata la nazione con un disordine generale nell’amministrazione, con un vuoto nelle finanze e ne’ banchi; avea ruinata la nazione, mentre potea accrescer la sua potenza, rendendola piú felice: la corte di Napoli dunque avea sempre pensato piú a fuggire che a restare! S’imbarcò di notte, come se fuggisse il nemico giá alle porte; e la mattina seguente (21 dicembre) si lesse per Napoli un avviso, col quale si faceva sapere al popolo napolitano che il re andava per poco in Sicilia per ritornare con potentissimi soccorsi, ed intanto lasciava il general Pignatelli suo vicario generale fino al suo ritorno.

Il popolo mostrò quella tacita costernazione, la quale vien meno dal timore che dalla sorpresa di un avvenimento non previsto. Ne’ primi giorni che il re per tempo contrario si trattenne in rada, tutti corsero a vederlo ed a pregarlo perché si restasse; ma gl’inglesi, i quali giá lo consideravano come lor prigioniere, allontanavano tutti come vili e traditori. Il re non volle o non gli fu mai permesso di mostrarsi. Questi duri e non meritati disprezzi, la memoria delle cose passate, la perdita di tante ricchezze nazionali, i mali presenti, passati e futuri diedero luogo alla riflessione e scemarono la pietá. Il popolo lo vide partire a’ 23 dicembre senza dispiacere e senza gioia.

XIV

ANARCHIA DI NAPOLI ED ENTRATA DE’ FRANCESI

Nella storia dell’Italia, gli avvenimenti della fine del secolo decimottavo somiglian quelli della fine del secolo decimoquinto. In ambedue le epoche gli stessi avvenimenti furon prodotti dalle stesse cagioni e seguíti dai medesimi effetti. In amendue le epoche il Regno fu perduto per opera di picciolissime forze inimiche: nel decimoquinto secolo, i partiti che dividevano il Regno vi attirarono la guerra; nel decimottavo, la guerra e la disfatta vi suscitarono i partiti: in quello, il re avea tentato tutt’i mezzi per evitar la guerra; in questo, tutti li avea messi in opera per suscitarla: lo scoraggiamento, dopo la disfatta, eguale e nel re aragonese e nel borbonico; ma prima della guerra questi ha dimostrato coraggio maggiore di quello. In ambedue le epoche però il Regno fu perduto quando il fatto posteriore ha dimostrato che era facile il conservarlo, poiché è impossibile credere che non si avesse potuto facilmente conservare quel Regno, che, anche dopo la perdita fattane, si è potuto tanto facilmente ricuperare. In ambedue le epoche ha preceduta la perdita del Regno una vicendevole e funesta diffidenza tra il re ed i popoli, non irragionevole nell’epoca degli Aragonesi, priva però di ogni ragione ne’ tempi nostri. Ferdinando di Aragona avea trattati crudelmente i baroni, i quali avean tramata una congiura e guerreggiata una guerra civile; Vanni avea punita una congiura che ancora non si era tramata ed il pensiero di una ribellione che non si poteva eseguire. In amendue le epoche alla difesa del Regno è mancata l’energia piuttosto ne’ consigli del re che nelle azioni de’ popoli. Finalmente in ambedue le epoche il Regno è stato abbandonato dai vincitori, perché costretti a ritirar le loro forze nell’Italia superiore.

Io vorrei che, ogni qual volta succede un simile avvenimento, si rileggesse la seguente, non saprei dir se dottrina o profezia di Macchiavelli: «Credevano – dice egli – i nostri principi italiani, prima che essi assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che ai principi bastasse sapere negli scritti pensare una cauta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, saper tessere una fraude, ornarsi di gemme e di oro, dormire e mangiare con maggior splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi coi sudditi avaramente, superbamente, marcirsi nell’ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse dimostrato loro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fossero responsi di oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad esser preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero nel 1494 i grandi spaventi, le subite fughe e le miracolose perdite; e cosí tre potentissimi Stati, che erano in Italia, sono stati piú volte saccheggiati e guasti». Non è meraviglia che gli stessi errori abbiano avuti nel 1798 gli stessi effetti e che un potentissimo regno sia rovinato nel tempo stesso, in cui, con ordini piú savi, tale era lo stato politico di Europa, dovea ingrandirsi. «La meraviglia è – continua Macchiavelli – che quelli che restano» anzi quegli stessi che han sofferto il male, «stanno nello stesso errore, e vivono nello stesso disordine».

La Cittá (24) avea assunto il governo municipale di Napoli: erasi formata una milizia nazionale per mantenere il buon ordine. Il popolo ne’ primi giorni riconosceva l’autoritá della Cittá; tutto in apparenza era tranquillo: ma il fuoco ardeva sotto le ceneri fallaci. Pignatelli avrebbe dovuto avvedersi che il pericoloso onore, a cui era stato destinato, era forse l’ultimo tratto del suo rivale Acton per perderlo. Egli avrebbe potuto vendicarsi del suo rivale, render al suo re uno di quei servigi segnalati e straordinari, per i quali un uomo acquista quasi il nome ed i diritti di fondator di una dinastia, renderne un altro egualmente grande alla patria; avrebbe potuto o vincere la guerra o finirla, risparmiando l’anarchia e tutti i mali dell’anarchia: le circostanze nelle quali trovavasi erano straordinarie, ma egli non seppe concepire che pensieri ordinari.

Si disse che la regina, partendo, gli avesse lasciate istruzioni segrete di sollevare il popolo, di consegnargli le armi, di produrre l’anarchia, di far incendiare Napoli, di non farvi rimanere anima vivente «da notaro in sopra»… Sia che queste voci fossero vere, sia che fossero state immaginate, quasi inevitabili conseguenze dell’insurrezione che la regina, partendo, organizzava, è certo però che queste voci furono da tutti ripetute, da tutti credute; e, nell’osservare le vicende di una rivoluzione, meritano eguale attenzione le voci vere e le false, perché, essendo, a differenza de’ tempi tranquilli, l’opinione del popolo grandissima cagione di tutti gli avvenimenti, diviene egualmente importante e ciò che è vero e ciò che si crede tale.

Pochi giorni dopo si videro i primi funesti effetti degli ordini della regina nell’incendio de’ vascelli e delle barche cannoniere, che non eransi potute, per la troppo precipitevole fuga, trasportare in Sicilia. Poche ore bastarono a consumare ciò che tanti anni e tanti tesori costavano alla nostra nazione. Il conte Thurn da un legno portoghese dirigea e mirava tranquillamente l’incendio; ed allo splendore ferale di quelle fiamme parve che il popolo napolitano vedesse al tempo stesso e tutti gli errori del governo e tutte le miserie del suo destino.

Il popolo non amava piú il re, non volea neanche udirlo nominare; ma, ripiena la mente delle impressioni di tanti anni, amava ancora la sua religione, amava la patria e odiava i francesi. Da queste sue disposizioni si avrebbe potuto trarre un utile partito. Insursero delle gare tra la Cittá ed il vicario generale. Questi volea usurparsi dritti che non avea, quasi che allora non fosse stato piú utile ed anche piú glorioso cedere tutti quelli che avea: quella si ricordava che tra’ suoi privilegi eravi anche quello di non dover mai esser governata dai viceré. La Cittá allora spiegò molta energia.

Perché dunque allora non surse la repubblica? Il popolo avrebbe senza dubbio seguíto il partito della Cittá. Ma, tra coloro che la reggevano, alcuni pendevano per una oligarchia, la quale non avrebbe potuto sostenersi a fronte delle province, dove l’odio contro i baroni era la caratteristica comune di tutte le popolazioni; e, nello stato in cui trovavansi gli animi e le cose, volendo stabilirsi un’oligarchia, sarebbe stato necessario rinunciare alla feudalitá. Altri non osavano; e vi fu anche chi propose di doversi offrire il Regno ad un figlio di Spagna, quasi che questo progetto fosse allora, non dico lodevole, ma eseguibile. Ne’ momenti di grandissima trepidazione, quando discordi sono le idee e molti i partiti, difficile è sempre ritrovar la via di mezzo e, piú che altrove, era difficilissimo in Napoli, dove il maggior numero credeva i francesi indispensabili a fondare repubbliche.

Intanto Capua si difendeva ed il popolo applaudiva alla sua difesa. Si era anche lusingato di maggiori vantaggi, poiché facile è sempre il popolo a sperare e non mai manca chi fomenti le sue speranze. Ai 12 però di gennaio lesse affisso per Napoli l’armistizio conchiuso tra il generale francese ed il vicario Pignatelli, per lo quale i francesi venivano ad acquistare tutto quel tratto del Regno che giace a settentrione di una linea tirata da Gaeta per Capua fino all’imboccatura dell’Ofanto; ed inoltre, per ottener due mesi di armistizio, il vicario si obbligava pagar tra pochi giorni la somma di due milioni e mezzo di franchi.

Non mai vicario alcuno di un re conchiuse un simile armistizio. La gloria gli consigliava a contrastare sulle mura di Capua il passo ai francesi ed a morirvi; la prudenza gli consigliava a cedere tutto e salvar la sua patria da nuove inutili sciagure. Che poteva sperarsi da un breve armistizio di due mesi? Non vi era neanche ragione di poter sperare un trattato. Il funesto consiglio per cui il re erasi messo in mano degl’inglesi, lo metteva nella dura necessitá di perdere o il Regno di Napoli o quello di Sicilia. Avea il re commesso lo stesso errore pel quale erasi perduto l’ultimo dei re della dinastia aragonese, quello cioè di mettersi in braccio di uno de’ due che si disputavano il di lui Regno; quell’errore dal quale il savio Guicciardini ripete l’ultima rovina di quella famiglia, poiché per esso le fu impedito di profittar delle occasioni che ne’ tempi posteriori la fortuna le offrí a ricuperare il trono. Perché dunque il vicario volle frappor del tempo tra la cessione ed il possesso, e lasciar libero lo sfogo all’odio che il popolaccio avea contro i francesi, quando questi erano abbastanza vicini per destarlo e non ancora tanto da poterlo frenare? Volea la guerra civile, l’anarchia? Tali erano gli ordini della regina?

Il popolo si credette tradito dal vicario, dalla Cittá, dai generali, dai soldati, da tutti. La venuta de’ commissari francesi, spediti ad esigere le somme promesse, accrebbe i suoi sospetti ed il suo furore. Il giorno seguente, corse ai castelli a prender le armi; i castelli furono aperti, la truppa non si oppose, perché non avea ordine di opporsi. Il vicario fuggí come era fuggito il re; il popolaccio corse a Caivano (25) per deporre Mack, il quale, sebbene alla testa delle truppe, non seppe far altro che fuggire (26). Ogni vincolo sociale fu rotto. Orde forsennate di popolaccio armato scorrevano minaccianti tutte le strade della cittá, gridando «Viva la santa fede!», «Viva il popolo napolitano!».

Si scelsero per loro capi Moliterni e Roccaromana, giovani cavalieri che allora erano gl’idoli del popolo, perché avean mostrato del valore a Capua ed a Caiazzo contro i francesi. Riuscirono costoro a frenar per poco i trascorsi popolari, ma la calma non durò che due giorni. I francesi erano giá quasi alle porte di Napoli.

S’inviò al loro quartier generale una deputazione composta da’ principali demagoghi, perché rinunciassero al pensiero di entrare in Napoli, offerendo loro e quello che era stato promesso coi patti dell’armistizio e qualche somma di piú. La risposta de’ francesi fu negativa, qual si dovea prevedere, ma non qual dovea essere: qualche nostro emigrato, mentre moltissimi convenivano della ragionevolezza della dimanda, aggiunse alla negativa le minacce e l’insulto; e ciò finí d’inferocire il popolo.

Non mancavano agenti della corte che lo spingevano a nuovi furori, non mancava quello spirito di rapina che caratterizza tutt’i popoli della terra, non mancavano preti e monaci fanatici, i quali, benedicendo le armi di un popolo superstizioso in nome del Dio degli eserciti, accrescevano colla speranza l’audacia e coll’audacia il furore. La Cittá, che sino a quel giorno avea tenute delle sessioni, piú non ne tenne. Il popolo si credette abbandonato da tutti, e fece tutto da sé. La cittá intera non offrí che un vasto spettacolo di saccheggi, d’incendi, di lutto, di orrori e di replicate immagini di morte. Tra le vittime del furore popolare meritano di non essere obbliati il duca della Torre e Clemente Filomarino, suo fratello, rispettabili per i loro talenti e le loro virtú e vittime miserabili della perfidia di un domestico scellerato.

Alcuni repubblicani, ed allora erano repubblicani in Napoli tutti coloro che avevan beni e costume, impedirono mali maggiori, rimescolandosi col popolo e fingendo gli stessi sentimenti per dirigerlo. Altri, colla cooperazione di Moliterni e di Roccaromana, s’introdussero nel forte Sant’Elmo, sotto vari pretesti e finti nomi, e riuscirono a discacciarne i lazzaroni che ne erano i padroni. Championnet avea desiderato che, prima ch’ei si movesse verso Napoli, fosse stato sicuro di questo castello, che domina tutta la cittá. Molti altri corsero ad unirsi coi francesi e ritornarono combattendo colle loro colonne.

Tutt’i buoni desideravano l’arrivo de’ francesi. Essi erano giá alle porte. Ma il popolo, ostinato a difendersi, sebbene male armato e senza capo alcuno, mostrò tanto coraggio, che si fece conoscer degno di una causa migliore. In una cittá aperta trattenne per due giorni l’entrata del nemico vincitore, ne contrastò a palmo a palmo il terreno: quando poi si accorse che Sant’Elmo non era piú suo, quando si avvide che da tutt’i punti di Napoli i repubblicani facevan fuoco alle sue spalle, vinto anziché scoraggito, si ritirò, meno avvilito dai vincitori che indispettito contro coloro ch’esso credeva traditori.

(24) «Cittá» si chiamava in Napoli un’unione di sette persone, delle quali sei erano nobili ed una popolare. I nobili erano eletti dai cinque «sedili», tra’ quali era divisa tutta la nobiltá del Regno (il sedile di Montagna ne eliggeva due, i quali però aveano un voto solo), e questi sedili erano succeduti alle «fratrie», in una cittá che fino all’undecimo secolo era stata greca. Il popolare avrebbe dovuto esser eletto dal popolo, che avea un sedile solo, ad onta che fosse mille volte piú numeroso de’ nobili; ma era eletto dal re. Questa cittá rappresentava nel tempo stesso e la municipalitá di Napoli ed il Regno intero. Quando nel governo viceregnale furono aboliti i parlamenti nazionali, la Cittá rimase depositaria de’ privilegi della nazione. Ma sotto Ferdinando quarto la Cittá era rimasta un nome del tutto vano.
(25) Villaggio otto miglia lontano da Napoli.
(26) È noto che allora depose la divisa di generale del re di Napoli e vestí quella di generale austriaco; si presentò a Championnet e pretendea, qual generale austriaco, non dover esser fatto prigioniero di guerra. Championnet non  ascoltò questo miserabile sofisma. Ma da questo fatto ben traspariva l’uomo, il quale dieci mesi di poi avrebbe disfidato a duello Moliterni e poi l’avrebbe egli stesso impedito. Il disfidare non è, a creder mio, un’azione di valore: forse sará un’azione d’imprudenza: ma il disfidare e poi ricusar di battersi è un’azione che riunisce l’imprudenza alla viltá. Traspariva l’uomo, che, prigioniero e libero sulla sua parola di onore, sarebbe fuggito.

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