XXVII
GUARDIA NAZIONALE
Il nostro governo erasi ridotto a fondar tutte le speranze della patria sulla guardia nazionale. Ma la guardia nazionale dev’essere la forza del popolo, e non mai quella del governo.
Tutto fu ruinato in Francia, quando il governo credette non dover avere altra forza: la Vandea non fu mai ridotta, gli assassini ingombrarono tutte le strade, non vi fu piú sicurezza pubblica ed invece della tranquillitá si ebbero le sedizioni. Il primo difetto di ogni guardia nazionale è l’esser piú atta all’entusiasmo che alla fatica; il secondo è che, quando non difende la nazione intera, quando a buon conto una parte della nazione è armata contro dell’altra, è impossibile evitare che ciascun partito non abbia tra le forze dell’altro dei seguaci, degli amici, i quali impediscano o almeno ritardino le operazioni.
La vera forza della guardia nazionale risulta dall’uniformitá dell’opinione: ove non siasi giunto ancora a tale uniformitá, convien usare molta scelta nella sua formazione. Non si debbono ammettere se non quelli i quali si presentino per volontario attaccamento alla causa, o che abbiano
nella loro educazione princípi di onestá e nel loro stato civile una cautela di responsabilitá. Quei tali che Aristotile direbbe formare in ogni cittá la classe degli ottimi, se non sono entusiasti, di rado almeno saranno traditori.
Io parlo sempre de’ princípi di una rivoluzione passiva. Nei primi giorni della nostra repubblica infiniti furono quelli che diedero il loro nome alla milizia nazionale: rispettabili magistrati, onestissimi cittadini, i principali tra i nobili, quanto insomma vi era di meglio nella cittá, disperando dell’abolito governo, voleva farsi un merito col nuovo. Conveniva ammetterli: si sarebbe ottenuto il doppio intento di compromettere molta gente e di guadagnare l’opinione del popolo: in ogni evento infelice, il libro che conteneva i loro nomi avrebbe forse potuto formar la salute di molti. Ma si volle spinger la parzialitá anche nella formazione della guardia nazionale: allora il maggior numero si ritirò, e non si ebbe l’avvertenza neanche di conservare il libro che conteneva i loro nomi.
Si formarono quattro compagnie di patrioti: essi erano tutti entusiasti, tutti bravi. Ma quattro compagnie erano poche. Si dovette ritornare al punto donde si era partito, ed ammettere coloro che si erano esclusi. Ma essi non ritornavano piú. Si ordinò che nessuno potesse essere ammesso a cariche civili e militari, se prima non avesse prestato il servizio nella guardia nazionale. Ciò era giusto e dovea bastare. Ma si volle ordinare che tutti si ascrivessero, e nel tempo stesso si ordinò un’imposizione per coloro che volessero essere esentati: dico «volessero», perché i motivi di esenzione erano tali, che ciascuno potea fingerli, ciascuno potea ammetterli, senza timore di poter essere smentito se li fingeva, o rimproverato se gli ammetteva. Che ne avvenne? Coloro che poteano esser mossi dal desiderio delle cariche erano senza dubbio i migliori del paese, ma essi per lo piú erano ricchi, e comprarono l’esenzione: furono costretti ad ascriversi coloro che non aveano né patriottismo né onestá né beni, e cosí la legge fece passar le armi nelle mani dei nostri nemici.
Si volle sforzar la nazione, che solo si dovea invitare. L’imposizione riuscí gravosissima per le province. Il governo era passato da un estremo all’altro: prima non volea nessuno, poi voleva tutti.
Era però da riflettersi che questa misura fu presa quando giá incominciava a vedersi lo stato intero delle cose volgersi ad inevitabile rovina. Allora, siccome in chi opera non vi è luogo a calcolo, cosí in chi giudica non deve predominar il sistema. Il governo allora giuocava, come suol dirsi, tutto per tutto. Trista condizione di tempi, nei quali taluno, per non aver potuto far ciò che voleva, è poi costretto a volere ciò che non può! Altre massime, altra direzione nelle prime operazioni avrebbero fatta evitar la necessitá di dover fondare tutte le speranze della patria nella guardia nazionale; e forse la patria sarebbesi salvata.
Se la guardia nazionale in Francia erasi sperimentata inutile, in Napoli dovea prevedersi inevitabilmente nociva, perché, essendo la rivoluzione passiva, la massima parte della nazione dovea supporsi almeno indifferente ed inerte. Avendo io osservato le guardie nazionali in molti luoghi delle province, ho sempre trovata piú diligente ed energica quella dove o erasi sofferto o temevasi danno dalle insorgenze. L’amor di sé ridestava l’amor della patria. Pure, ad onta di tutto ciò, la guardia nazionale non produsse in noi alcuno sconcerto, e nella capitale fu piú numerosa e piú attiva di quello che si avrebbe potuto sperare. Insomma, né il governo mancava di rette intenzioni, né il popolo di buona volontá: l’errore era tutto nelle massime e nella prima direzione data agli affari. A misura che ci avviciniamo al termine di questo Saggio, vediamo i mali moltiplicarsi: son come tanti fiumi, e tutti diversi, ma che intanto derivano dalla stessa sorgente; ed il maggior utile, che trar si possa dalla osservazione di questi avvenimenti, io credo che sia appunto quello di vedere quanti generi di mali posson derivare da un solo errore. Gli uomini diventeranno piú saggi, quando conosceranno tutte le conseguenze che un picciolo avvenimento può produrre.
XXVIII
IMPOSIZIONI
Championnet, entrando coll’armata vittoriosa in Napoli, impose una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Tale imposizione era assolutamente esorbitante per una sola cittá giá desolata dalle immense depredazioni che il passato governo vi avea fatte.
Championnet avrebbe potuto esigere il doppio a poco a poco, in piú lungo spazio di tempo. Quando Championnet se ne avvide, si pentí e mostrò pentirsi del fatto, ma non lo ritrattò; anzi stabilì quindici milioni per le province, a suo tempo.
Ma chi potrebbe esporre il modo, quasi direi capriccioso, col quale un’imposizione per se stessa smoderata fu ripartita? Nulla era piú facile che seguire il piano della decima che giá esigeva il re, e proporzionare cosí la nuova imposizione alla quantitá dei beni che nell’officio della decima trovavasi giá liquidata. Si videro famiglie milionarie tassate in pochi ducati, e tassate in somme esorbitantissime quelle che nulla possedeano: ho visto la stessa tassa imposta a chi avea sessantamila ducati all’anno di rendita, a chi ne avea dieci, a chi ne avea mille. Le famiglie dei patrioti si vollero esentare, mentre forse era piú giusto che dassero le prime l’esempio di contribuire con generositá ai bisogni della patria. Si cangiarono tutte le idee: ciò che era imposizione fu considerato come una pena, e non si calcolarono tanto i beni quanto i gradi di aristocrazia che taluno avea nel cuore. – Noi tassiamo l’opinione – risposero i tassatori ad una donna che si lagnava della tassa imposta a suo marito, il quale, non avendo altro che il soldo di uffiziale, fuggendo il re, avea perduto tutto. Si tenne da coloro ai quali il governo avea commesso l’affare una massima che appena si sarebbe tollerata in un generale di un’armata vittoriosa e nemica. Una tassa imposta sul pensiero apriva tutto il campo all’arbitrio. Questo è il male che producono le imposizioni male immaginate e mal dirette; quando anche evitate l’ingiustizia, non potete evitare il sospetto che producono sul popolo gli effetti medesimi dell’ingiustizia.
Difatti non vi era in Napoli tanto danaro da pagar l’imposizione. Fu permesso di pagarla in metalli preziosi ed in gioie. Chi era incaricato a riceverle ne fu nel tempo istesso il tesoriere, il ricevitore, l’apprezzatore; ed il popolo credette che tutto fosse trafficato non colla bilancia dell’equitá, ma con quella dell’interesse dell’esattore. Io non intendo affermare ciò che il popolo credeva. Il governo, per dar fine ai tanti reclami, nominò una commissione composta di persone superiori ad ogni sospetto.
Mentre in Napoli si esigeva una tale imposizione, le province erano vessate per un ordine del nuovo governo, con cui si obbligavano le popolazioni a pagar anche l’attrasso di ciò che doveano all’antico. Quest’ordine fatale dovette esser segnato in qualche momento d’inconsideratezza e per ragion di pratica. Si seguí l’antico stile, lo stile di tutt’i governi: difatti fu un solo dei membri componenti il governo quegli che sottoscrisse il decreto, ed io so per cosa certa che non lo credette di tanta importanza da meritare una discussione cogli altri suoi compagni. Non avvertí che quello stile non conveniva ad una rivoluzione. Poco tempo prima, il governo avea abolito un terzo della decima, ed avea fatta sperare l’abolizione intera. La decima interessava piú la capitale che le province, e di quella piú che di queste, per eterna fatalitá, si occupò sempre il nostro governo. Ma le province si doveano aspettar mai questo linguaggio da un governo nuovo, che avea bisogno di guadagnar la loro affezione?
In Ostuni Giuseppe Ayroldi, uno de’ principali della cittá e che conosceva gli uomini, si oppose alla pubblicazione ed all’esecuzione dell’ordine. Egli ne prevedeva le funeste conseguenze.
Il governo non si rimosse; e quale ne fu l’effetto? Ostuni si rivoltò, ed Ayroldi fu la prima vittima del furore popolare.
Esse nel tempo stesso erano tormentate dalle requisizioni arbitrarie di taluni commissari e generali. Mali inevitabili in ogni guerra, ma maggiori sempre quando la nazione vincitrice non ha quell’energia di governo, che tutto attira a sé e fa sí che le passioni dei privati non turbino l’unitá delle pubbliche operazioni. L’esercito di una repubblica, se non è composto dei piú virtuosi degli uomini, cagionerá sempre maggiori mali dell’esercito di un re. Questi mali portano sempre seco loro il disgusto de’ popoli verso colui che ha vinto, e impongono al vincitore verso l’umanitá l’obbligo di un compenso infinito, che solo può assicurare la conquista e quasi render legittima la forza.
XXIX
FAIPOULT(40)
Finalmente venne Faipoult. Egli con un editto, in cui si ripeteva un decreto del Direttorio esecutivo, dichiarò tutto ciò che la conquista avea dato alla nazione francese. Si parlava di conquista dopo che si era tante volte promessa la libertá; e, per conciliar la promessa e l’editto, si chiamava «frutto della conquista» tutto ciò che apparteneva al fuggito re.
Ma quali erano i beni del re, che non fossero della nazione? Si chiamava «fondo del re» la reggia, che suo padre non avea al certo condotto da Spagna; si chiamavano «beni del re» i fondi dell’ordine di Malta e dell’ordine costantiniano, i quali erano certamente de’ privati (41); i monasteri, che erano de’ monaci e che, ove non vi fossero piú monaci, non perciò diventavano beni del re; gli allodiali, de’ quali il re non era che amministratore; e si spinse la cosa fino al segno di dichiarar beni del re i banchi, deposito del danaro de’ privati, la fabbrica della porcellana e gli avanzi di Pompei, nascosti ancora nelle viscere della terra. Il re istesso, ne’ momenti della maggior ebbrezza del suo potere, non avea giammai tenuto un simile linguaggio, e forse in bocca di un re sarebbe stato meno dannoso alla nazione e meno strano: meno dannoso, perché, per quanto ei si prendesse, tutto rimaneva alla nazione, tra la quale egli stesso restava; meno strano, perché egli era realmente il capo di quel governo, e non vi era nei suoi detti la contraddizione che si osservava nell’editto di Faipoult.
Tale editto potea far rivoltar la nazione: Championnet lo previde e lo soppresse; Faipoult si oppose, e Championnet discacciò Faipoult.
O Championnet, tu ora piú non esisti; ma la tua memoria riceva gli omaggi dovuti alla fermezza ed alla giustizia tua. Che importa che il Direttorio abbia voluto opprimerti? Egli non ti ha però avvilito. Tu diventasti allora l’idolo della nazione nostra.
Il richiamo di Championnet fu un male per la repubblica napolitana. Io non voglio decidere del suo merito militare: ma egli era amato dal popolo di Napoli; e questo era un merito ben grande.