Vinicio Capossela – Nel paese dei Coppoloni, regia di Stefano Obino. Tratto dal romanzo Il paese dei Coppoloni di Vinicio Capossela, Feltrinelli ed. Con Vinicio Capossela (il narratore), Armando Testaduccello, Ciccillo Di Benedetto, Giovanni Sicuranza, Peppe Matalena, La banda della posta. Distribuito da Nexo Digital e la Effe. Cliccare qui per la lista delle sale.
Solo per due giorni al cinema un film con Vinicio Capossela mattatore assoluto in qualità di musicista, narratore, protagonista. Tratto da un suo romanzo edito da Feltrinelli, Nel paese dei Coppoloni ripercorre tra documentarismo e fantastico il mondo della più remota Iripinia. Paesi abbandonati e meravigliosi, rovine di ferro e rovine della civiltà contadina. Sono queste le cose migliori, e però il film non ce la fa mai a emanciparsi davvero dal suo essere (anche) promozione del prossimo disco in uscita. Voto 6 e mezzo
Per due giorni al cinema, secondo una formula di programmazione che ormai si sta consolidando, e che pare piaccia parecchio agli spettatori (lo confermano le molte presenze di settimana scorsa alle proiezioni di Sherlock, l’abominevole sposa) probabilmente per l’aura di evento e esclusività che con le date bloccate si crea intorno al film. Domani e dopodomani tocca, sempre con la distribuzione di Nexo Digital che per prima ha intuito le potenzialità della formula due-giorni, al nuovo film con (e anche in buona parte di) Vinicio Capossela dopo il molto interessante Indebito del 2014. Ma se là Capossela andava a esplorare insieme al regista Daniele Segre la Grecia del debito e soprattutto quella del rebethiko, la musica popolare degli esuli dalle coste anatoliche dell’Egeo, stavolta in questo Nel paese dei Coppoloni il cantante-musicista-scrittore e molte altre cose ancora si mette deciso al centro della narrazione, facendosi anzi motore narrativo lui stesso. Guidandoci in un film che è molte (troppe?) cose, e non così facile da imbrigliare in un genere o in una forma-cinema definita. Certo, documentario, ma nello stesso tempo anche messa in scena surrealista e onirica, con margini di fictionalizzazione e momenti, più che musicali, da musical. Uno strano e anche incongruo oggetto impastato che è meglio guardare senza interrogarsi troppo sul suo statuto e sulla sua coerenza o incoerenza interna. Siamo in un Sud meraviglioso e semiabbandonato, un Sud di montagna e di cupezze assai lontane dal cliché della mediterraneità, un mondo di rupi e cupe boscaglie, ferraglie, ferrovie in disuso spettacolarmente rugginose, con rari sopravissuti che si aggirano – come in un post-catastrofico – tra i villaggi vuoti (paese-mio-che-stai-sulla-collina!) ora custodi di un mondo perduto, ora testimoni del passato, forse già fantasmi di se stessi. Siamo nell’alta e più impervia Iripinia, appennino scabro di dirupi e pascoli, siamo se ho capito bene soprattutto a Calitri, paese che quando lo vedi nella sua totalità ripreso dal basso dal regista Stefano Obino rimani senza fiato dalla bellezza (e ti chiedi come un popolo, il nostro, che per secoli e secoli e secoli ha edificato architetture spontanee tanto mirabili abia poi potuto deturpare in poche decadi di modernità questo paese). Calitri, che custodisce le radici di Capossela, nato sì in Germania ma da un padre che da lì veniva. Luogo reale e insieme fantastico, proiezione di un uomo che da quell’eden è stato estromesso o non ci ha mai potuto entrare davvero. Nel suo romanzo edito da Feltrinelli Capossela lo ha battezzato, o almeno ha battezzato un posto che molto gli somiglia, Il paese dei Coppoloni (per via dei copricapi necessari a ripararsi da intemperie e vento dell’appennino alto), andando ad ambientarvi ora storie fantastiche ora in presa diretta sul reale, in una evocazione quasi da medium, o sciamanica, di un mondo che scivola sempre più nell’ombra. Vinicio percorre quel luogo e altri luoghi intorno e vicini suonando e cantando (perlopiù i pezzi del suo nuovo Canzoni della Cupa in uscita a marzo), ma anche incontrando e intervistando personaggi bislacchi che di quella parte di Irpinia sembrano la memoria storica e antropologica vivente. E intanto, incessantemente la voce di Capossela spiega, chiarisce, divulga, ricorda fatti persone e cose. Ma soprattutto recita, anzi salmodia con un che vaghissimo, ma proprio un che, di Carmelo Bene, in campo e fuori campo in una lingua fortemente evocativa, densa di parole oscure e incantatorie tratte dalla tradizione dell’irpinate ma anche pure invenzioni caposseliane. Lingua-pastiche, materica, terragna e insieme della (in)consistenza dei sogni e dei fantasmi. Voce, va detto, troppo presente e protagonista, e qualche silenzio, qualche pausa in più e qualche egolatria in meno avrebbero di sicuro aiutato. Diciamo che la presenza del musicista-mattatore è soverchiante, in un racconto che ha come perno lui e a lui inesorabilmente ritorna, diversamente da quanto accadeva in Indebito dove Capossela si metteva al servizio, molto bene, del rebethiko. In questo vagare tra monti, anfratti, ruderi da archeologia industriale e da archeologia contadina l’ambizione sembrerebbe quella di restituire il tempo sospeso, o circolare, della civiltà premoderna recuperandone i miti (e azzardandosi perfino a crearne di nuovi) e i riti che ne scandivano la vita, individuale e di insieme. Senza dimenticare il numinoso, il sacro, rifugiatosi secondo Capossela nella natura o in quel che ne resta (e però quel totem-installazione nel bosco non è tra le cose più convincenti del film). Le accensioni fantastiche e le derive nel surreale qualche volta funzionano e qualche volta no. Funziona molto bene per dire quella trebbiatrice abbandonata come un cetaceo di metallo rosso e trasformata in una macchina volante cavalcata e comandata dal protagonista (La trebbiatrice volante è un’opera di Marco Stefanini e Dum Dum Aredamento: cito perché meritano davvero). E però molte parti son meno riuscite o troppo compiaciute o autoriferite. Capossela non perde occasione per raccontarci con la sua voce molto, troppo, di tutto, svariando tra campi del sapere e discipline diverse – dalla musicologia alla filosofia all’antropologia alle religioni – e tentando cortocircuiti e incroci con esiti talvolta folgoranti ma anche confusi e discutibili. Si ha l’impressione che stavolta Vinicio C abbia tolto ogni freno e ogni filtro, causando un’eruzione vulcanica che dall’inconscio arriva dritta fino a noi. Ci sono parti meravigliose, come no. I paesaggi che sembrano davvero i luoghi di miti antichi e la dimora degli dei (ricordando in questo le parti migliori di Bella e perduta di Pietro Marcello). La bellezza insostenibile della ferrovia abbandonata (ah, il ruin porn!), e i documenti visivi sulla sua costruzione a fine Ottocento quando fu salutata come lo strumento del progresso per strappare quelle terre all’isolamento e alla subalternità, economica e culturale. E gli abitanti di Calitri. Le donne che in cerchio cantano i canti della tradizione, il barbiere raccontastorie, il cieco che assegna a ogni vivente un ‘nome storto’, un soprannome, e sono invenzioni formidabili. Convince meno il concerto celebrativo dei 25 anni di Capossela in piazza con gente festante e danzante come in una notte bis della Taranta. Nel paese dei Coppoloni è la proiezioni in immagini e musica e parole di un poeta contadino che ha fatto il liceo (e pure l’università), ma che del poeta contadino conserva lo sguardo insieme ingenuo e sapiente, la voglia inesasusta di conoscenza e la capacità di mescolare in forma non ortodossa e non accademica i saperi. Credo che il progetto del musicista e dei suoi collaboratori fosse di realizzare un film tout-court. Operazione riuscita solo parzialmente (o, se volete, parzialmente fallita), perché Nel paese dei Coppaloni si muove tra troppi sentieri differenti, documentando ma anche ambendo ad andare oltre il documentario, e non ce la fa nemmeno ad emanciparsi davvero dal solito film promozionale del disco in uscita con i pezzi dislocati strategicamente in corso di racconto. E però bisogna anche riconoscere che resta parecchio al di sopra delle solite produzioni che capita di vedere al cinema con cantanti e musicisti.