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Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” X

Creato il 03 giugno 2015 da Marvigar4

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XXI

MASSIME CHE SI SEGUIRONO

Io prego tutti coloro i quali leggeranno questo paragrafo a non credere che io intenda scrivere la satira de’ patrioti. Se il patriota è l’uomo che ama la patria, non sono io stesso un patriota? Come potrei condannare un nome che onora tanti amici, de’ quali or piango la lontananza o la perdita? Noi possiamo esser superbi che in Napoli la classe de’ patrioti sia stata la classe migliore: ivi, e forse ivi solamente, la rivoluzione non è stata fatta da coloro che la desideravano sol perché non avevano che perdere. Ma in una grande agitazione politica è impossibile che i scellerati non si rimescolino ai buoni, come appunto, agitando un vaso, è impossibile che la feccia non si rimescoli col fluido. Il grande oggetto delle leggi e del governo è di far sí che, ad onta de’ nomi comuni de’ quali si vogliono ricoprire, si possano sempre distinguere i buoni dai cattivi, e che si riconosca per patriota solo colui che è degno di esserlo. Allora i cattivi non corromperanno l’opera de’ buoni. Allora il governo de’ patrioti sará il migliore de’ governi, perché sará il governo di coloro che amano la patria. Ma tale è la dura necessitá delle cose umane, che spesso le maggiori avvertenze, che si prendono per far prevalere i buoni, non fanno che allontanarli e verificare l’antico adagio: che nelle rivoluzioni trionfano sempre i pessimi.

Nelle altre rivoluzioni i rivoluzionari non buoni han fatto sorgere princípi pessimi. In quella di Napoli princípi non nostri e non buoni fecero perdere gli uomini buoni. Nulla di migliore degl’individui che avevamo, perché i princípi loro individuali erano retti: se le operazioni politiche non corrisposero alle loro idee, ciò avvenne perché i princípi pubblici non erano di essi ed erano fallaci. Questi princípi politici per necessitá doveano corromper tutto.

Alcuni falsi patrioti o maligni speculatori, ai quali né la classe de’ buoni né un solo del governo aderí mai, dicevano che tutti gli aristocratici, che tutt’i vescovi, tutt’i preti, tutt’i ricchi dovevano essere distrutti. Non erano contenti che fossero eguagliati agli altri. La repubblica fiorentina operava una volta cogli stessi principi; e la repubblica fiorentina fu perciò in una continua guerra civile, che finalmente produsse la sua morte. Questo avviene inevitabilmente tutte le volte che la repubblica non è fondata sopra la giustizia; e non lo è mai ogni qual volta, dopo aver distrutta la classe, continua a perseguitar l’individuo, non perché ami le distinzioni della classe giá estinta, ma solo perché le apparteneva un giorno. I romani si contentarono di far che i plebei potessero ascendere a tutte le cariche: questo era il giusto e formava la libertá; se essi avessero voluto escluderne i patrizi sol perché erano patrizi, sarebbe stato lo stesso che voler rimettere il patriziato dopo averlo distrutto e voler far nascere la guerra civile.

Pretendevano non doversi impiegar nessuno di coloro che aveano ben servito il re. Era giusto che non s’impiegassero coloro, se mai ve ne erano, che lo aveano servito nei suoi capricci, nelle sue dissolutezze, nelle sue tirannie; che doveano l’onore di servire all’infamia onde si eran ricoperti. Ma molti, servendo il re, avean servita la patria; e molti altri, al contrario, non aveano potuto servire il re, perché non meritavano servir la patria: l’escluder quelli, l’ammetter questi, sol perché quelli aveano servito il re e questi non giá, non era lo stesso che tradire la patria e farla servire da coloro che non sapeano servirla?

Chi dunque dovea impiegarsi? Coloro solamente che erano patrioti. La repubblica napoletana fu considerata come una preda, la di cui divisione spettar dovea a pochissimi; e questo fu il segnale, né poteva esserlo diversamente, della guerra civile tra la parte numerosa della nazione e la parte debole.

Questo fece mancare tutt’i buoni agenti della repubblica: se un uomo di genio e da bene è raro in tutto il genere umano, come mai può ritrovarsi poi facilmente in una classe poco numerosa? È vero che i clamori della folla né esprimevano il voto de’ buoni né eran di norma al governo; ma, in circostanze precipitose ed incerte, quando la curiositá pubblica è grandissima ed ignote sono ancora le massime di un governo nuovo, né vi è tempo e modo da paragonare le voci ai fatti, i clamori, sebben falsi, producono un male reale, perché il popolo li crede massime del governo e se ne offende. Il piú difficile, in tali tempi, è il far sorgere una opinione che dir si possa pubblica; fare che nel tempo istesso e parlassero molti, perché le voci riunite producono effetto maggiore, e le parole fossero concordi, onde l’effetto, per contrasto delle medesime, non venisse distrutto. Questo, per altro, era in Napoli piú difficile ad ottenersi che altrove; tra perché la rivoluzione non era attiva, ma passiva, né vi era, in conseguenza, un’opinione predominante, ma si imitavano quelle di Francia, le quali erano state molte e diverse, onde è che vi erano alcuni «terroristi», altri «moderati», ecc.; tra perché le opinioni non eran libere, e spesso prevaleva per effetto di forza quella che non era la piú comune; tra perché finalmente il tempo fu brevissimo, e l’opinione pubblica, ovunque non vi è forza che possa dirigerla, ha bisogno di tempo lunghissimo.

È un’osservazione costante che il popolo non s’inganna mai ne’ particolari; ma una fazione s’inganna, e molto piú una fazione la quale riduce le virtú ed i talenti tutti ad un solo nome, di cui usa egualmente e Catilina e Catone. Il vero «patriotismo» è l’amor della patria, ed ama la patria chi vuole il suo bene ed ha i talenti per procurarlo. Se lo separate da queste idee sensibili, allora formate del patriotismo una parola chimerica, la quale apre il campo alla calunnia ed impedisce all’uomo da bene, che non è fazioso, di accostarsi al governo; allora si sostituisce al merito reale un merito di opinione che ciascuno può fingere, ed il merito reale rimane sempre dietro a quello dei ciarlatani.

Con questi mezzi abbiam veduti allontanati dal corpo legislativo il virtuoso Vincenzio Russo ed alcuni altri, tra’ quali uno che, in quelle circostanze, avrebbe potuto esser utile alla patria.

Se la nostra rivoluzione fosse stata attiva, i nostri patrioti si sarebbero conosciuti nell’azione precedente, il che non avrebbe lasciato luogo alla impostura, e si sarebbero conosciuti per quello che ciascun valea. Si è detto realmente che le guerre civili fanno sviluppare i geni di una nazione, non perché li facciano nascere, ma perché li fanno conoscere; perché ciascuno nell’azione si mette al posto che il suo genio gli assegna, e la scelta per lo piú suole riuscir buona, perché si giudica dell’uomo dai suoi fatti.

Presso di noi l’uomo era riputato patriota da che apparteneva ad un club. Ma, quando anche questa invenzione inglese di club fosse stata atta a produrre un giorno una rivoluzione, pure, non avendola prodotta, non potea far giudicare degli uomini se non dalle parole. I nostri clubs non avean ancora superata la prima prova delle congiure, che è quella di conservare il segreto tra il numero: composti sulle prime da pochi individui, allorché incominciò la persecuzione, si sciolsero. Quando venne la rivoluzione, si trovarono moltissimi, i quali non aveano fatto altro che dare il loro nome negli ultimi tempi, uomini che non si conoscevano neanche tra loro, e tra costoro fu facile a qualunque audace rimescolarsi e dichiararsi patriota.

Cosí la patria fu in pericolo di esser vittima dell’ambizione de’ privati, poiché non si trattava di soddisfar questa con servigi resi alla patria medesima, ma bensí con quelli che taluno forsi voleva renderle; non si esaminava chi sapeva, chi potea, ma si cercava chi voleva; ed in tale gara il piú audace mentitore, il piú sfacciato millantatore doveano vincere il merito e la virtú sempre modesta.

XXII

ACCUSA DI ROTONDO – COMMISSIONE CENSORIA

S’incominciò dai primi giorni della repubblica a fare una guerra a tutti gl’impiegati: accuse sopra accuse, deputazioni sopra deputazioni: chi ambiva una carica non dovea far altro che mettersi alla testa di un certo numero di patrioti e far dello strepito. Siccome tutto si aggirava su parole vaghe che niuno intendeva, cosí la ragione non poteva aver luogo e dovean vincere il numero e lo strepito, prima forza che gli uomini usano nelle gare civili, finché passino ad usarne un’altra piú efficace e piú crudele. All’uomo ragionevole e dabbene non rimaneva che involgersi nel suo mantello e tacere.

Prosdocimo Rotondo, eletto rappresentante, offese l’invidia di qualche suo nemico. Si mosse Nicola Palomba ad accusarlo: Nicola Palomba, che non conosceva Rotondo, ma, entusiasta ed in conseguenza poco saggio, credea che ei fosse indegno della carica, sol perché qualche suo amico lo credeva tale. Un’accusa di tale natura non avrebbe dovuto ammettersi, poiché l’indegnitá di taluno potrá far sí che il sovrano non lo elegga; ma, eletto che l’abbia, perché sia deposto prima del tempo stabilito dalla legge, vi è bisogno di un delitto. Ammessa però una volta l’accusa, conveniva esaminarla: nella repubblica deve esser libera l’accusa, ma punita la calunnia. Io non so se Rotondo fosse reo: so però ch’egli insisteva perché fosse giudicato; so che, dimesso dalla carica, pubblicò il conto della sua amministrazione, e tutti tacquero. Il presidente allora del comitato centrale vedea in

questo affare, in apparenza privato, quanto importasse conservarsi il rispetto alla legge, senza di cui non vi è governo, ed intendeva bene che una folla di patrioti poteva diventar fazione, subito che non fosse piú nazione. Ma, poco di poi, alcuni, disperando di farsi amare e rendersi forti colla nazione, vollero adular la fazione, e non si permise che dell’affare di Rotondo piú si parlasse. Palomba partí pel dipartimento del quale era stato nominato commissario. Gli fu data, è vero, la facoltá di proseguir l’accusa anche per mezzo de’ suoi procuratori: ma non si trattava di dargli una facoltá; era necessario imporgli un’obbligazione. Palomba non avrebbe dovuto partire, se prima non adempiva al dovere che gl’imponeva l’accusa. In un governo giusto l’accusatore è nel tempo istesso accusato; e, mentre si disputava se Rotondo era degno o no di seder tra i legislatori, Palomba non avea diritto di esser nominato commissario. Dispiacque a Rotondo ed a tutt’i buoni un silenzio che sacrificava il governo alla fazione e la fazione all’individuo.

Il segreto, una sola volta svelato, tolse ogni freno all’intrigo. Napoli si vide piena di adunanze patriotiche, che incominciarono a censurare le operazioni e le persone del governo. Ma non si contentavano di mettere cosí un freno alla condotta di coloro che potevano abusare della somma delle cose, ottimo effetto che la libertá de’ partiti produce nella repubblica; non si contentavano di osservarsi a vicenda: voleano combattersi, voleano vincersi; le loro censure voleano che avessero la forza di accuse, e cosí lo studio delle parti dovea degenerare in guerra civile.

Non vi fu piú uno il quale non fosse accusato; ma, siccome le accuse non erano dirette dall’amore della patria, cosí non erano fondate sulla ragione: motivi personali le facevano nascere, gli stessi motivi le facevano abbandonare. Si aggiugneva a ciò che, il piú delle volte, le contese decidevansi per autoritá degli esteri. Sebbene le loro decisioni talora fossero giuste, non potevano però mai esser legali, perché, anche quando si eseguiva la legge, parlava l’uomo. Cosí gli uomini non si avvezzavano mai a credere che a soddisfare i loro desidèri non vi fosse altra via che quella della legge; e, senza questa intima e profonda persuasione, non vi è repubblica. Il costume pubblico si corrompe; le sètte non servono piú la patria, ma bensí l’uomo che esse credono superiore alla legge, e quest’uomo fomenta in segreto una divisione che assoda il suo imperio. I partiti corrompono l’uomo, e l’uomo corrompe la nazione. Gl’intriganti prendono le loro misure, i buoni si vedono senza alcuna difesa, i faziosi (importa poco di qual partito essi siano: è fazioso chiunque non è del partito della patria) trionfano; e, siccome l’unico mezzo di acquetarli è quello di dar loro una carica, cosí si vedono elevati molti che la nazione non vuole e che ruinano poi la nazione.

Male funesto, non ultima causa della nostra ruina, e che i buoni non debbono giammai obbliare, onde esser piú cauti ad accordare la loro confidenza ai pessimi, che la forza della rivoluzione spinge sempre in alto! Essi divengono assai piú terribili in una rivoluzione di opinione, nella quale un sentimento che non si vede, un nome che si può fingere, tengono spesso il luogo delle vere virtú e del merito reale; in una rivoluzione prodotta da armi straniere, in cui è inevitabile la sconsigliata profusione delle cariche: tra il conquistatore, il quale spesso non sa ciò che dona né a chi dona, ma sa solo che ciò che dona non è suo; e tra i primi da lui impiegati, i quali rammentano piú i bisogni di un amico che quelli di uno Stato che odiavano, e, pieni ancora dell’impazienza di obbedire, di rado sanno temperarsi nell’uso di comandare.

Il governo, per acquetare un poco i rumori, istituí una commissione di cinque persone per esaminare coloro che doveano impiegarsi: non erano impiegati se non quei tali che dalla commissione venissero approvati; chi era riprovato veniva escluso per sempre.

Questa istituzione fu effetto delle circostanze. Le accuse, i reclami erano infiniti; il tempo era breve; il bisogno di ben conoscere le persone urgente. La commissione della quale parliamo, fu imaginata a fine di bene; le furon date istruzioni limitatissime, quasi private: ma essa divenne, contro la mente del governo, una magistratura che avea ed esercitava giurisdizione regolare, manteneva un officio, riceveva petizioni, faceva decreti. L’istituzione cangiò natura, e questo avvien sempre in tutte le istituzioni simili. Se, invece di istituire una commissione, si fosse obbligato Palomba a proseguire l’accusa; se fosse stato condannato, come era di giustizia, o Palomba o Rotondo, quattro quinti de’ clamori sarebbero cessati, ed il governo avrebbe conosciuto meglio le persone e le cose. Accaduto una volta un disordine, specialmente ne’ primi giorni di un governo nuovo, di rado il popolo conosce la vera cagione del medesimo, e tutto attribuisce al governo: male inevitabile e gravissimo, il quale deve persuaderci che non tutto ciò di cui il popolo si doleva era sempre cagionato dal governo; che le intenzioni eran sempre pure, ma non eran sempre buone le istituzioni; e queste non eran sempre buone, perché li princípi, dalli quali dipendevano, eran fallaci; e finalmente che in un governo nuovo è necessitá far quanto meno si possa d’istituzioni tali che possino divenir arbitrarie. Tutto deve esser potentemente afferrato dalla mano di chi governa.

XXIII

LEGGI – FEDECOMMESSI

Io seguo il corso delle mie idee anziché quello de’ tempi. Tanti avvenimenti si sono accumulati e quasi addensati in sí breve tempo, che essi, invece di succedersi, s’incrocicchiano tra loro, né se ne può giudicar bene se non osservandone i loro rapporti.

Il momento della rivoluzione in un popolo è come un momento di tumulto in un’assemblea: i dispareri, il calore della disputa, destano tanti e sí vari rumori, che impossibile riesce far ascoltare la voce della ragione. Se allora un uomo rispettabile per la sua prudenza e pel suo costume si mostra, gli animi si acchetano, tutti l’ascoltano: il suo nome gli guadagna l’attenzione di tutti, egli può far udire la voce della ragione. Nel primo momento l’opinione è necessaria per dar luogo alla ragione; ma nel secondo conviene che la ragione sostenga e confermi l’opinione.

Que’ fatti che finora abbiam riferiti aveano per iscopo il guadagnare la confidenza del popolo prima che il governo avesse agito; ma il governo dovea finalmente agire e dovea colle opere meritarsi quella confidenza che avea giá guadagnata… Esso si occupò dell’abolizione de’ fedecommessi e della feudalitá, che formavano presso di noi i piú grandi ostacoli all’eguaglianza ed al governo repubblicano.

L’istituzione de’ fedecommessi porta seco lo spirito di conservar i beni nelle famiglie, spirito non compatibile coll’eguaglianza nelle repubbliche ben ordinate. Forse, cosí in Roma come in Sparta, l’amor dell’eguaglianza avea fatto nascere lo spirito della conservazione de’ beni. Ma i nostri fedecommessi non aveano di romano altro che il nome e le formole esterne di ciò che chiamasi «sostituzione»: queste antiche istituzioni, unite alle idee di nobiltá ereditaria e di successione feudale, avean prodotto presso di noi un mostro, di cui a torto incolperemmo i romani. Nel regno di Napoli, ove tutte le ricchezze sono territoriali, si erano i fedecommessi moltiplicati all’estremo, e moltiplicato avevano ancora il numero de’ celibi, degli oziosi, de’ poveri, de’ litiganti, ecc.

La riforma fu semplice e ragionevole. Non si distrusse la volontá de’ testatori che fino a quel tempo aveano ordinato de’ fedecommessi, tra perché una legge nuova non deve mai annullare i fatti precedenti, tra perché la riforma della proprietá non deve distruggerne il fondamento, il quale altro non è che il possesso autorizzato dal costume pubblico (34). Ma i beni de’ fedecommessi rimanendo liberi in mano de’ possessori e la legge proibendo di ordinarne de’ nuovi, una sola generazione sarebbe stata sufficiente a produrre quella divisione che si desiderava, ma che, ordinata dalla pubblica autoritá, si sarebbe mal volentieri accettata.

A’ secondogeniti ed a’ legatari fu disposto darsi il capitale di quella parte del fedecommesso di cui godevano la rendita: cosí ebbero anche essi una proprietá da trasmettere ai loro figli. Il calcolo de’ capitali fu ordinato farsi sulla rendita alla ragione del tre per cento; e cosí, in una nazione ove i fondi sono in commercio alla ragione non minore del cinque e del sei per cento, le porzioni de’ legatari venivano indirettamente a duplicarsi, e si correggeva, senza violenza, quella disuguaglianza che lo spirito di primogenitura avea introdotta nelle porzioni de’ figli di uno stesso padre.

Questa legge fu saggia e ben accetta a tutti: i possessori stessi de’ fedecommessi non perdevano tanto colla cessione ai legatari, quanto guadagnavano coll’acquistar la libera proprietá de’ loro beni in una nazione che incominciava a sviluppare qualche attivitá. I legami de’ fedecommessi erano giá mal tollerati, e da’ dissipatori che volean abusare dei loro beni, e da’ saggi i quali voleano usarne in bene.

Forse sarebbe stato giusto aggiugnere alla legge la condizione aggiuntavi dall’imperatore Leopoldo, allorché fece la riforma dei fedecommessi di Toscana. Giudicando questo ottimo sovrano che manca alla giustizia chiunque priva del diritto alla successione un uomo nato e nodrito con esso, riserbò la capacitá di succedere ai fedecommessi non solo ai possessori, ma anche ai chiamati giá nati o da nascere da matrimoni contratti prima della legge, molti de’ quali eransi fatti colla speranza di una successione fedecommessaria.

Rimanevano ancora alcuni altri oggetti da determinarsi: rimaneva a prendersi delle misure sui tanti e sí ricchi monti di maritaggi che vi sono in Napoli e che altro in realtá poi non sono che fedecommessi di famiglia e di gente… Ma tali oggetti dipendevano dalla legge testamentaria, dallo stato della nazione e da tante altre considerazioni, che era meglio aspettare tempo piú opportuno. Di rado nella rivoluzione francese ed in quelle che sono scoppiate in conseguenza, di rado si è peccato per soverchia lentezza in far le leggi: spessissimo per soverchia precipitanza.

(34) Una legge, dice Macchiavelli, che guarda molto indietro, è sempre tirannica.

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